Sarà stato 150 cartelle di 25 righe ognuna, da me battute pazientemente a macchina la sera, a casa, però mai dopo mezzanotte perché il vicino sentiva il ticchettio e cominciava a picchiare alla parete. Perciò ci misi più tempo, non solo perché fossi maldestro e mi scappassero parecchi errori, che fino a un certo punto sbianchettavo poi toccava ricopiare il foglio. Ricordo con sollievo quando finii di trasferire tutto in bella e approfittando di un turno di notte al giornale, che in corridoio non passava nessuno, torchiai la fotocopiatrice per riprodurre l’intero dattiloscritto. Bisognava mettere un foglio alla volta, era una macchina vecchio modello che se surriscaldata s’inceppava. Impiegai quasi un’ora, infilai tutto in una busta a sacco e all’una e mezza scendevo per via del Tritone, preso di freddo ma compiaciuto come chi porta sotto braccio il capolavoro che quando verrà fuori vedrai l’effetto.
Il titolo l’avevo trovato, ricordo come fosse adesso, una mattina di gennaio osservando il vecchio capocronista entrare in redazione con un cappotto di montone esagerato per Roma, ma costoso. Sapevo che solo per dispetto alla povertà media di noi colleghi lo indossava, essendo veramente benestante, e che per questa ragione, il dispetto, coltivava da una vita una saldissima fede comunista. (Dimenticavo: era il 1988 e il muro di Berlino stava ancora là, come il mio giornale, entrambi marcescenti e gloriosi).
Contemplavo affascinato le cannule dell’apparecchio acustico che s’agganciavano alle pesanti stanghette dei suoi occhiali, pensando che era l’unico sordastro di quanti ho conosciuto il quale amasse ostentare il problema anziché minimizzarlo. Sempre per dispetto. Come i denti. Montava una protesi spropositata per lunghezza, parevano incisivi di cavallo e dello stesso particolare giallo degli erbivori, che conferivano alla bocca una struttura protesa in modo innaturale, sicché quando sfoggiava il sorriso veniva pure a te da ridere, ma per disagio. Mentre si scappottava, poggiando sul portacenere la sigaretta inastata nel consunto bocchino Bofil nero, con cui si gingillava quando non fumava, pensai a tutti i racconti sulla sua mitica abilità professionale, che si propalavano dovunque fosse passato nel corso della carriera. Riflettevo sui suoi consigli, tipo che un buon cronista lavora con le orecchie ma poi parla o scrive riferendo sempre meno di quanto ha appurato. E mi dicevo: orecchie e bocca, là si concentra la bravura, perciò forse le cannule sugli occhiali e la dentiera equina sono come segnalatori, le boe di questa sapienza. Per dispetto. Come per dispetto, probabilmente, scopava e proponeva a noi dall’agendina i numeri telefonici di pornodive celebri, informando sul tariffario di ciascuna. Bastava chiamare. Sapendo, naturalmente, che non ci potevamo permettere più di una puttana comune, mentre lui sì, a dispetto della dentiera, dell’apparecchio acustico e del bocchino, sperimentava il lusso di star già declinanti o ancora speranzose. A dispetto pure dell’età: mi sembrava proprio vecchio però oggi, ricalcolando a freddo, avrà avuto circa sessant’anni.
E allora fu quella mattina, quando apparecchiata la mazzetta dei giornali cominciò a leggere le cronache per controllare se avevamo dato o preso “buchi”, allora fu che guardandolo rapito, dalla punta del mento all’occipite lungo la linea dei capelli corvini per tintura, impomatati all’indietro, lo trovai affascinante mentre inconsapevole mi regalava il titolo per il romanzo che scrivevo di nascosto. Venne così, come s’accende un faro fuori orario, all’improvviso: L’apparato umano.
Lui era l’apparato umano.
– Hai visto La grande bellezza? mi domandò un amico qualche mese fa. E no che non l’ho vista, sopporto poco il cinema, gli preferisco il circo. Lui mi rimprovera e accorato raccomanda: – Vacci.
Me ne dimenticai fino a qualche settimana dopo, quando una collega mi chiese a bruciapelo: – Hai visto La grande bellezza?
Stessa risposta, biasimo analogo.
