Gli anni Settanta, di solito considerati non propizi alla nostra letteratura, per Goffredo Parise si aprono invece, come meglio non si potrebbe, con i primi racconti dei Sillabari. Dopo un lungo periodo interlocutorio, successivo a Il padrone, connotato soprattutto da molti viaggi in Paesi lontani, Parise è pronto a raccogliere il frutto più nutriente e duraturo della sua creatività.
I Sillabari non maturano così per caso, ma sono il risultato di un precisissimo sentimento della vita trasformato in esattissimo stile di scrittura. Un sentimento della vita che diventa dominante in Parise solo dopo la morte, nel 1969, del suo amico Giovanni Comisso.
Venuta a mancare la presenza fisica di Comisso, Parise ne riscopre l’opera e per vie misteriose fa interiormente propria la sua italianità. E l’Italia gli appare, sì, una colonia, ma una «delle più vive e tragiche colonie del mondo».
È vero che la sua irrequietezza e la sua curiosità continuano a portarlo in giro per il mondo, ma è anche vero che negli anni Settanta Parise compie un ragionato e utopico «ritorno in Italia».
Sarà stato solo il caso a fargli scoprire, proprio nel ‘69, una casetta sul greto del Piave, a Salgarèda, in una zona comissiana? Sarà stato solo il caso a portarlo sempre più spesso in quel Veneto ‘barbaro’ di nebbie e di muschi, lontano dalla nativa e palladiana Vicenza e lontanissimo da Roma? O forse il suo destino stilistico e conoscitivo lo conduceva lì perché quello era l’ambiente adatto per uno scrittore che fa salire i suoi strumenti di conoscenza e d’espressione «direttamente dalla vita e quasi dalla vita del corpo, un po’ come il canto all’ugola di un tenore o di un soprano»?
Che i Sillabari – la prima serie fu pubblicata nel ‘72 e la seconda dieci anni dopo – non nascessero per miracolo, lo dimostra una rubrica che per quasi due anni – il ‘74 e il ‘75 – Parise tenne (a settimane alterne con Natalia Ginzburg) sulla seconda pagina domenicale del «Corriere della Sera». S’intitolava Parise risponde e non si trattava di una rubrica letteraria, ma di una serie di dialoghi con i lettori il cui tema principale era proprio quello dell’Italia e degli italiani.
Il 16 gennaio del ‘74, la rubrica inizia in medias res, senza una precisa e diretta dichiarazione d’intenti. I temi, suscitati dalle lettere ricevute, sono subito quelli all’ordine del giorno: divorzio, aborto, sesso, pornografia.
Parise tratta ogni tema con essenziale rapidità, con forza icastica e spesso con originalità spiazzante, usando un italiano il più possibile chiaro e cristallino.
La lingua di Parise è il vero presupposto democratico della rubrica, la forma che è un tutt’uno con il tema, molto discusso, di una possibile e sperabile e necessaria democrazia italiana: «Credo profondamente e dolorosamente nella democrazia in Italia, cioè nel grado di maturazione di tutti i cittadini per un discorso pubblico (come pubblico è un giornale). E credo nella pedagogia insieme alla democrazia, perché non è possibile l’una senza l’altra. Alla democrazia in Italia credo con la ragione, per carattere e per nascita. Alla pedagogia in Italia credo con il cuore».Va aggiunto che le ‘parole democratiche’ sono ancora più necessarie, perché si oppongono al linguaggio corrente, soprattutto politico, in cui «domina ogni giorno di più una dittatura linguistica antidemocratica». (Sullo scrivere chiaro, Parise tornerà negli anni successivi polemizzando con Franco Fortini, accusato d’essere un campione dell’oscurità: «Vedi, caro Fortini, il sentimento che induce, anzi provoca naturalmente la chiarezza è un sentimento che potremmo chiamare ‘universalmente democratico’». La chiarezza «non si ottiene mediante l’assenza di virgole, punti e virgola, punti interrogativi o esclamativi, parentesi, bensì, ancora una volta, con quel sentimento molto semplice e naturale di libertà democratica, quella spinta, quell’impulso, che potremmo anche chiamare di ‘cultura primaria’ per cui un uomo nasce animale sociale»).
È dunque assolutamente necessario, per il buon andamento della comunicazione, l’uso di un italiano accessibile a tutti: «Teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo».
Solo dopo qualche settimana, Parise esplicita una delle ragioni che l’hanno spinto a dialogare con i lettori di un quotidiano: «Mi sono proposto questa rubrica innanzitutto per curiosità umana: la stessa che ho viaggiando, incontrando molta gente di molti Paesi e parlando, nei luoghi più disparati, in pace e in guerra».
