Certi posti non appartengono ai bambini. Ne sono, e raramente, visitatori stranieri; all’opera in due casi mi è capitato di incrociarne qualcuno, una volta nei pressi dell’Arena di Verona delle piccole comparse raggiungevano le quinte in fila indiana tenendosi per mano, sì nei loro abiti di scena da popolani della Carmen, accompagnati e seguiti da un adulto sembravano una scolaresca in gita, bambini calma non correte e non litigate, più che figuranti; in un’altra occasione ai camerini del San Carlo – non si immagina quanto viavai di signore e signori a salutare il direttore d’orchestra e il soprano e il tenore chiudendosi le porte alle spalle che uno quasi pensa chissà cosa accade dietro quelle porte – Gianni Amelio teneva per mano la nipote e spiegava alla piccola Lucia di Lammermoor che ferma davanti allo specchio, toccandolo con le dita, sulla scena, avrebbe dovuto contare fino a cinque prima di scappare via e si raccomandava tirando con la mano avanti la nipotina come se avesse bisogno del suo aiuto per farglielo intendere bene, come si conta fino a cinque davanti allo specchio, all’attrice seienne.
L’opera è un luogo spaventoso se vista dal retropalco, ma spaventoso in quella forma sublime che si addice a un luogo, a una storia, che ha ben chiaro non semplicemente la trama di una vita ma anche e soprattutto l’idea della propria morte. Quando un tenore esce di scena (io ho guardato in faccia Coppellius dei Contes d’Hoffman mentre si allontanava dal palco torvo e diabolico e sembrava non vedermi con tutto quell’odio nell’espressione che pure con me non aveva a che fare ed era come se non lo turbassi, io con i miei abiti borghesi e con la mia completa estraneità alla messa in scena, come se il backstage fosse un prolungamento appartato del palco – o, addirittura, più vero – e potesse attraversarmi se gli avessi ostruito il passaggio) si porta dietro il tempo del racconto, si trascina nei camerini il proprio destino generalmente tragico e di morte.
In quella stessa circostanza – che poi è l’unica in cui ho assistito a uno spettacolo operistico dal retropalco – al teatro Alla Scala ho cercato di distrarre Olympia mentre la ponevano su un carretto e nonostante mancassero diversi minuti al suo ingresso in scena mi ha fatto un sorriso da automa e ha mosso le braccia come un robot; ecco, a teatro generalmente – ed è quello che si dice degli attori del cinema, di quelli bravi, che non abbandonano mai il proprio personaggio fino a riprese terminate – che dietro le quinte i sentimenti della trama restino è piuttosto solito ma si lasciano disturbare da una presenza estranea o magari conosciuta all’attore (una moglie? Una fidanzata? Un figlio? Un amico in visita?), permettono un varco, sono flessibili, non badano alla commistione di tempi, quello del copione e quello privato, umano. All’opera tutto ciò che non appartiene all’opera non esiste. Se dalla platea qualcuno tossisce è un rumore, se, come è capitato a me, sei nel retropalco – immobile perché non puoi disturbare, non puoi prenderti un secondo del tempo dello spettacolo, non puoi essere un incidente, non puoi inciampare e cadere e devi occupare quei trenta centimetri quadrati in cui non ti incroci con i macchinisti, non sei d’intralcio a una carrucola, non puoi parlare con gli attrezzisti, insospettire il direttore di scena – sei un fantasma. Sei un fantasma che non porta testimonianza e mentre accade tutto quello che deve accadere e le scenografie cambiano con la perfezione dei moti astrali – e, giuro, lo stridio soffocato delle corde che salgono e scendono sembra il rumore che potrebbero fare i passaggi d’epoca se solo fosse possibile sentirli – e in fondo sei tu e neppure ci sei ma in realtà sei qualcosa di più, sei la testimonianza di come l’opera sia sopravvissuta al tempo, tanto più forte dell’uomo che l’assiste. Resistono parole come zimarra, per esempio, “Signora Rita che dice, gli mettiamo la zimarra?”, “E’ pesante la zimarra, la cuciamo alle spalle?”, “La zimarra nera va bene per Lord Enrico”, alla sarta che non rammenda nient’altro che un soprabito, la zimarra.
