Elsa Morante nasceva a Roma il 18 agosto 1912. Nel centenario della nascita, Nuovi Argomenti aveva deciso di dedicarle il primo numero dell’anno, chiedendo a cinque narratrici che, per motivi anagrafici, non l’hanno potuta conoscere di persona, di raccontare il loro rapporto con lei. Oggi, a 35 anni dalla morte della scrittrice, condividiamo il pezzo che, in quel numero, scrisse Silvia Avallone.
A sentirsi chiamare scrittrice, Elsa Morante si sarebbe offesa non poco. Una volta si rifiutò addirittura di partecipare a un’antologia di poesie femminili. L’idea che esistesse una letteratura maschile da una parte, e una femminile dall’altra le è sempre sembrata un’immensa cretineria, se non un insulto. E vale la pena, in proposito, ascoltare direttamente la sua voce: «Secondo me, in tutto il mondo, ancora oggi, esiste in realtà una specie di razzismo, evidente o larvato, nei riguardi delle donne: perfino nei paesi dove le donne sembrano dominatrici! […] Basterebbe la distinzione – che ancora si usa fare dovunque, – fra scrittori e scrittrici: come se le categorie culturali fossero determinate dalle categorie fisiologiche (sarebbe lo stesso che dividere gli autori, per esempio, in autori biondi e bruni, grassi e magri). In realtà, il concetto generico di scrittrici come di una categoria a parte, risente ancora della società degli harem».
In questo passo, stralciato da un’intervista del 1960, non si avverte la minima traccia di «femminismo». La Morante, una delle poche donne scrittrici del dopoguerra, non pretende nessuna qualità particolare per la scrittura femminile. Al contrario, la sola idea di far parte di un harem o di una specie di riserva indiana la ripugna. E questo per la semplice ragione che la scrittura non è, per lei, né femminile, né maschile.
Fa impressione l’attualità di questa sua posizione, che incarna la sensibilità della mia generazione ben più che della sua. Proprio lei, che sperimentò sulla sua pelle tutte le diffidenze e i pregiudizi che l’essere donna spesso attira anche nell’ambiente letterario, ben più che il genere femminile, ci tiene a difendere l’asessualità della letteratura, la sua libertà da qualsiasi determinazione.
L’essere donna non è un fattore rilevante nella scrittura. Lo è nella vita, certo, ma questo è tutt’altro discorso. La Morante non scrive «al femminile», non aderisce a quella che diventerà la «cultura della differenza» perché la cultura è un campo troppo vasto per accettare perimetri e recinti. Se la femminilità interviene nella scrittura, il suo intervento non è programmato, né auspicato, né celebrato, né voluto. I maestri della Morante sono tutti uomini: «Omero, Cervantes, Stendhal, Melville, Čechov, Verga». Ma, sotto questo aspetto, potrebbero essere anche donne o perfino animali. Certe distinzioni appartengono alle variabili dei tempi, delle Nazioni, della Storia, ossia dell’irrealtà. La realtà – ciò che conta in quanto vero – è la qualità della scrittura, è solo ed unicamente il testo; e il testo, quando è letteratura, ha il potere di svincolarsi dalle determinazioni storiche, nazionali, e biologiche a maggior ragione.
Alla fine dei conti, ciò che davvero rimane e detta legge, è che la Morante ha scagliato una lancia a favore della parità e dell’emancipazione femminile proprio attraverso il suo lavoro, così fieramente indipendente; ed è diventata – dopo secoli di silenzio – uno tra i principali scrittori donna del Novecento italiano.
Detto ciò, si apre una splendida contraddizione. Se la Morante dimostra nella sua attività di scrittore un piglio così muscolare e perfino maschile, le donne che ritrae nei suoi romanzi sono l’esatto opposto di come lei stessa si concepisce e fa letteratura. In tutti e quattro i suoi romanzi, infatti, troviamo pressoché solo personaggi femminili sottomessi, piuttosto ignoranti quando non addirittura analfabeti; donne prigioniere del regno dei sensi, interamente terrestri e perfino sotterrane, schiave del proprio corpo in tutto e per tutto: potenti quando esso è in fioritura, vinte quando esso appassisce.
È una contraddizione curiosa, vistosa; o, forse, non è affatto una contraddizione.
Il personaggio-donna di Elsa Morante è essenzialmente madre, asservito all’imperativo categorico della procreazione. Ed è essenzialmente piccolo-borghese. Donne del popolo, dunque, donne bestiali. La principale distinzione che corre tra loro è quella tra giovani e vecchie, ed è una distinzione spietata.