Ed è proprio la sua vitalissima curiosità che a volte lo fa entrare in conflitto con i suoi interlocutori, soprattutto quando trova nei loro scritti mancanza di logica o di coraggio. Spesso riceve lettere anonime: a esse in genere non risponde. Fa però eccezione per una lettera che parla del suicidio; un’eccezione che in pochissime righe ci rivela il sentimento comunicativo di Parise: «Mi dispiace molto che lei non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato di vivere (qualunque essa sia, sempre bella appunto perché imprevedibile come il tempo), e che è tutto quello che abbiamo».
Un sentimento comunicativo che, sul rovescio di questi dialoghi, egli trasformava in stile nelle ‘poesie in prosa’ dei Sillabari. Leggendo queste righe viene in mente quell’uomo che, in compagnia di altri nove uomini e donne, compare in Amicizia; quell’uomo «che sapeva fare una cosa sola nella vita, cioè osservare nei particolari (sempre mutevoli) gli altri nove e il tempo».
Il Parise di questi anni Settanta accentua il suo costante interesse per la cultura primaria. In un mondo in preda al consumismo degli oggetti e a quello speculare delle ideologie, il solo modo per non soccombere fisicamente e intellettualmente è per lui quello di una strenua selettività. Come aveva già cominciato a fare stilisticamente con i Sillabari, frutto di una necessaria semplificazione fulminante, con rigorosa consequenzialità Parise suggerisce ai suoi interlocutori il rimedio generale della povertà. «Povertà significa, insomma, educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli alla vita»; povertà, ancora, «è conoscere le cose per necessità».
Questo rimedio, che potrebbe apparire paradossale e utopico, e che a molti lettori apparve davvero tale, è invece l’ultimo passaggio di un rigorosissimo e insieme artistico ragionamento, che, senza saperlo, Parise condivideva con l’oggi riscoperto e ammirato Jean Giono, che alla vigilia del secondo conflitto mondiale pubblicò una Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace (edita in Italia da Ponte alle Grazie), dove s’afferma che «la povertà è lo stato della misura». E lo condivideva anche con l’Antonio Delfini del Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, anch’esso ripubblicato di recente da Garzanti a cura di Cesare Garboli, dove si legge che «la povertà è educazione, decoro: è il presupposto di ogni riscatto dalle abiezioni della miseria: e serba alla nostra opera e al nostro destino un senso di precarietà che distoglie dal camuffare provvedimenti e rimedi anche profondi con le illusorie etichette della felicità e della giustizia».
Anche oggi si può pensare che il rimedio della povertà sia per lo meno utopico e incongruo. Eppure, dopo la barbarie totalitaria e ‘logicissima’ dei lager e dei gulag, come non essere d’accordo con Delfini quando sostiene che «i più efficaci fra i moti della storia umana sono nati da un’aporia della logica e da un’incongruenza del sentimento»? È naturale che il valore di queste fertili aporie e incongruenze siano degli artisti a ricordarcelo. Ed è ancora più naturale che questi artisti non amino nessuna ideologia, accettandole parzialmente tutte quando tornano utili, ma solo dopo averle passate al vaglio del senso comune (o buon senso), come ci ha ricordato efficacemente Raffaele La Capria (in La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune, Rizzoli).
È dunque alla tradizione italiana di scrittori paradossali e individualisti, spesso impolitici ma civilissimi, che Parise si richiama quando, discutendo con i suoi lettori, afferma di non «volere a tutti i costi applicare una analisi marxista, metodologia non amata ma reale», perché gli «basta il buon senso, la logica, lasciando stare la morale».
A differenza di Pasolini, Parise non ha nostalgia per il passato dell’Italia, vuol capire l’oggi e soprattutto prefigurare il possibile domani: «preferisco essere artista, cioè sperare e anche spiegare come dovremmo essere, anziché limitarmi a guardare quello che siamo».
È per questa ragione che, rispondendo a un concittadino che lo informa sulla imminente costruzione di un albergo con piscina di diecimila metri cubi nel cuore della montagna veneta Verena-Campolongo, e gli chiede un aiuto come uomo pubblico, ha un poeticissimo scatto d’ira tutto da citare: «Non ricordo più quei paesaggi e quelle montagne, signor Framarin, io se potessi difenderei l’intera Italia perché spero sempre nella sua unità, ma non posso andare contro la ‘forza delle cose’. Né ricordo più la città dove sono nato, se non a vaghe luci, come in un sogno. Se ci torno fatico a ritrovare le vie. Né ricordo più l’Italia di venti‑trent’anni fa. E la colpa non è mia, la colpa è della ‘forza delle cose’ (la storia), che ha mutato profondamente il volto del nostro Paese. Non ricordo e non voglio ricordare, per molte ragioni, consce e subconsce. Prima fra tutte perché l’Italia di trent’anni fa è lontana, lontanissima, in tutti i suoi aspetti, politici, culturali, linguistici, fonici, agricoli, non soltanto paesaggistici; poi non la ricordo più perché non voglio ricordare la mia giovinezza, perché essa non c’è più, scomparsa insieme a tutti quegli aspetti detti or ora; poi non la voglio ricordare (se non in letteratura, per testimonianza) perché la realtà del nostro Paese essendo profondamente mutata, sento la necessità di vivere oggi e non ieri; ancora non la voglio ricordare perché la conservazione del ricordo (come la conservazione delle cose) è un dato al tempo stesso statico e regressivo che, in modo assolutamente certo, viene travolto dalla realtà contingente di oggi, quella in cui, lo vogliamo o no, siamo ancora impegnati a vivere. Infine non la voglio ricordare, non voglio ricordare quei monti e quei boschi nella loro integrità, perché essi, nella realtà di oggi, l’hanno perduta».
