L’immaginazione e l’illusione sono per Proust, come per Leopardi, l’unica realtà (nella quale il pensiero è l’esperienza per eccellenza), e rappresentano senza mezzi termini la caduta di qualsiasi distinzione tra realtà e virtualità. Le illusioni sono la sostanza degli esseri umani, ma le illusioni non esistono e sono in fondo, rispetto ai primi anni in cui le crediamo vere, come una verginità, si perdono una volta sola. Gli stessi rapporti umani sono idee, chimere, illusioni, che Proust ci presenta al solo scopo di mostrarci la vanità del mondo. Sono illusioni anche i luoghi, i quali, di per se stessi, non sono niente, e già nella prima parte della “Recherche”, che ha inizio sotto un apparente ordine, emerge, se si presta la sufficiente attenzione, la tessitura sfilacciata, artefatta, dello schermo mentale su cui proiettiamo la nostra nostalgia e il film dei nostri ricordi. Il ricordo attribuisce un’emozione ai luoghi per il medesimo principio per cui Leopardi attribuiva un effetto poetico alla lontananza, alla distanza, al ricordo, e nessun luogo resiste al tempo perché il tempo è solo un pensiero, e essendo un pensiero è tutto, ma anche, aggirando l’effetto ottico della suggestione, un nulla. «I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le case, e le strade, i viali, sono, ahimè, fugaci come gli anni». Se passa il ricordo, passano anche i luoghi (come le cose, le persone) perché i luoghi esistono finché li pensiamo, ma il pensiero non è durevole, non ha una realtà al di fuori di se stesso. Non è tanto il tempo, quindi, a rendersi causa di questo oblio, quando l’effetto del tempo sull’individuo, mentre il mondo esterno resta del tutto insensibile ai dolori dell’interiori dell’individuo, che restano interiori e fuori non sono nulla.
Tutta la “Recherche” ha le sue fondamenta nella menzogna. Menzogna dell’illusione rispetto alla realtà, e menzogna anche sentimentale, amorosa, che riguarda qualsiasi passione, e che è basata su altrettante finzioni dell’immaginario. L’omosessualità di Albertine e le sue menzogne amplificano il desiderio del Narratore e il «contratto perverso» stipulato tra i due amanti, perché Albertine è un’altra incarnazione della distanza, non poetica ma questa volta pornografica. O meglio, di pornografia negata, che è la massima pornografia possibile, quella che non possiamo vedere, perché «si ama solo ciò che non si possiede per intero»; ragione per cui Proust toglie ogni potere erotico alle cocottes e alle prostitute, che «se ci attirano così poco, non è perché sono meno belle di altre, ma perché sono assolutamente disponibili; quel che vogliamo ottenere, già ce lo offrono; non sono delle conquiste».
Albertine è costantemente oscena, sia in quanto femmina, essere desiderato sottratto alla vista, sia in quanto femmina desiderante altre femmine, impossedibile da un maschio, eppure al contempo non così sfuggente da non starci (Albertine si dà quindi come teoricamente bisessuale, ci sta col Narratore, lo cerca, lo vuole, ma dirige il proprio piacere segreto altrove, in un territorio invalicabile).
L’omosessualità maschile, in Proust, al contrario di quanto si creda, ha meno fascino perché più visibile, più virile, più economica, una pratica da sbrigare più nello spazio mercantile dell’appagamento di un piacere che nell’ombra eccitante del tormento amoroso. Si noti, infatti, che l’omosessualità maschile compare subito sotto il segno del visibile, di un voyeurismo selvaggio e appagato, all’apertura di “Sodoma e Gomorra”, nella prima esplicita scena di Charlus spiato dal Narratore mentre è intento a avere un rapporto sessuale con Jupien, udendone «i suoni inarticolati», come se «una persona, lì a due passi da me, ne stesse scannando un’altra», e che si conclude con l’ex-farsettaio che rifiuta il denaro offertogli dal barone. Al contrario l’erotismo femminile resta sempre impescrutabile, sottratto alla vista, intuito. Il rompicapo erotico di Proust è molto più semplice di quanto sembri, e coglie appieno il centro delle pulsioni umane. Credo che sia questa la ragione che ha portato Proust a cassare le bellissime pagine in cui intuiva l’omosessualità di Charlus osservandolo dormire e rintracciandone la sessualità nascosta da una certa strisciante ambiguità della postura. L’omosessualità maschile, sebbene vissuta nell’ombra, e a maggior ragione, non è misteriosa: nella misura in cui viene costretta alla clandestinità a livello sociale viene liberata nella sfera privata in un do ut des esplicito, dove anche le gelosie e le ripicche sono pacifiche, contrattuali, e le sconfitte generano il risentimento del mercante sconfitto, niente di più.
