«Fisicamente non è mai stato malato», ha detto il padre dello scrittore emergente: «da piccolo era di carattere un po’ chiuso, questo sì, ma sempre buono e obbediente. Alquanto disordinato».
Il rapporto con la madre è più oscuro, è con lei che ha iniziato a dare segni di labilità emotiva. Lei si vantava con le amiche del suo talento precoce nel recitare l’Ave Maria in francese. Al ginnasio i compagni di scuola lo prendono in giro, conoscono la sua irascibilità e si divertono a stuzzicarlo. Diventa nevrastenico: è capace di passare dalla mitezza francescana alle botte.
All’università lo scrittore emergente s’immatricola alla facoltà di Chimica. La sceglie senza starci troppo a pensare. Poi si annoia, e smette di frequentarla. Un suo ex docente lo ricorda «come un ragazzo tanto simpatico».
Lo scrittore emergente vuole andare via da quella vita di provincia, e un giorno alla stazione dei treni sale su un convoglio in partenza per Milano: «Non avendo che due soldi in tasca, mi nascosi nel gabinetto e mi vi chiusi fino all’arrivo».
A Milano lo soprannominano il “mat”. Di questo soggiorno si rintracciano soprattutto i verbali dei carabinieri: «Il soggetto è stato colto nell’atto di percuotere e minacciare chiunque lo avvicinava, anche i pacifici cittadini, tanto da incutere timore nella popolazione». In caserma, si mette a «tirare pugni e calci e gridare “vigliacche spie” sputando sul viso di tutti, in particolar modo del capo guardia».
La famiglia si preoccupa per la scomparsa del figlio e si rivolge al sindaco del paese pregandolo di avvertire le autorità locali e di rispedirlo a casa. Lo scrittore emergente riceve un ordine del questore che gli dà tre giorni di tempo per ritornare.
A casa si cerca un lavoretto. Di giorno fa il manovale e di notte scrive alcuni componimenti al chiarore di una lampada a petrolio. Riuscitissimi i frammenti in cui tratta di sé in terza persona: «All’età di quindici anni, colpito da confusione di spirito, commise in seguito ogni sorta d’errori ciascuno dei quali egli dovette scontare con grandi sofferenze. Conservò l’onore, benché ormai non gli servisse più a nulla», altri molto meno: «Le mie lettere sono fatte per essere bruciate».
Inizia a bere. Caffè e vino. Matura confuse idee persecutorie, dovute quasi certamente agli eccessi alcolici. Poi sparisce di nuovo, all’improvviso.
C’è chi lo vuole in fuga su una nave verso Sebastopoli, chi in viaggio verso Smirne; chi lo vuole scaricatore di porto a Rotterdam e chi a Ravenna addormentato sotto la neve. Torna a casa cinque anni dopo. Agli amici dice di essere stato in Argentina, a Buenos Aires, imbarcato su un bastimento per raggiungere il Belgio: «Lavorai nel traversare l’Atlantico. Sbarcai in Anversa, poi Parigi, poi casa».
Sembra affetto da una forma di ulissismo.
Il ritorno a casa coincide con una rinnovata passione per lo studio. Si riscrive all’università. Abbandona Chimica pura per Lettere. Ha ventisei anni. I suoi colleghi di facoltà lo ricordano sempre accigliato, con un giaccone dalle tasche ampie, piene di fogli di carta: «I miei manoscritti» risponde a chi glielo chiede.
Si definisce “interprete”. Ha bisogno di soldi. Afferma di essere in grado di tradurre dall’inglese, dal tedesco, dallo spagnolo e dal francese. Prende contatto con una piccola casa editrice che gli commissiona la traduzione dal tedesco di un ignoto pamphlet filosofico. Chiede un acconto, ma una settimana più tardi riceve una lettera dall’editore che lo informa che la pubblicazione del testo non avverrà in tempi brevi. Alla fine non se ne farà più nulla.
