I Guermantes, all’inizio dell’opera metafora di perfezione, il cui mondo dorato è chiuso in un ordine impeccabile, meraviglioso, misterioso, invecchiando si trasformano in mostri, come qualsiasi essere umano, rendendosi irriconoscibili, agli altri e a se stessi, come il Krapp di Beckett, che neppure registrandosi potrà impedire la perdità dell’identità, e riascoltandosi decenni dopo sentirà la voce di un estraneo.
Ogni personaggio della Recherche, da Swann a Charlus, da Madame de Guermantes a Saint-Loup, perde progressivamente la propria identità, e con essa, irreversibilmente, il proprio fascino, vale a dire la propria illusoria dignità. La metamorfosi è lenta e Proust toglie uno strato di pelle dopo l’altro, fino allo strappo finale, scarnificante, rivelatore della cosa terribile. È uno dei concetti centrali di Proust, l’io non dura, muore ogni giorno così come muoiono i nostri sentimenti, e «non è perché gli altri sono morti che il nostro affetto per loro si affievolisce, ma perché moriamo noi stessi». L’osservazione non basta, in quanto l’abitudine, e l’estensione temporale, rendono invisibile lo sterminio a cui siamo sottoposti. Ecco perché per dirci questo collasso dell’essere, questa evidenza della cosa terribile, insieme a questo susseguirsi di tutti gli «io di ricambio» che cancellano ogni io precedente, Proust si fonda sulla biologia molto più che sulla filosofia, giungendo alla sintesi di sensazione e conoscenza, dove spesso la seconda delude la prima o la rende deforme, la invade, la sforma, la metabolizza distruggendola. Lo esemplifica bene Proust con questo concetto: «L’impressione è per lo scrittore ciò che la sperimentazione è per lo scienziato, con la differenza che nello scienziato il lavoro dell’intelligenza viene prima, nello scrittore dopo». Quando rianalizza i Guermantes, ormai adulto e lui stesso malato, li vede brutti, miserabili, piegati dal tempo, trasformati. Il Narratore osserva, quasi vivisezionandoli e ingrandendone i mutamenti con un potentissimo microscopio biologico e esistenziale, come «in certi esseri la sostituzione progressiva, ma compiutasi in mia assenza, di ciascuna cellula con altre aveva prodotto un cambiamento così totale, una così completa metamorfosi, che avrei potuto pranzare cento volte di fronte a loro in un ristorante senza dubitare d’averli conosciuti in altri tempi più di quanto avrei potuto indovinare la regalità d’un sovrano in incognito o il vizio d’uno sconosciuto». I volti conosciuti delle persone un tempo seducenti sono diventati irriconoscibili, sono simili a ciò che erano, ricordano se stessi ma nessuno è più se stesso, per quanto possa essersi mantenuto bene nessuno può resistere al tempo, né l’individuo né il contesto sociale, perché il tempo «aveva compiuto il suo chimismo anche sulla società». Proprio così, chimismo, che per Proust è una chimica della distruzione attuata sulla carne viva, una sostituzione, all’interno dello stesso individuo, di cloni sempre meno simili all’originale e sempre più deperiti (originale che d’altra parte non è collocabile da nessuna parte se non, forse, nelle illusioni dell’infanzia). Lo Swann del primo volume, descritto dal Narratore adolescente, è un essere quasi mitologico, lo Swann invecchiato ha poco a che vedere con ciò che era, e della sua morte quasi si stenta a credere, perché ogni morte è la scomparsa incredibile di un individuo che non esisterà mai più: «La morte di Swann mi aveva, a suo tempo, sconvolto. La morte di Swann! Swann