Il fatto che il comunismo abbia significato una speranza di riscatto, ispirando, in un momento cruciale della Storia, movimenti di liberazione in tutta Europa, non dovrebbe far dimenticare che tutte le volte che quella speranza si è tradotta in sistemi politici concreti, da Mosca a Pechino, da Bucarest a Cuba, abbia prodotto regimi totalitari.
Qui da noi, in Italia, dopo che non è stato più possibile chiudere gli occhi di fronte ai crimini di Stalin, è cominciato il racconto della diversità del Partito comunista italiano, anche se il Pci è rimasto sotto il controllo sovietico fino a tutti gli anni Settanta; un racconto – per certi aspetti veritiero, ma di certo non esente da qualche reticenza e bugia – che è stato possibile grazie all’adesione più o meno integrale all’ideologia comunista da parte del nostro mondo culturale, a partire dall’8 settembre del 1943 e ben oltre il 9 novembre 1989, ovvero il giorno in cui crollò il Muro di Berlino.
Di tutto questo voglio parlare con Paolo Mieli, che un pezzo importante della storia del comunismo italiano – quella che coincise con la stagione del movimento studentesco del ’68 – l’ha vissuto sulla sua pelle, per poi allontanarsene dopo l’incontro con Renzo De Felice.
Lo spunto ce lo danno un libro e un’occasione.
Il libro è La repubblica delle lettere di Marc Fumaroli. Nel corso degli anni, Fumaroli ha studiato e frequentato assiduamente «quella società ideale, e ciò nondimeno reale, che fino alla Rivoluzione francese oltrepassò la geografia politica e religiosa dell’Europa via via umanista, classica, barocca, neoclassica», e che «si è essa stessa chiamata per quattro secoli e in tutte le lingue Repubblica delle Lettere». Stiamo parlando di un aspetto decisivo della cultura europea, «quella società di amici e di uguali» che inizia forse con Petrarca, si sviluppa nella Firenze di Marsilio Ficino e trasferisce via via la sua capitale da Firenze a Roma, da Roma a Venezia, fino ad arrivare a Parigi. Per descrivere in sintesi questa repubblica delle lettere – questa grande città invisibile e salda – Fumaroli cita una dissertazione in latino data alle stampe da George Prit nel 1698. «La Repubblica delle Lettere» scrive Prit«è una società politica superiore a tutte le altre, […] perché riunisce una società di uomini dotti, tutta intenta a coltivare, promuovere e diffondere le scienze e le arti, […] e gode della libertà di coscienza, di parola e di espressione. L’errore umano vi è ammesso, a patto di limitarlo e metterlo in ridicolo con le armi dell’ironia critica».
Paolo, la Repubblica delle Lettere terminò – non a caso – con la Rivoluzione francese e il terrore.
«Sì, perché quello è il momento in cui la passione prende il sopravvento sulla cultura. Dopo la Rivoluzione francese, trionfa l’idea che per il mondo culturale la passione – quella esibita, decapitatrice – debba avere il sopravvento sull’ironia critica, ad esempio, e che in fondo non ci sono che due modi di essere intellettuali: l’intellettuale decapitatore e l’intellettuale che non ha il coraggio di decapitare. Da una parte ci sono gli eroi, dall’altra i vigliacchi.»
Direi che questa distinzione vale ancora oggi: l’ironia, l’understatement, l’esercizio del dubbio, non sono attitudini viste di buon occhio da buona parte dell’establishment culturale.
«Per questo l’incontro con De Felice fu così importante per me, da ragazzo: fu lui a farmi capire che bisogna interessarsi in profondità dell’altro da sé, di quella porzione di ragione che si trova nel campo opposto, politicamente e culturalmente.»