La faccenda è andata avanti un altro paio di volte finché mi sono rassegnato a colmare la lacuna con l’attrattiva di trovare, dopo, qualcuno che non avesse visto La grande bellezza per rinfacciarglielo con aria delusa. Per dispetto.
Solo, quella sera in sala, come un critico cinematografico o un maniaco (gli unici che, secondo me, possono andare a cinema privi di compagnia senza soffrire complessi), la scarica di adrenalina provata all’improvviso qui a stento la riesco a raccontare. E’ quando sento Carlo Verdone, alias Romano, rievocare al protagonista Jep Gambardella l’unico romanzo che aveva pubblicato molti anni prima: “Jep, che cazzo dici? L’apparato umano era un capolavoro. Vinse pure il Bancarella. Dico: il Bancarella!”. Uno, in casi come questo, non balza subito dalla sedia. Al principio crede di aver capito male, e pure se registra negli orecchi qualcosa di sottilmente familiare poi l’umore si riacquieta. Provo intanto una certa simpatia per Jep, giornalista arrivato come me da Napoli a Roma e alla mia stessa età, anche se lui diventa il principe della mondanità e io un frate del nascondimento, anelando entrambi in pari misura alla figura che poi siamo diventati. Questione di carattere. Nella vicenda che scorre sullo schermo, tuttavia, il libro di Jep è una costante che ritorna, e la seconda scarica di adrenalina mi parte quando il personaggio di Stefania la radical chic, in chiacchiere sul terrazzo con vista Colosseo, ripete il titolo del romanzo: “L’apparato umano era un libro limitatissimo, frivolo, pretenziosetto come il suo titolo…”.
Stavolta ho capito bene. Stavolta realizzo in un istante che quello è, anzi era o fu, proprio il titolo del mio romanzo. E mi sento quasi offeso a sentirlo definire frivolo, limitatissimo e pretenziosetto (tre aggettivi così irritanti che poi ho letto la sceneggiatura per recuperarli e riportarli, fedelmente, qui). Anzi, mi sento toccato come in un uno-due dall’aggiunta che Jep (o io) questo lo constatava benissimo, “tanto è vero che ha evitato di scrivere altro”.
Cosa ne poteva sapere il regista Sorrentino? Chi ha mai conosciuto Sorrentino? E possiamo dire sia solo coincidenza? Le idee, i titoli, i motivi musicali ondeggiano per l’aria e raramente si rendono visibili, come accade al pulviscolo quando il sole penetra una stanza di luce dorata nei pomeriggi di prima estate. Sono uscito dal cinema col dubbio di non aver mai scritto L’apparato umano, e che fosse un titolo senza libro esistente solo nella sceneggiatura di Sorrentino. O che esistesse un altro testo con lo stesso titolo del mio, o che uno stesso titolo – finché non corrisponda a un volume stampato e pubblicato – possa sottendere molti libri omonimi ma diversi e non tutti, forse nessuno, reali.
L’apparato umano, intendo il mio, fu composto quando stavo da qualche mese a Roma. E se in séguito ho scritto poco mica è “perché sono uscito troppo la sera”, come Jep, né perché “sono andato a letto presto”, come s’apre C’era una volta in America (o, si parva licet, la Recherche). Queste sono frasi da film. Ho scritto poco e basta e non mi chiedo perché. Ora mi preme dire de L’apparato. Avevo quasi ventisei anni e una delle prime cose che feci cambiando città fu leggere Ferito a morte di La Capria, che parla appunto di Napoli vista, o trasognata, da un ragazzo in partenza per la Capitale. Mi venne allora l’idea di trasognare anch’io non Napoli, ma Roma, prima che i miei occhi se ne abituassero e non cogliessero più la luce ancora estranea di cui volevo raccontare.