non svolge, in questa frase, il ruolo d’un semplice genitivo. Ciò che intendo è la morte particolare, la morte messa dal destino al servizio di Swann. Infatti, per semplificare, diciamo la morte, ma ce ne sono tante, quasi, quante le persone». Oriane ha perso il suo status laddove Madame Verdurin ha preso piede degradando la nobiltà. Etsir e Bloch sono artisti ammirevoli all’inizio, agli occhi del giovane Narratore, ma giungeranno alla fine ridimensionati, umanizzati e stereotipati. Si confronti l’immagine ammaliante per antonomasia nella piramide simbolica della “Recherche”, l’emblema di uno status di perfezione sociale e estetica che è proprio la duchessa di Guermantes tra la prima volta che viene vista nella chiesa di Combray dal giovane Narratore e l’ultima, nell’ultima festa, quando dilaga il visione del caos e l’evidenza della cosa terribile, quando è surclassata dalla Verdurin senza che quest’ultima, in compenso, abbia acquisito un nuovo fascino, le illusioni sono finite per tutti. Nella sua prima apparizione la duchessa è, benché già più umanizzata rispetto alla perfezione di un’ideale mitizzato («È questa, soltanto questa, Madame de Guermantes!»), una donna dotata di fascino, e il suo nome rimanda alla nobiltà e grandezza della sua famiglia, riflettendosi pian piano anche sul carisma della sua figura. «Rivedo ancora», poteva scrivere il Narratore prima di assistere allo scempio della chimica distruttiva dell’esistenza, «al di sopra della sua cravatta malva, gonfia e serica, il dolce stupore dei suoi occhi ai quali aveva aggiunto, senza osare destinarlo a qualcuno, ma perché ciascuno potesse prenderne parte, un sorriso un po’ timido di signora feudale desiderosa di scusarsi con i suoi diletti vasalli» e da quel momento in poi ha inizio un susseguirsi convulso di intermittenze del cuore alla vista della duchessa, della quale riuscirà a diventare amico. Madame de Guermantes ha «un’epidermide di luce», emana «una sorta di tenerezza», una «seria dolcezza nella pompa e nella gioia», assomiglia a «certi dipinti di Carpaccio», i suoi occhi sprigionano «bagliori azzurri, come un pervinca impossibile a cogliersi». Trascorsi molti anni, cambiate molte cose, il giorno dell’ultima festa il chimismo ha trasformato questa apparenza in un mostro, in una goffa carcassa in disfacimento, e l’epidermide di luce, gli occhi dai bagliori azzuri, l’incedere imperioso, sono diventati, con un effetto di darwinismo al contrario, di ritorno anche somatico alle origini, un «corpo salmonato che emergeva appena, strangolato dai gioielli, dalle sue squame di pizzo nero» e chi la guarda la venera «nella sinuosità ereditaria delle sue linee, come avrebbero guardato un pesce sacro, carico di pietre preziose, in cui si fosse incarnato il Genio tutelare della famiglia Guermantes». Il duca di Guermantes, ugualmente, in un ritratto inserito nelle ultime pagine della “Recherche” per diventare un ritratto agghiacciante della condizione umana e di ogni essere vivente, si alza da una sedia su «due gambe malferme», «come quelle di certi arcivescovi che non hanno più nulla di solido tranne la loro croce di metallo», e avanza, nell’evidenza della cosa terribile, «tremando come foglia sulla poco praticabile cima dei suoi ottantatre anni, come se gli uomini fossero appollaiati su viventi trampoli che aumentano senza sosta fino a diventare, a volte, più alti di campanili, sino a rendere difficili e perigliosi i loro passi, e da cui improvvisamente precipitano».