L’occasione di questa chiacchierata è il centenario della scissione di Livorno. Era il 21 gennaio 1921, quando al Teatro Goldoni di Livorno la fazione comunista guidata da Bordiga e Gramsci ascoltò il discorso riformista del «socialtraditore» Turati, nel quale il fondatore del PSI sosteneva che l’unica vera distinzione tra le due parti in conflitto non era ideologica ma riguardava i mezzi, e in particolare, disse Turati, «il culto della violenza», «la costrizione del pensiero all’interno del Partito» e «la persecuzione dell’eresia». Sembra proprio evocare il fervore decapitatorio di cui parlavi prima… Con un monito che a sinistra vale ancora oggi, cento anni dopo, Turati concludeva: «Sì, noi lottiamo troppo contro noi stessi, noi lavoriamo troppo spesso per i nostri nemici. [Ma], quando avrete fatto il Partito comunista, […] se vorrete fare qualche cosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, […] a percorrere completamente la nostra via, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale. […] Tutto il resto è clamore, è sangue, è orrore, è reazione, è delusione». Come si può spiegare a un ragazzo del 2021 cosa è accaduto in cento anni da quel discorso di Turati? Come dirgli che Bordiga e Gramsci hanno fatto molto più presa non solo sull’elettorato ma anche sulle élite intellettuali?
«La scissione di Livorno è frutto di un clamoroso fraintendimento: gli storici l’hanno raccontata con gli occhi di oggi, ma in realtà a Livorno andò in scena un disegno predisposto dai bolscevichi russi che ordinarono ai partiti socialisti di tutto il mondo di scindersi per dar vita a un partito comunista che si chiamasse comunista; tant’è che il mese prima, nel dicembre del Venti, ad esempio, nacque con le stesse modalità il Partito comunista francese. E comunque, a Livorno, Turati rappresentava una minoranza, mentre la stragrande maggioranza del partito era con Giacinto Menotti Serrati, che era più a sinistra dei comunisti. Menotti Serrati aveva già sposato tutti i punti dell’Internazionale comunista, ma non voleva che Turati fosse espulso: rappresentava, con la sua corrente, meno del venti percento del partito, ma aveva una forte consistenza nelle case del popolo, nelle organizzazioni strutturali a fianco del partito. E poi c’era la questione del nome: un partito che aveva appena avuto un grande successo elettorale (nel ’19 aveva fatto il pieno dei voti), non poteva cambiare nome. Per il resto, Menotti Serrati era schierato con la Rivoluzione d’ottobre; e pochi anni dopo se ne andrà nel Partito comunista.»
Però non c’è dubbio che quel discorso di Turati, se lo leggi oggi, racconta questi cento anni in modo esemplare.
«È comune destino dei partiti socialisti che la parte riformista venga messa clamorosamente in minoranza e accompagnata alla porta, perché i socialisti nascono con una vocazione rivoluzionaria e gli elementi di saggezza e di preveggenza dei riformisti, purtroppo, ieri come oggi, non riscuotono il favore popolare.»
Se il Partito socialista a Livorno fosse rimasto unito, l’onda del fascismo avrebbe rallentato?
«Il fascismo avrebbe fatto più o meno lo stesso corso. Il vero nemico dei socialisti di Menotti Serrati era Giovanni Giolitti: qualsiasi forma di compromesso con Giolitti veniva vista come un tradimento già dagli anni Dieci. Così come sarà più tardi per Craxi e Berlusconi, fatti i dovuti distinguo, Giolitti fu oggetto di una poderosa campagna di demonizzazione, sia da destra che da sinistra; da Gaetano Salvemini al «Corriere della Sera» di Albertini, dai fascisti al Partito socialista.»
Dentro questa storia come s’inscrive il ruolo degli intellettuali?
«L’antigiolittisimo, che fu il demone che impedì di far barriera comune contro il fascismo, era un punto di raccordo con gli intellettuali, perché gli intellettuali erano tutti – o quasi tutti – antigiolittiani; per cui il Partito comunista e il Partito socialista, pur essendo molto diversi, trovavano una saldatura nel mondo intellettuale, che per loro era un valore importante perché gli intellettuali garantivano che il comunismo e il socialismo prima o poi avrebbero vinto.»
Con Togliatti questa saldatura diventa ancora più strategica.