Durante l’adolescenza il corpo femminile si sviluppa florido e sano per attrarre il desiderio dei maschi, nonché la taciuta e rassegnata invidia delle donne anziane. Cesira, di Menzogna e sortilegio, spia di notte le grazie scoperte della figlia dormiente, si vergogna di spogliarsi davanti a lei e mostrarle le sue membra rinsecchite… La contrapposizione tra il corpo giovane e fertile e quello appassito e sterile è assoluta, ed è paragonabile a quella che corre tra un oggetto utile e anzi indispensabile, e un oggetto ormai consunto e inservibile, tale da meritare l’immondezzaio.
Quello delle giovani donne è un corpo animale che dell’animalità conosce tutte le astuzie e le strategie, ma anche le debolezze e i misteri. Spesso si presenta come un organismo barbarico e primitivo, che si muove con violenza ferina, come quello della Nunziata dell’Isola di Arturo che accende il fuoco per la cena: «Ella andava su e giù dalla cassetta delle fascine al focolare, con delle mosse avventate e fiere; aggrottava le ciglia, e aveva assunto un’espressione rissosa. Pareva che, per lei, l’accensione del fuoco fosse una specie di guerra, o di festa».
Questo oggetto selvatico, terribilmente vivo, di rado bello e più spesso sgraziato, è capace però d’ispirare anche compassione (oltre che paura). Arturo così ci descrive la povera Nunziata: «c’era, in quelle forme di donna, una specie di rozzezza e di ignoranza infantile, come se lei medesima non si fosse accorta d’esser cresciuta. Il suo petto sembrava troppo pesante per quel busto acerbo, con le spalle magre e la vita piccola: e ispirava un senso strano, e anche gentile, di compassione».
Il corpo femminile cresce e si trasforma, si colora, si ammorbidisce, del tutto simile a un fiore o a un pavone. Ma è soltanto il corpo a fungere da richiamo, o meglio: è la giovinezza che abita e plasma quel corpo a operare. La donna, salvo qualche rara eccezione, non è mai stratega né seduttrice, o meglio: non lo è attivamente. A volte, a dispetto della propria giovinezza, fa di tutto per risultare spiacevole. Si pensi ad Anna, malvestita, struccata: «i capelli attorcigliati con trasandata violenza: come una alla quale è noia il pettinarsi, e che non desidera piacere ad alcuno». Il suo corpo fiorisce ed ammalia; agisce indipendentemente da lei.
Ad operare come motore primo e tirannico di questi corpi femminili è il tempo. Un tempo esclusivamente biologico. E l’opera principale di questo tempo è la metamorfosi: una trasformazione incessante che non si stanca mai di infierire su questi oggetti passivi.
Ida, la protagonista della Storia, è, a differenza di Anna, per niente bella, e la conosciamo già avanti con gli anni. Quando il romanzo comincia ne ha trentasette «e davvero non cercava di sembrare meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio di un cappottino marrone da vecchia». Ma tutta questa sua miseria e trascuratezza non le impediscono di attirare su di sé la foga e la disperazione del giovane e smarrito soldato Gunther. Lo attrae suo malgrado, in quel suo corpo sfiorito, esile e cadente. E lo fa (o meglio lo subisce) per un motivo, che lei assolutamente non desidera, ma che la natura impone: il concepimento.
La fecondazione (è proprio il caso di parlare in termini tecnici) avviene, di regola, senza alcun amore o trasporto o benché minimo piacere. Stupiscono i sentimenti selvatici di Ida nel letto coniugale la prima notte di nozze: «Per quanto se lo aspettasse, le pareva terribile che uno, da lei paragonato inconsciamente a suo padre Giuseppe, le usasse uno strazio così atroce. Ma rimase quieta, e lo lasciò fare, vincendo il terrore che la minacciava».
Non troppo diversamente la madre del Butterato si piega docilmente a quella che è solo una necessità imperiosa imposta dalla natura, e dal fulgido potere di Nicola Monaco da lei ritenuto un inarrivabile signore: «Alessandra, le pupille dilatate, fredda e docile si piegò ad ogni volontà di colui, come s’egli non fosse un uomo, bensì un’apparizione di quei recinti proibiti. […] Egli le ispirava non già amore, ma soltanto fierezza e sottomissione insieme congiunte. I suoi sensi, come quelli di una vergine, rimanevano sigillati, inaccessibili al piacere o al desiderio».
Queste donne «fredde e docili», che si piegano alla necessità, che non si oppongono alla sottomissione e nel sacrificio trovano la propria fonte di fierezza; queste donne che non conoscono piacere erotico, perché esso non è indispensabile alla procreazione, e non amano il loro compagno – legittimo o occasionale che sia – bensì soltanto lo riveriscono, o lo sopportano, o lo venerano, o lo subiscono, appartengono a una concezione della femminilità arcaica, primitiva, che esplode nelle opere di Elsa Morante in pieno Novecento.