Si concentra sulla scrittura. Adotta un metodo che si rivela efficace. Descrivere oggetti d’arte: statue, bassorilievi, quadri antichi e moderni. Concepisce pittoricamente la scrittura. Funziona, è dotato. Forma la sua poetica. Ama Wagner e Nietzsche. Il primo perché è «il Nietzsche della musica», il secondo perché «è il Wagner del pensiero». Il suo sogno è quello di liberarsi dal clericalismo e dall’enfasi meridionale che attanaglia l’Italia. Vuole fondere Kultur e Civilisation. È il cantore del sincretismo fra Geist ed Esprit. Carducci secondo lui è un rozzo, D’Annunzio un buffone. Sente più vicini alla sua prosa Poe, Whitman e Beethoven.
La sua opera d’esordio intanto è terminata. Ci ha lavorato circa otto anni, difficile stabilirlo con certezza. La sua condizione mentale peggiora. Viene avvistato a notte fonda con indosso un mantello, ululando, inselvaggito e brandendo un grosso bastone. Nessuno ha più notizie, fino al 1913.
Nell’inverno di quell’anno, a Firenze, seduto nel corridoio della redazione di un’importante rivista, viene avvistato «un individuo con le mani rosse gonfie di geloni che tremava come una foglia e si soffiava nelle mani ridendo nervosamente tra una soffiata e l’altra». Uno dei due direttori della rivista appena entrato nella sede viene informato dalla segretaria: «È venuto a piedi, percorrendo più di sessanta chilometri per presentarci alcuni suoi scritti». È lo scrittore emergente. Appena vede il direttore della rivista gli va incontro, gli consegna il suo manoscritto e dice: «Ho bisogno di essere stampato per provarmi che esisto». Poi va via. Il direttore discute di quel giovane con il secondo direttore della rivista convinti entrambi della validità dell’opera: «Ci accorgemmo subito che non era uno dei tanti sconosciuti burbanzosi vestiti di falsa umiltà che mandano le loro eiaculazioni verbali alle riviste, c’erano accenti di così pretta e forte poesia da restarne stupiti, trattandosi per di più dell’opera d’un autore alle prime armi». Non sanno però come avvertirlo, lo scrittore si è di nuovo volatilizzato.
Abbagliato dalle luci della città, frequenta i bar giusti. È lì che conosce e si fa conoscere dagli intellettuali più brillanti. Recita la parte del navigato. Fa il protagonista. I direttori della rivista si dimenticano del suo manoscritto e lui di loro. Solo i primi di febbraio del 1914 lo scrittore emergente li contatta chiedendo la restituzione della sua opera. È l’unica copia che ha e non vorrebbe smarrirla. I direttori della rivista rispondono che purtroppo il manoscritto è andato già perduto causa trasloco; chiedendogli profondamente scusa promettono che entro poco l’avrebbero ritrovato. Lo scrittore emergente invia una seconda lettera: «Ritornerò armato di coltello per riavere ciò che è mio». Non mantiene la promessa.
Trascorrono alcuni mesi e nessuno ha idea di dove sia an- dato a cacciarsi questa volta lo scrittore emergente. Uno dei direttori della rivista, durante una passeggiata pomeridiana nota nella vetrina di una libreria un manoscritto dal titolo già sentito. Lo scrittore emergente l’aveva riscritto tutto a memoria e se l’era pubblicato a sue spese. Il direttore gli invia una lettera esprimendo «tutto il suo sentimento e la sua gratitudine per un’opera che lui considera notevole». Pochi giorni dopo lo scrittore ricompare a casa, all’improvviso com’era sparito, e comunica ai suoi amici che dopo aver preso accordi con un tipografo è riuscito a pubblicare finalmente la sua opera prima. Portava insieme alle copie del suo libro anche la bella lettera di complimenti del direttore della rivista, sventolandola sotto il naso dei più scettici.
A chi gli chiedeva una copia dell’opera, lui la regalava, ma a modo suo: se lo reputava intelligente gliela consegnava con una dedica, altrimenti gli strappava le pagine ritenute troppo alte per lui. Un noto e affermato scrittore ricevette soltanto la copertina. Non scrisse più nulla, morì da emergente.