«Nel 1944, quando Togliatti torna dall’Unione Sovietica, fonda un partito totalmente nuovo nella sua impostazione, molto diverso da quel Partito comunista che era nato nel ’21. E siccome non è che il Partito comunista nato nel ’21 non avesse titoli, perché era poi il partito che aveva fatto la lotta antifascista e aveva molte medaglie da appuntarsi in petto, quando Togliatti torna in Italia deve misurarsi con gli eredi di quel partito. Per questo la svolta di Salerno è una sorpresa: quando Togliatti accetta la collaborazione con Vittorio Emanuele III – capirai – i comunisti che avevano fatto anni di galera e che erano stati protagonisti della resistenza, e che erano nemici giurati anche del governo Badoglio, rimasero sconvolti quando Togliatti fa un accordo per portare i comunisti nel governo, tirandosi dietro altri vecchi nemici del re come il Partito d’azione e il Partito socialista. Ed ecco che entrano in gioco gli intellettuali, in questo decisivo passaggio storico, perché Togliatti ha un’idea geniale: offre un lasciapassare, una specie di bagno purificatore, a tutti gli intellettuali che hanno avuto a che fare con il fascismo. E quando dico “tutti” intendo dire il novantanove percento degli intellettuali del nostro Paese, perché chi tra gli intellettuali può dire di non avere avuto piccole o grandi compromissioni col regime fascista? Ecco perché quella di Togliatti e un’operazione strepitosa.»
Togliatti recupera tutti i vociani e i fascisti di sinistra…
«Tutti, Leonardo. Tutti. Non c’è n’era uno, praticamente, che non aveva avuto a che fare col fascismo. Alcuni avevano scoperto una vocazione antifascista già alla fine degli anni Trenta, altri la scoprirono durante la Resistenza, parecchi rinsavirono solo dopo il 25 aprile…»
Anche dopo Salò.
«Sì, anche dopo la guerra. E a tutta questa gente Togliatti tende la mano e rivolge un appello: non c’è nemmeno bisogno che diventiate comunisti, basta che combattiate i nemici dei comunisti e vi battiate perché rimanga in piedi l’unità antifascista, il che significa il mantenimento dei comunisti nell’area di governo e di potere. Con questa mossa, quel genio di Togliatti può così trasformare l’inizio della Guerra Fredda – ovvero la rottura tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana nei primi mesi del 1947, che sancisce la fine del governo di unità nazionale – in una rottura dell’unità antifascista. Capisci?»
Certo. Fu come dire: eri con me in quanto antifascista; ora che hai rotto, prima o poi incarnerai tu stesso un nuovo fascismo.
«Esatto. È un’operazione che, tra le altre cose, è davvero attraente per molti scrittori e registi cinematografici.»
Un mantello sotto cui si sono coperti tantissimi.
«Eh sì. Ma soprattutto quelli che avevano avuto quelle compromissioni. Perché in genere queste compromissioni spuntano fuori nei cinquant’anni successivi in modo del tutto casuale; quasi nessuno di loro dice: “Guarda sono stato fascista fino al giorno tot, ho fatto questa e questa cosa, e poi ho cambiato idea e sono diventato democratico o addirittura comunista”. Quasi tutti sperano, sotto quel mantello, che venga dimenticato tutto. Ma è ovvio che per far dimenticare, per non permettere a qualcuno di rimestare nel passato, si devono schierare contro la rottura dell’unità antifascista.»
Nel ’53 nasce «Nuovi Argomenti» e il primo numero portava in sommario proprio una Inchiesta sull’arte e il comunismo con interventi di Moravia, Lukacs, Solmi e Chiaromonte, che adesso riesumiamo in questo nuovo numero con dei commenti critici.
«In quegli anni – proprio a ridosso della nascita di «Nuovi Argomenti» – Togliatti, che veramente è stato un genio della politica, recupera la figura di Giovanni Giolitti, dimostrando di avere il senso della storia. In realtà compie tre operazioni simultanee, con lo stesso scopo: riabilita Giolitti, stabilendo implicitamente che l’antigiolittismo era stato un errore; offre una lettura epurata del pensiero di Gramsci (epurata perché Gramsci, prima della morte, era arrivato ai ferri corti con il partito); e, nonostante la Democrazia cristiana l’abbia ricacciato all’opposizione, nonostante la Guerra Fredda, continua a credere che bisogna tornare ad avere rapporti con la DC. Invece di fare l’errore di radicalizzarsi, l’orizzonte di Togliatti è quello in cui la Democrazia cristiana venga costretta a rimpiangere l’unità antifascista dell’immediato dopoguerra. A compiere l’errore più clamoroso in quegli anni non è il Partito comunista di Togliatti ma il Partito socialista di Pietro Nenni, il quale – unico tra i grandi partiti socialisti europei – si rituffa nell’esperienza del Fronte popolare, compromettendo per sempre le proprie fortune.»