E non c’è, in queste raffigurazioni, traccia di intenti di denuncia o ribellione. La Morante non usa queste sue donne come strumento politico o sociale, come esempio di discriminazione, come scandalo. Al contrario, queste donne le sono piuttosto simpatiche.
Lei è la prima a subire il fascino di questa femminilità tellurica e arcana, e come tale ce la esprime, affascinandoci a nostra volta. La donna diventa qui mistero: vittima e potente al tempo stesso. Chiave per accedere al segreto della Natura. Creatura non toccata dalla Storia.
Alessandra, con particolare forza, esprime in pieno il concetto della donna-animale o della donna-pianta: «la sua vita semplice, simile a quella d’un animale o d’una pianta, si volgeva uguale nel giro delle stagioni, dei giorni, e delle innocenti notti senza sogni».
Ma anche Cesira, Anna, Nunziata, Ida, Aracoeli esistono, alla stregua di un fiore o di un gatto, solo per essere fecondate. Questa è la loro più grande azione, spesso l’unica e sola azione (passiva) della loro vita. E si direbbe che tutte siano viste, almeno in parte, con gli occhi di Arturo: «infagottate creature», «informi e misteriose», pallide in ogni stagione perché destinate a vivere sempre nel chiuso delle loro stanze, come creature delle caverne, degli scrigni, come i minerali e le pietre preziose nelle miniere.
Queste donne di rado s’innamorano. Ad eccezione di Anna, che nutre una morbosa passione per il Cugino, e di Rosaria, anche lei vittima di un amore masochista e impossibile, le altre donne della Morante non sono innamorate di alcun uomo. Ne sono soggette e schiave, e in questa schiavitù inveiscono e si ribellano e danno sfogo a tutta la loro parossistica nevrosi; ma unicamente questo. Non hanno bisogno di vivere accanto a un uomo, di amarlo, per esistere. Ne hanno bisogno in un solo, fugace istante della loro vita, al pari degli animali. Cessata la stagione degli amori, è cessato anche il bisogno della figura maschile (che si svuota di ogni valore sentimentale per assumerne uno aridamente politico ed economico).
Il loro autentico ed esclusivo amore si volge altrove. Tutta la loro capacità d’amare (che è immensa, esagerata e quindi anche distruttiva) si riversa unicamente sui figli maschi (mai sulle femmine). Ma anche questo amore non è altro che una forma estrema, sadica e fanatica, di schiavitù.
Forse, dovremmo dare ragione a quella specie di tiranno da quattro soldi che è Wilhelm Gerace quando, nella sua tirata contro le madri, rincara la dose: «Almeno – egli diceva, proseguendo il suo ragionamento, – dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre, chi ti salva? Essa ha il vizio della santità… non si sazia mai di espiare la colpa d’averti fatto, e, finché è viva, non ti lascia vivere, col suo amore. E si capisce: lei, povera ragazza insignificante, non possiede niente altro che quella famosa colpa nel suo passato e nel suo futuro, tu, figlio malcapitato, sei l’unica espressione del suo destino».
Non c’è scampo, in sostanza, da questo amore tentacolare, che assume la forma inquietante di una medusa o di una piovra, che stritola e ferisce, che è sempre in eccesso, e che ti rende vittima comunque, sia che tu provi a fuggire, sia che, come il Manuele di Aracoeli, non desideri altro che restare aggrappato al seno di tua madre.
A proposito della radice primitiva, buia, e prepotentemente meridionale di questo amore materno, viene in mente un passo di Menzogna e sortilegio dalla forza irresistibile, un passo così ferino e selvaggio che persino la lingua e lo stile arcuano il dorso simili a un animale in combattimento. Ci troviamo nel paese natale del Butterato, un villaggio che ha il sapore della
preistoria; dopo aver saputo che gli altri bambini del posto prendono in giro il suo Francesco a causa dei segni lasciati dal vaiolo sulla sua faccia, Alessandra ne ha schiaffeggiato uno davanti a tutti, e adesso si trova in cucina in attesa che la madre della sua vittima venga a reclamare: «mentr’ella preparava la cena, si fece sulla soglia una matrona pugnace, dalla grande capigliatura crespa, dal volto grasso e invecchiato, bruno come quello d’un’araba, in cui gli occhi accesi e fermi
parevano carboni di miniera. […] La De Salvi aspettava quella visita; e levò appena le pupille dal fuoco presso il quale stava inginocchiata e curva, a guardare di sbieco la visitatrice. La quale, i pugni sul busto, scuotendo il battagliero suo capo e fissando l’altra quasi volesse gettarle un sortilegio, gridò con voce stridula e teatrale che nessuno doveva provarsi a malmenare le sue viscere».