Una storia, questo sì lo ebbe in comune col libro immaginato (o conosciuto) da Sorrentino, “bella e feroce. Come è il mondo degli uomini”. Facevo il cronista di nera e trovai, in quel quotidiano dove andavo per mutare pelle, o per salvarla, tutti gli elementi di un racconto che ruotava appunto attorno al capocronista, al suo apparato di protesi ostentate, di esperienze occultate, di abilità, mignotte, questura, questori e strade secondarie che ricucivo sulle mie vicende napoletane di persone brutte o belle, di omicidi scritti e visti sui basalti chiazzati di sangue e roba organica, dove incurante della Scientifica potevi ancora intrufolarti per scrutare da vicino la vittima e chiedere ragguagli a un ispettore. Dopo la decima o ventesima volta, se le tue suole si sono macchiate ma resti cristiano, sfuma la tentazione di fare il narratore troppo trucido – tutta gente che poi s’impressiona quando si taglia con le forbicine – o il giallista, o di andare sfruculiando anime uccise con la scrittura di un noir per emozionare qualche fesso in poltrona (che piuttosto si legga la Bibbia).
Roma era meno sanguinaria. Attesi settimane il primo delitto, che pure risultò roba da poco: un barbone pugnalato in una lite ai giardini di piazza Vittorio. Il cadavere era scalzo perché chi scappa da un coltello spesso perde le scarpe. Ma altra fu la materia che alimentò L’apparato umano, attinta a quell’epica di potere politico e di frenetico sesso (ancora senza Viagra) che infoiava la Capitale come un serraglio persiano, negli anni terminali ma più sgargianti della prima Repubblica. Immaginai, per quanto posso rammentare, una ballerina in carriera alla corte di un ministro di cui diventa segretaria. Un giorno, nauseata dalla corruttela politica e morale che tutta la circonda, passa i documenti relativi a un maxi-appalto truccato al giornalista del quale s’è nel frattempo innamorata. (Io). Lui parla della clamorosa inchiesta al capocronista e propone di pubblicarla a puntate, ma l’apparato umano è fedele alla linea del giornale, che è poi la stessa dell’apparato del Partito di riferimento. Perciò gli articoli vengono tenuti fermi con la scusa di un approfondimento necessario, ma in realtà il materiale arriva alla segreteria politica, che lo userà per ricattare il ministro ottenendo in cambio del silenzio alcune opere pubbliche per i Mondiali del ’90. Io (l’ingenuo cronista) un paio di giorni dopo busso a casa della soubrette pentita, ma non risponde perché giace, ancora calda a letto, assassinata con un colpo di pistola sotto una pessima litografia di Franco Angeli (o al più, di Schifano).
Tornando sconvolto in redazione, fisso nelle pupille il capocronista attraverso il vetro spesso dei suoi occhiali e mi rammarico di aver capito tutto troppo tardi. Lui infila una sigaretta nel Bofil e mi ammonisce: – Professo’, non fare il fesso! prima ch’io lo colpisca con un pugno che smonta l’apparato di occhiali, bocchino, protesi acustica e dentiera. Poi, perché sono buono, o veramente un fesso, me ne vado per sempre col primo treno per Napoli.
Fu un treno solamente letterario, perché rimasi a Roma mentre aspettavo confidente notizie del dattiloscritto. Avevo mandato la fotocopia de L’apparato umano a Mondadori e custodii l’originale nel cassetto, senza farne parola a nessuno tranne che a un collega assunto al giornale con me da L’Ora (pronuncia il lora) di Palermo. Condividemmo decine di serate, passeggiando come si fa all’inizio per i luoghi più retorici di Roma tipo via Veneto, gli stessi che anche Jep Gambardella avrebbe successivamente scartato. Ci agevolava l’ostilità degli altri redattori, i quali ci sogguardavano come due visitor che il nuovo direttore, volendo rilanciare la cronaca, aveva chiamato da fuori. Lui leggeva Cioran, Quinzio e Calasso, più o meno la stessa biblioteca del sindaco di Roma (un atipico signore che lo era pro tempore, naturalmente, figuriamoci se ciò fosse pensabile per i suoi successori). Quel che leggevo io – La Capria ho già detto – è dimenticabile o dimenticato. Non so perciò se veramente gli piacesse L’apparato umano, perché i giudizi degli amici, specialmente siciliani, svaporano come l’amicizia stessa, senza fondate ragioni, magari nottetempo casa per casa. Una cosa, tuttavia, devo dirla per nobilitare un testo di cui ho così rozzamente sunteggiato il plot: la scrittura era assai bella, aveva voce, ritmo, una poesia che non saprei più rendere. Aggiungo per onestà che non fu tutto merito mio. Qualcosa rubai.
Forse ogni narratore ruba.