Nenni proverà a riscattare quell’errore dopo la rivolta d’Ungheria nel 1956…
«Sì, ma il Partito socialista non si riavrà mai più. Dalla morte di Stalin, nel ’53, a quando i socialisti entrano nel primo governo di centrosinistra, nel ’63, passano dieci anni.»
Dieci anni durante i quali succede di tutto: Kruscev, Kennedy, Tambroni…
«Sono così faticosi, quegli anni, che quando i socialisti arrivano all’incontro con la DC sono un partito logorato da un percorso così lungo, perché hanno dovuto fare una strada, e poi una strada al contrario. Unici in Europa.»
Per tornare agli intellettuali, in cosa consiste – se esiste – la differenza tra un Togliatti che rompe il fronte antifascista, e può così puntare il dito a intermittenza sulla Democrazia cristiana, e la convinzione degli intellettuali, con in testa Moravia, che quello democristiano sia un nuovo fascismo?
«Togliatti combatte la DC per potercisi riunire. Dice che quella di rompere l’unità antifascista è la via per cui la destra democristiana riapre le strade al fascismo, ma il suo obiettivo è il riscatto della Democrazia cristiana che torna a braccetto coi comunisti. Non fa mai l’errore di dire: da una parte ci siamo noi e dall’altra c’è la Democrazia cristiana che è il nuovo fascismo, per cui facciamo la lotta armata. È l’errore – e che errore! – che commetteranno le Brigate rosse, cioè di considerare il governo come una nuova edizione di un regime autoritario che andava combattuto con la lotta armata. I comunisti questo errore non lo fecero. Intellettuali o non intellettuali.»
A proposito degli intellettuali, in quegli anni le riviste letterarie – «Nuovi Argomenti» in primis – si trovavano ad avere un ruolo di mediazione tra le questioni culturali e le questioni politiche e diventavano il luogo di espressione dell’impegno dell’intellettuale. La premessa per questo tipo di cultura era «necessariamente l’engagement», come ha scritto Romano Luperini, «un impegno morale e civile unificante, capace di dare ad ogni attività umana […] un impulso costruttivo comune».
«Molto semplicisticamente spesso si dice: la Democrazia cristiana si è presa il mondo del potere e a Togliatti ha regalato il mondo degli intellettuali. Ma è una visione semplificata, perché Togliatti, piuttosto, ha offerto agli intellettuali italiani la possibilità di poter dire a sé stessi: non siamo comunisti, per carità, ci fa orrore lo stalinismo; ma potere al contempo fiancheggiare il Partito comunista. È un processo di reciproca legittimazione alla cui base sta una grande autonomia; a patto che gli intellettuali non si mettano mai in urto con il Partito comunista o, peggio ancora, fiancheggino iniziative degli avversari veri del Partito comunista, come successe con la scissione socialdemocratica capeggiata da Saragat.»
Vorrei segnalarti una stranezza. Proprio durante gli anni di cui stiamo parlando, cioè dal ’56 al ’68, dall’Ungheria a Praga, mi sembra che in qualche modo il Partito comunista e la Democrazia cristiana – oppure diciamo il Partito comunista e la Chiesa – abbiano un atteggiamento nei confronti della cultura, di certi romanzi, di certi film che paradossalmente è simile. Penso, ad esempio, al fastidio con cui veniva letto sia da destra che da sinistra La dolce vita di Fellini. Per non parlare di certi romanzi borghesi che potevano risultare “indecenti” per una ragione o per l’altra su tutte e due le sponde, mentre c’era invece un romanzo, quello più impegnato.