E si capisce benissimo che proprio mentre afferma di non ricordare, egli ricorda benissimo, ma, per l’appunto, non vuole ricordare. Non vuole ricordare sia per partito preso sia, soprattutto, perché l’oggi e il domani lo attirano come un magnete e sa che se vuole tenergli testa è a volte indispensabile disinfestarsi dalla polvere della Storia, come scriverà quasi in punto di morte in una poesia.
Qualche riga più giù, in quello che è il passaggio più rabbioso di questi dialoghi, continuando la sua risposta al signor Framarin, quasi grida: «Inoltre, e questo è il concetto fondamentale della mia risposta, l’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro, della Chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali (tempismo regressivo le regioni!), vogliono essere ‘paesani’, ‘paisà’, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in ‘lotti’, in piccole, piccolissime proprietà a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato, tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, signor Framarin, l’Italia è il ‘lotto’, il proprio terreno, la propria villetta, il proprio ‘bicamere e servizi’, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile».
Tra questi italiani, ieri e oggi, c’è quella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente nel nord, che ha «’fuso’ le sue origini nella fornace produttiva e si è culturalmente ‘rasa al suolo’ per sua stessa volontà». E ci sono i giovani, i quali «più che al futuro guardano, e questa è una grande novità, a una specie di eterno presente, a una contemporaneità senza storia, pressoché assoluta». Entrambi sono, come scriverà qualche anno dopo, influenzati da forme degradate «di pragmatismo americano», lontanissime da tutte le categorie della «vecchia cultura». Hanno però un aspetto che attrae Parise: la vitalità, una vitalità quasi barbarica, che odora di sangue.
Così come era stata aperta, la rubrica improvvisamente viene chiusa. In un certo senso, Parise s’era già accomiatato dai suoi lettori, quando aveva ammesso di far sempre più fatica a trovare lettere stimolanti: «Le lettere fin qui pubblicate da me sono state scelte tra centinaia di cui mi è stato impossibile fare uso». E lui, l’ha sempre detto, non vuole fare dei monologhi o scrivere degli articoli, perché per far questo ha altri spazi. Non trovando più spunti per il dialogo, passa apparentemente ad altro.
Dico apparentemente, perché L’odore del sangue (Rizzoli), il libro postumo che ha fatto tanto discutere nei mesi scorsi, cos’altro è se non una continuazione con altri strumenti e altre forme della stessa sete di curiosità conoscitiva che l’aveva spinto a tenere la rubrica? Cos’altro è se non l’interrogazione ossessiva e scarnificante della «contemporaneità senza storia», intravista nella vita dei giovani, fatta da un uomo anziano?
La vita, «nelle sue infinite forme di espressione», è per Parise «imprevedibile, irrazionale, illogica e per nulla ‘scientifica’»; la vita è per lui «prima di tutto spreco» e l’uomo che la abita è «un animale sommamente difettibile».
Questa dolorosa consapevolezza potrebbe farlo apparire come un pessimista atrabiliare, un misantropo irrecuperabile e ‘immedicabile’. Egli, invece, come dimostra questa rubrica, è semplicemente un artista che scruta il reale senza infingimenti. Non credo di sbagliarmi affermando che il suo esempio può oggi tornarci più utile anche di certe pur geniali intuizioni ‘luterane’ di Pasolini.
«Non c’è nessuna intesa più fra lo scrittore e la vita della gente», scrive Anna Maria Ortese in Corpo celeste (Adelphi), un’altra scrittrice della paradossalità civile italiana che mi sento d’accostare a Parise. Parise quella intesa l’ha cercata disperatamente, anche se solo oggi cominciamo ad accorgercene pienamente.
Questo saggio è apparso sul numero 55, luglio-settembre 2011, della quinta serie di Nuovi Argomenti. Una sua versione precedente è uscita come introduzione al volume Verba volant. Profezie civili di un anticonformista (liberal libri, 1998).
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).