A Napoli ho sentito una addetta stampa lamentarsi della serietà dei registi, raccontare quanto siano incapaci di conservare la propria leggerezza una volta entrati in un teatro d’opera, diventano pesanti, ha detto. Mi sembrerebbe assurdo, anzi sarei terrorizzato, da un barbiere che ride e scherza o racconta storielle sconce mentre passa la lama sulla giugulare per ripulirmi completamente dalla barba, lo voglio serio e grave il mio barbiere mentre mi rade il collo, voglio che ricordi la facilità con cui si muore, che ricordi il peso dell’assenza di chi l’ha lasciato, pensi ai suoi figli e a sua madre e anche a quella fidanzata di gioventù di cui sente la mancanza proprio ora che sta invecchiando. E dirigere un’opera, considerato tutto ciò di cui è portatrice (senso, tradizione, testimonianza, amore, patria, sacrificio e tutti quei concetti desueti di cui si ha memoria ma che bisogna anche capire), tenuto conto dell’armonia estrema che si deve rispettare (i tempi della partitura, i tempi della recitazione, i tempi della scena, le distanze, i cambi di scenografia con mobili calati dall’alto, montagne trascinate da destra a sinistra e poi da sinistra a destra), dirigere un’opera equivale a tenere qualcosa di più di una lama affilata sulla giugulare, non ne possiamo accettare neppure come possibilità uno sbaglio, un fallimento – una volta ho sentito di un barbiere che radeva un suo amico e ridevano raccontandosi pettegolezzi e mentre la lama scorreva sul collo ripetendo un gesto anodino, quotidiano, con ferma sicurezza un altro uomo è entrato ridendo e quello, mentre teneva la lama sulla giugulare, incuriosito si è voltato di scatto –, un ritardo, una sbavatura. L’opera non può esistere se non in virtù della propria perfezione. E i teatri, La Scala, sono pieni di certi uomini topo scuri, in tute blu, che si muovono, si arrampicano, spostano, si danno indicazioni a voce bassa bassa e si fermano per qualche minuto negli angoli più bui del proscenio dividendosi in gruppetti e tenendosi in disparte, a volte si mischiano ai truccatori, ai parrucchieri e ai sarti: i tecnici della perfezione, perché è una perfezione materica, quella dell’opera, fatta di scadenze e spazi. Vedrete comparse e cantanti abbandonare il palco, dirigersi verso gli uomini topo per lasciargli in custodia gli oggetti – un calice, uno scudo, una lancia, un carretto – della scena precedente e prendersene altri ancora dalle loro mani – un cappello, un libro, un fiore – per poi ritornare a cantare; immaginate altrettanti tecnici che restano al di qua del proscenio e reggono scenografie, spostano alberi, completamente mimetizzati, assenti e necessari si dividono il nascondiglio con il maestro del coro che invece dal palco non si allontana un secondo e con i movimenti larghi della braccia sembra dirigerli tutti, i figuranti, il coro, gli scenici, gli oggetti a colpi di salterelli, persino me che me ne sto in uno spazio limitato da strisce gialle. È fatta di incursioni l’opera vista da questa prospettiva, gli attrezzisti sono l’estensione delle quinte, sono le ombre allungate degli attori, mentre gli attori sono la storia che irrompe nel retropalco, piena di ritmo e di tempo e quindi reale.
È una costruzione, un corso d’opera e una conservazione (a Parigi – a Garnier quanto a Bastille – nel foyer c’è ancora chi urla sboccato Programme! Programme! e sembra che debbano venderti un foglio rivoluzionario invece che il libretto della serata).
Quando un atto finisce un tecnico stacca una spina dalla corrente – quasi disattivasse un televisore, un po’ quello che avremmo voluto scoprire da bambini guardandoci dentro, tra i fili –, le comparse, gli attori con le sarte, i truccatori si dirigono ordinati verso il camerino affidando pezzi del loro ruolo a scenici e aiutanti, se ne liberano con grazia, tra loro c’è quasi sempre qualcuno che indossa una zimarra o un mantello e se lo tiene addosso mentre si allontana silenzioso – nella storia se non è già condannato lo sarà a breve – fa quel volteggio nell’aria che gli irrobustisce la figura, gli allunga l’ombra, e appare come appare sulla scena, di spalle, come l’opera lo vuole: al di sopra di qualsiasi altro uomo che invece non può e non sa immaginare la propria morte.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).