«Sì. Ma il fatto più rimarchevole di questo discorso che tu stai facendo non è tanto che il Partito comunista prendesse le distanze da Fellini o dal Visconti del Gattopardo. La cosa più curiosa è la posizione della Democrazia cristiana, e anche quella dei liberali, che non difendono mai scrittori e registi ideologicamente a loro più vicini e che incontrano il gusto del pubblico (penso a Giuseppe Berto, a Fellini, a Pietro Germi); mentre il Partito comunista difende i suoi, gli altri no. Ed ecco che, ad esempio, quando ero ragazzo, non c’era altro che il campo comunista con tutte le sue varianti, compresi libri fondamentali come Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa o Operai e capitale di Mario Tronti, che ne denunciavano i limiti da sinistra. Appariva del tutto naturale ai ragazzi della mia età prendere una militanza; nonostante io fossi figlio di un dirigente, ex direttore dell’«Unità», che era uscito dal Partito comunista a ridosso della rivolta del XX Congresso, sebbene conoscessi queste cose e le conoscessi perché ce le avevo in famiglia, il mio approdo naturale fu un approdo…»
… obbligato.
«Già. Pure venendo da una famiglia di quel tipo, un padre di quel tipo, nella mia scuola, con i miei compagni di scuola, aderire al Partito comunista avveniva con una certa automaticità.»
E ogni tanto capitava di aderire anche a idee bislacche.
«Guarda, non troverai mai nessuno che ammetterà le cantonate che ha preso. Il bello dell’esperienza comunista o post-comunista è che si è tenuti a dare questo genere di spiegazioni. Ovviamente se tu fai lo storico e vai a rileggere cosa veramente dissero, cosa veramente scrissero certe persone, ci sono delle cose che ti lasciano a bocca aperta. Sui dissidenti sovietici, ad esempio, scrissero tutti delle cose incredibili, di cui oggi uno si dovrebbe vergognare.»
Pensa a quello che a sinistra si scriveva sulla questione delle Falkland, riletta tutta in chiave anti-tatcheriana, fino a fare il tifo per l’Argentina dei militari. Quando Maradona fece quel gol di mano ai Mondiali dell’86, noi eravamo con lui, perché ci sembrava una stupenda vendetta contro gli inglesi cattivoni: tra la più antica democrazia del mondo e una banda di efferati assassini, la sinistra non ebbe remore a schierarsi coi secondi.
«Anche Craxi, fino all’epoca delle Falkland, tifava per gli argentini contro la Thatcher. Per non parlare dei comunisti. Perché lo facevano? Lo facevano per andare dietro al loro popolo, che era ben più a sinistra dei gruppi dirigenti del partito, e ben nutrito di un’ideologia rivoluzionaria.»
Si chiama populismo. È ancora così?
«No, non direi. Il popolo sì, è più radicale dei dirigenti. Il popolo si racconta una favola, spesso con la complicità degli intellettuali, che sarebbe tutto così semplice, basterebbe fare l’unità di tutti coloro che lottano per il bene contro il male e, una volta fatta l’unità, il popolo marcerà verso la vittoria. Se poi non succede, basta attribuire la sconfitta a qualcuno che ha remato contro, oppure a manovre non meglio identificate, a brogli…»
… a traditori, a nemici del popolo… Prima parlavi della riabilitazione di Giolitti a opera di Togliatti. Queste rivalutazioni postume, anche un po’ fuori tempo massimo, sono una caratteristica della sinistra.
«È un’invenzione geniale del Partito comunista. Il mea culpa a scoppio ritardato. Procede a un ritmo che sta tra il ventennale e il trentennale: dopo venti o trent’anni non c’è quasi mai un nemico di vent’anni prima o di trent’anni prima che non venga riabilitato. In questo modo la riabilitazione di Giolitti offre un punto d’approdo, cioè tutto quello che tu hai combattuto – o quasi – venti o trent’anni dopo hai licenza di riconsiderarlo: “tutto sommato è stato un bene aver perso le elezioni del 18 aprile del ’48”…»
Quindi adesso tocca a Craxi, tra dieci anni a Berlusconi e fra vent’anni a Renzi. Mi vuoi dire questo? Se queste sono le scadenze?