Mentre viscerali, immaginifici e tormentosi sono i rapporti eterosessuali, dove il distanziamento, a causa della disuguaglianza, si fa potente, con uno sbilanciamento simbolico verso l’impossedibilità della donna, che essendo socialmente investita di una natura estetica, incarna la propensione alla bugia e al nascondimento del proprio piacere, piacere che anche quando passa per l’interesse lo fa in maniera più ambigua e sfuggente, come nel caso di Rachel per Robert. I tradimenti di Odette, come quelli successivi di Albertine, sono solo immaginabili da indizi, basta una luce accesa, un ritardo a un appuntamento, un’omissione, un’incongruenza, uno sguardo, e restando preclusi alla visione pornografica alimentano la menzogna, la fantasia e l’investigazione di un’oscenità destinata a restare intatta.
Albertine, dentro il gioco perverso dell’amore, riveste un ruolo molto più importante di Odette, al punto di diventare la protagonista di ben tre volumi. Se Odette è una cocotte, femmina-immagine, donna seduttrice, alla quale piace piacere, e tutto sommato frigida, Albertine, in quanto bisessuale, è dotata di una sessualità forte ma sottratta al possedimento del suo piacere intimo. Cessa di essere oscena nel momento in cui cessa di esistere, quando il Narratore viene a conoscere la verità, quando ormai, però, come sempre in Proust, sarà troppo tardi. La luce spegne il desiderio, il buio lo ravviva. Il geloso soffre della sua gelosia, ma senza ne soffrirebbe la passione. Il geloso proustiano, il geloso per eccellenza, soffre di ciò che lo fa godere, teme di essere tradito e in fondo spera di esserlo. La gelosia non riempie esattamente un vuoto ma crea il pieno attorno a un vuoto, capace perfino di trasformare l’indifferenza in bellezza, di ridare vita, vale a dire illusione, alle cose. «La gelosia è un buon reclutatore: quando c’è un vuoto nel nostro quadro, va a cercarci per la strada la bella ragazza che non ci voleva. Se bella non lo è più, lo ridiventa, giacché ne siamo gelosi; riempirà il vuoto». Il Narratore porta talmente all’estremo la propria autoanalisi del sentimento di possesso da rendersi perfettamente conto del piacere legato al pensiero del tradimento, temuto e desiderato. Quando ha il sospetto che Albertine non abbia davvero trascorso una giornata a Versailles, come gli aveva detto, poiché l’autista la scagiona, si rende conto di rimanerci male, in quanto le spiegazioni dell’autista, «scagionando Albertine, me la rendevano ancora più noiosa».
In questa rappresentazione dell’oscenità, che desidera ciò che non conosce e non può possedere ciò che conosce, Proust è più estremo di Sade. Se è osceno chi mente, diventa osceno anche il geloso, la cui menzogna si dà come necessaria in quanto mezzo per svelare la menzogna altrui, innescando un sottile e complicato meccanismo di detti e non detti. Una delle scene più morbosamente pornografiche della letteratura mondiale è forse proprio quella legata a una frase allusiva con cui Albertine nega di voler andare a una serata dai Verdurin, e Proust sa tendere la tensione verso l’osceno fino all’estremo, dove l’immagine pornografica giunge all’improvviso e rende la frase di Albertine ancora più scandalosa e metonimica. Albertine dice «piuttosto che spendere anche un solo soldo per quei vecchi, preferisco che mi lasciate libera, una volta, di andare a farmi rompere…», e solo dopo molte elucubrazioni il Narratore si sente «cadere addosso due parole atroci, a cui non avevo minimamente pensato: “il culo”». Il troncamento della frase di Albertine la rende sconcia proprio rispetto a ciò a cui allude, e nella congiuzione tra i puntini di sospensione che seguono il verbo “rompere” e la rivelazione “il culo” che rompe, appena proferita, ogni ambiguità, passa tutto il senso dell’oscenità femminile, un movimento erotico lancinante dall’allusione all’immagine pornografica, immagine che rimanda a sua volta, nella donna, al suo dover essere allusa, omessa, e rende oscena chi, pensandola ma non dicendola, ce la può evocare solo tacendola.
La prima parte è qui.
La seconda qui.
Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.
Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).