Questo chimismo, che trasforma una duchessa in un pesce grottesco e squamoso, un duca in un penoso equilibrista in bilico sui propri arti inferiori malfermi, lavorando sulla mente oltre che sul corpo, rende non solo le persone sconosciute agli altri e a se stesse, ma il proprio passato una dimensione apocrifa. Analizzando questo sfacelo anatomico, psichico e organico il Narratore, quasi sotto shock come potrebbe trovarsi chiunque nel confrontare lo stesso volto a vent’anni e a sessanta, prima giovane e poi vecchio, osserva che «la vita aveva dovuto compiere più devastazioni e ricostruzioni che per mettere una cupola al posto d’una guglia; e quando si pensava che un lavoro simile era stato fatto non sulla materia inerte, ma su una carne che cambia solo insensibilmente, lo sconvolgente contrasto fra l’apparizione presente e l’essere che ricordavo faceva indietreggiare quest’ultimo verso un passato non soltanto remoto, ma quasi inverosimile». Come è inverosimile prendere coscienza di questo assurdo dell’essere, che annienta sia il passato che il presente, sia l’io che l’altro, e rende incomprensibile la vita, se non come una orribile marcia verso l’annientamento. Non c’è altro tema, per uno scrittore, all’infuori di questa evidenza. Un’evidenza inverosimile, vera ma inverosimile da vivere, straniante nel non riuscire mai a poterne afferrare appieno l’orrore della metamorfosi che trasforma esseri e sostanze, il giovane nel vecchio, il vivo nel morto. Pertanto «se si stenta a credere che un morto sia stato vivo e che chi era vivo oggi è morto, è quasi altrettanto difficile, e d’una difficoltà dello stesso genere (perché l’annientamento della giovinezza, la distruzione di una persona piena di forze e di levità è già un primo nulla), concepire che colei che è stata giovane sia vecchia (…) e non si riesce a credere che questa possa essere stata quella, che la medesima materia di quella possa, senza rifugiarsi altrove, grazie alle sapienti manipolazioni del tempo, essere diventata questa, che si tratti della stessa materia rimasta senza abbandonarlo nello stesso corpo». Si noti l’insistenza sul termine materia, e quel già un primo nulla che anticipa, nel passaggio dalla giovinezza alla maturità, il disastro a venire. E non a caso, d’un tratto, di mutazione in mutazione, fa di nuovo capolino la metafora darwinista, e ciascun uomo diventa irriconoscibile «quanto un uomo ridiventato scimmia». L’accostamento più forte è la discrepanza tra la tragedia vista del Narratore e la superficialità dei convenuti alla festa, che esorcizzano banalmente la morte, come spesso gli uomini hanno abitudine di fare, rendendola un pettegolezzo, un fatto non drammatico, una “partenza”. Si sente spesso dire che tizio se ne è “andato”, oppure che è “scomparso”, è venuto “a mancare”, o peggio, per chi incredibilmente è religioso ancora nel XXI secolo, che è “andato in cielo”. Al Narratore non poteva sfuggire l’ipocrisia delle parole sociali per dire la morte: «si diceva: “Ma non ricordate? Il tale è morto” come si sarebbe detto “è decorato”, “è dell’Académie”, oppure – ed era un po’ la stessa cosa, dal momento che impediva di partecipare alle feste- “è andato a svernare al sud”, “gli hanno prescritto la montagna”». Per le donne, associate maggiormente a un’idea di grazia e leggerezza, l’evidenza della cosa terribile colpisce ancora di più. Non si tratta solo della trasformazione dei capelli in capelli bianchi, ma di un «cambiamento di persona» vero e proprio. Si deve «ammettere che quello che c’era, l’essere di cui ci si ricordava, non c’è più, e che quello che c’è ora è un essere che non conoscevamo». Ognuno di questi cambiamenti fisici non significa altro che l’«introduzione» e l’ «annuncio» dell’inevitabile. Sebbene ogni secondo di esistenza, persino quello apparentemente più sereno, si appoggi alla precarietà più sconcertante e nella costante presenza della fine, Proust ce lo ricorda spesso, aprendo squarci di inquietudine così agghiaccianti da lasciare quasi storditi per la forza, la crudezza e la precisione scientifica con cui irrompono e confutano alla radice qualsiasi idea di felicità. Come quando, parlando con il professor E. per avere consigli sulla salute della nonna, il Narratore riflette che «siamo soliti dire che l’ora della morte è incerta; ma, quando lo diciamo, ci rappresentiamo quell’ora in uno spazio vago e lontano, non pensiamo che abbia qualcosa a che vedere con la giornata che stiamo vivendo e possa significare che la morte – o il suo primo parziale impossessarsi di noi, dopo il quale non ci lascerà più- potrà verificarsi in questo stesso, e così poco incerto, pomeriggio, il cui impiego abbiamo preventivamente programmato ora per ora. Teniamo alla nostra passeggiata per accumulare, in un mese, la necessaria quantità d’aria buona; abbiamo esitato sulla scelta del cocchiere da far venire; siamo in carrozza, la giornata si stende intera davanti a noi, breve perché vogliamo rincasare in tempo per vedere un’amica; ci piacerebbe che il tempo, domani, fosse altrettanto bello, e non sospettiamo che la morte, che camminava dentro di noi su un altro piano, avvolta in un’oscurità impenetrabile, ha scelto proprio questo giorno per entrare in scena, tra pochi minuti, più o meno nell’istante in cui la vettura arriverà ai Champs-Élysées».