«Le liti interne lasciano più tracce, quindi su Renzi non saprei dire. Ma su Berlusconi sta già ampiamente avvenendo: è la seconda volta che la sinistra ci governa insieme. Fino a un po’ di tempo fa, invece, la discussione era se il ventennio berlusconiano (ventennio, sia detto per inciso, in cui la sinistra ha governato undici anni) fosse più di tipo hitleriano o mussoliniano… Sono passati venticinque anni, non un’eternità, e Berlusconi è ancora vivo, ha fatto in tempo a essere condannato, a fare i servizi sociali e a uscirne, e non mi pare che ci sia una discussione infuocata sull’opportunità di governare insieme a lui. La Storia insegna che c’è sempre un nuovo avversario nei confronti del quale si fa una battaglia all’ultimo sangue, dimenticando l’avversario vecchio, che in certi casi finisce addirittura per tornarti utile. Ricordo che, per esempio, quando io iniziai a dirigere i giornali all’inizio degli anni Novanta, c’era Cossiga che veniva denunciato. Fu aperto dal Pci (che allora stava cambiando nome) un processo di impeachment perché Cossiga sembrava coinvolto nella struttura di Stay-behind e quindi si diceva che avesse attentato alla sicurezza dello Stato. Poi, sette anni dopo, siccome organizzò un gruppo di parlamentari che diedero una mano a mettere su il governo di D’Alema, lo stesso Cossiga fu portato in trionfo a una festa dell’Unità, capisci? »
È solo questione di tempo, insomma, e tutti gli errori vengono obliterati.
«E tu puoi retrodatare la tua verginità. Oggi, ad esempio, dirsi comunisti, esserlo stati, è quasi un vezzo. Trovi sempre qualcuno che per snobismo la sera a cena ti dice che è stato comunista. Ma la stragrande maggioranza di quelli che lo furono, dicono che hanno sempre avuto sul comodino i libri di Solženicyn, che avevano capito tutto al liceo, alle medie.»
Però, Paolo, il senso di superiorità di cui è sempre stato accusato il Partito comunista negli ultimi anni si è tramutato in un vero e proprio complesso di inferiorità. Pensiamo ad esempio al modo con cui il PD si atteggia nei confronti dei 5 Stelle, come se dovesse attingere da lì la purezza perduta, dovesse lavare lì i propri errori.
«Be’, i 5 Stelle gli hanno rubato per la prima vera volta nella storia uno scettro importante che è quello dell’interlocuzione con il popolo. Uno scettro che i 5 Stelle avevano perso in modo rovinoso durante l’anno in cui hanno governato con la Lega, ma poi hanno abbondantemente recuperato. Ora, a me non interessano i sondaggi elettorali, però adesso se lo contendono, e anche questa è una cosa incredibile. Nessuno prima l’aveva mai rubato ai comunisti, nella storia. Per il PD è un problema riprendersi quel popolo. Mentre il grosso dell’establishment culturale continua a stare dalla parte del PD.»
Io, per il fatto stesso che dichiaravo di votare PD, per un paio di anni ricordo di essere stato guardato come un pericoloso reazionario da tanta gente che adesso non confesserebbe mai di essere stata grillina. Erano quasi tutti passati coi grillini gli intellettuali che adesso fanno finta di disdegnarli.
«Il momento culminante fu il doppio turno delle elezioni di Virginia Raggi a sindaco di Roma. Molti intellettuali uscirono allo scoperto dicendo che votavano Virginia Raggi contro un candidato tra l’altro renziano del PD, ed è durata anche fino al referendum sulla riforma costituzionale di Renzi.»
Adesso non se ne trovano più. Fanno finta di non essere mai stati grillini. Io me li ricordo bene.
«Quella è la più grande invenzione fatta dai comunisti italiani: far dimenticare quello che sei stato.»
Mi sembra che sia proprio questo il nocciolo della nostra chiacchierata: poter rileggere e rimasticare il proprio passato alla luce di quello che si è oggi, incessantemente e impunemente.
«Quello della sinistra italiana è un mondo dove puoi raccontare di non sbagliare mai. Ovviamente tutti sanno tutto, tutti si ricordano degli altri, però nessuno fa valere questo ricordo per rinfacciarlo, perché tale è il prezzo da pagare se non vuoi che qualcuno rinfacci qualcosa a te.»
Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.