Il mio testo di riferimento fu un non testo, che s’intitolava la Supplica. Si trattava di un file condiviso sui computer della cronaca di Roma, dove ciascuno a seconda dell’estemporanea ispirazione poteva inserire quel che gli pareva, coerente o meno con la prosa anteriore, per cui la Supplica si dilatava grazie a più mani e nessuno sapeva quali e quante avessero preceduto le sue nel contributo. Il relativo anonimato e la spinta emulativa di scritture concorrenti portavano ciascuno a prodursi al meglio, così la Supplica assunse il colore e la consistenza, l’oscurità e i tagli illuminanti di un canto ossianico, un delirio da Finnegans Wake o del Kerouac delle pagine più visionarie. Ne trassi per incastonarli nel mio libro lunghi splendidi passaggi, alcuni che credetti di riconoscere per miei, altri in stile cioraniano attribuibili al palermitano e qualcuno d’impronta sadico-profetica presumibile frutto dell’apparato umano: più volte sorpresi il capocronista pudicamente intento all’arricchimento del file infinito, mentre col Bofil vuoto fra le zanne produceva un caratteristico risucchio.
Trascorse il tempo, il giornale agonizzava e poco prima che chiudesse mi arrivò la lettera di rifiuto dalla Mondadori. Quella sera, salutando per le ultime volte la redazione, presi l’originale del romanzo, attraversai via del Tritone e andai a gettarlo in un cassonetto prossimo a Fontana di Trevi con un gesto che voleva essere, assieme, sconsolato e sprezzante.
Negli anni successivi, me ne rendo conto ora che è tardi, commisi un errore. Troppe sere, mosso dalla malinconia se non per noia, rievocai a cena con gli amici L’apparato umano, il mio grande romanzo inedito che poteva segnare una tacca nella letteratura italiana fra la prima e la seconda Repubblica. Così, col tempo, questa storia diventò un refrain che mi si torse contro. Ogni tanto, se restavamo a corto di argomenti, qualcuno esortava: – Racconta, di cosa parlava precisamente L’apparato umano? Oppure: – Perché non provi a riscriverlo? Addirittura, una volta un collega che non conoscevo, quando mi fui presentato, esclamò: – Ma tu sei quello dell’apparecchio umano! (E dire che persino lo corressi: – Apparato, non apparecchio. Apparato umano).
Non so se, e come, questa storia di un libro non libro sia giunta di bocca in bocca, orecchio dopo orecchio, a Paolo Sorrentino. Certo da lui è tornata a me quando la credevo sepolta tra le macerie di quel giornale, con il meraviglioso puzzo di fumo stagnante nello stanzone della cronaca prima degli open space, con il meraviglioso tonfo dei bossoli di posta pneumatica, con le meravigliose sbrecciature nelle sedie girevoli da cui usciva gommapiuma gialla che se stavi nervoso staccavi a briciole per giocarci, con la meraviglia che assume lo squallore quando si sedimenta nel passato, come l’odore delle case dei vecchi che rende più perdonabile anche chi ha condotto una gioventù da stronzo.
Ignoro se a Segrate, in qualche pozzo nero o in un meandro mentale di uno junior editor dell’epoca, tuttora si conservi traccia de L’apparato umano, se sia mai stato veramente letto, se ancora debba esserlo. Se il dattiloscritto sia finito in giro per il mondo partendo da lì. O dal cassonetto a Fontana di Trevi.
Non lo saprò e non m’interessa, perché Sorrentino mi ha fatto pubblicare, vincere il Bancarella e persino criticare sul terrazzo di un attico romano. Mi ha riscattato, vendicato e redento anche se mi ha chiamato Gambardella. Ma alla fine, quanto contano le identità? E’ come per la Supplica*, quel libro più lungo che grande di cui ancora serbo frammenti, dove c’è la mano di tutti e il nome di nessuno.
*“A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto. Per catturarne l’attenzione faccio oscillare lievemente con un piede l’albero di Natale, che quest’anno è fatto finto e azzurro chic, mentre cerco di sfilarle i pantaloni troppo stretti prima che i pisellini multicolori tornino a illuminare la cuspide di vetro nella sua oscena forma di falce e martello. Ho deciso: per il prossimo Natale, gonna e presepio”.
AA. VV., Supplica
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).