Questa lucidissima, allucinante consapevolezza della natura effimera e materiale di ogni cosa Proust, malato di asma ma malato soprattutto di autocoscienza e di eccesso di lucidità, non può non rifletterla nel suo essere scrittore, ragionandoci all’interno del “Tempo ritrovato”, dovendo fronteggiare, in quanto scrittore, l’ansia e il reale rischio di “pericoli esterni” e “pericoli interni” (premura che gli ha fatto scrivere le parti finali dell’opera prima ancora di averla terminata, affinché in ogni momento “la Recherche” fosse comunque finita e messa al riparo dall’incombere della morte). «Se mi salvavo da un incidente venuto dal di fuori, chissà che ad impedirmi di approfittare di una tale grazia non sopravvenisse, prima che fossero trascorsi i mesi necessari a scrivere questo libro, qualche incidente al di dentro di me, qualche catastrofe interiore», che altro non è che la condanna a morte, la catastrofe imprevedibile e certa, di ogni uomo, e che ogni uomo cerca di non vedere. Proust non poteva, giunto al termine della più grande opera mai scritta, non arrivare fino al fondo di se stesso, di ogni verità ultima. Il timore di non poter finire l’opera, ma anche la coscienza che «si può rifare ciò che si ama solo rinunciandovi. Un giorno anche i miei libri, come il mio essere di carne, avrebbero certo finito per morire. Ma bisogna rassegnarsi a morire. Si accetta il pensiero che fra dieci anni noi, fra cento i nostri libri, non ci saremo più. La durata eterna non è promessa agli uomini più che ai libri».
Lo svelamento della cosa terribile anticipa l’infermità messa in scena da Beckett, lettore precoce e acuto di Proust, e anche suo prosecutore nell’estremo del narrabile della vita, e così, in tutto quel via vai di persone conosciute e irriconoscibili, in ogni agnizione di forma deformata, ce n’è qualcuno «il cui viso era intatto, sembravano soltanto impacciati quando si trattava di camminare; dapprima si pensava che avessero male alle gambe; solo dopo si capiva che la vecchiaia aveva messo del piombo nelle loro suole». Dal piombo, che trascina il corpo del vivo verso il basso, alla menomazione che precede l’annientamento definitivo, il passo è breve e pesante, e in altri passaggi la chiusura sul modo di dire popolaresco per dire la cosa terribile lo rende ancora più sconvolgente: «Degli uomini, alcuni zoppicavano, e si capiva che non era per un incidente di carrozza ma per un primo attacco, e perché avevano già, come si dice, un piede nella fossa». Se all’inizio della “Recherche” vi è la leggerezza, i prati fioriti, i campanili e le vetrate, i merletti di pizzo sulle vesti femminili, alla fine è tutta una pesantezza, piombo sotto le suole, giunture malferme, mani e gambe tremanti, sguardi persi. Se dovessimo vedere la vita come una favola sincera da raccontare ai bambini, sarebbe quindi una favola atroce e insensata, dalla culla alla tomba: «lo spettacolo fiabesco in cui vediamo il neonato diventare di atto in atto adolescente, uomo maturo, e curvarsi verso la tomba». Questo accasciamento inevitabile e finale dell’io, questo tragico annullamento dell’individuo, questo nascere e scomparire da nulla a nulla, questo io che morirà di giorno in giorno perdendo il magico mondo incantato e ingannevole dell’infanzia, è ben espresso da Proust svariate volte nella “Recherche”, come quando considera che «l’essere che io sarò dopo la morte non ha ragioni di ricordarsi dell’uomo che io sono dalla mia nascita più di quanto questo non si ricordi di ciò ch’io sono stato prima di essa». Prima non c’era nulla, dopo non ci sarà nulla. Non la memoria, non l’io, un filo teso per poco tempo, da oblio a oblio. È il pensiero immenso, cosmico, universale di Proust e dell’intera “Recherche”: solo una fine, dall’inizio alla fine, e poi come prima, come dopo, il nulla, il non io. L’evidenza della cosa terribile.
[fine]
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Il presente saggio di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel 2010 dall’editore Cooper ed è attualmente fuori catalogo.
Tutte le citazioni del testo della Recherche sono prese dall’edizione tradotta da Giovanni Raboni e curata da Luciano De Maria per gli Oscar Grandi Classici Mondadori (1995).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).