La furia di questo passo è inaudita. Il fronteggiarsi in cucina di Alessandra e Agata richiama atmosfere cavernose e vulcaniche, da notte dei tempi, da mitologie esiodee e notturne, quando ancora Zeus non aveva portato ordine nel cosmo e il matriarcato vigeva sovrano e barbaro.
L’amore materno si nutre di questi elementi notturni, cavernosi, infetti, arroventati. Di qui la sua potenza; una potenza che ispira fascino e terrore. La maternità ha a che fare con la preistoria, con il prima della luce. Il grembo materno è soffocante anche quando ne siamo usciti, e resta un polo magnetico feroce, simile a un buco nero.
Ma, altra forma di amore, una forma diversa e più luminosa, semplicemente non si dà.
S’impone un dato biografico delicatissimo, ma macroscopico: Elsa Morante non ha avuto figli. La sua maternità è tutta letteraria, ed è invasiva, di più: un assedio. Non c’è romanzo che non sviluppi questo tema; anzi, non c’è romanzo che non lo sviluppi come tema principale, o tra i principali.
La Morante è uno scrittore, ma non è mai stata madre. Tutti i suoi personaggi femminili, anche i secondari (e con minime eccezioni che si contano sulle dita di una mano), sono madri, e non sono nient’altro. Per di più, sono vere e proprie ignoranti. Anche quando, come nel caso di Ida, hanno qualche nozione di sapere, si tratta sempre di un sapere basico, rudimentale, nozionistico.
Anche quando, come nel caso di Anna, arrivano a cimentarsi in prose scadenti, i loro risultati sono, oltre che sgrammaticati, un mix esplosivo di Harmony e De Sade (come notò Garboli, impareggiabile lettore della Morante).
Si tratta, in definitiva, di donne che non pensano.
Una parità fra i sessi non si dà mai. E questo – si noti – non perché i personaggi maschili adulti di Elsa siano dei tiranni (anzi, semmai, sono degli sconfitti), ma perché le donne stesse si concepiscono, di più: si desiderano, schiave. Il godimento è tutto in questo loro masochismo. E se gli uomini adulti, specialmente i padri e i mariti, più che ammirazione suscitano pietà, i veri tiranni sono invece i ragazzini, i figli idolatrati. Lo sono, tiranni, perché così li hanno voluti le madri, così li hanno cresciuti in un geloso abbraccio. Il Cugino, il Butterato, Ninnarieddu sono casi esemplari di figli ingrati, dispotici, e intrinsecamente deboli, incapaci di diventare adulti, tenuti sempre al giogo delle loro madri. Sono eterni figli, come il Manuele di Aracoeli. Serviti e riveriti in casa, non si adattano ad affrontare il mondo esterno, la realtà che esiste fuori dal grembo materno: il loro regno, il dominio della loro unica, povera, dittatura.
Abbiamo visto come queste donne non provino alcun piacere erotico e neppure lo rimpiangano. Ora, il loro erotismo, sublimato, si trasferisce tutto sui figli, vezzeggiati e amati quasi senza pudore. Non appena i figli si emancipano (ovvero, tentano di emanciparsi), loro di colpo perdono ogni energia vitale. Come un fiore che ha dato il suo frutto, adesso sono libere di lasciarsi andare e di appassire. Non hanno più alcuna funzione da svolgere. Invecchiano improvvisamente. E la Morante si compiace di descrivere questo loro sfiorire, questo declino del corpo che rinsecchisce oppure cede e si sforma, ed è peggio che morire.
Elsa ha orrore della vecchiaia, ben più che della morte (e vivrà sulla sua pelle l’invecchiamento come una pestilenza). Forse è per questo che indugia così tanto, e affonda il dito nella piaga con malcelata soddisfazione, ed è regina nella descrizione del decadimento fisico delle donne. Leggiamo con quanta impietosa maestria viene descritta la già citata Cesira: «Il suo corpo s’era smagrito eccessivamente, e le sue braccia nude fuor della camicia, apparivano sottili e deboli come quelle d’un bambino […] Pettinandosi, la mattina, ella provava ogni volta una stretta al cuore nel vedere che folte ciocche dei suoi capelli cadevano sotto il pettine, ed eran già grigie».
La vecchiezza che colpisce le donne è quasi sempre precoce e si accanisce nel demolire le forme un tempo graziose, o perlomeno floride, come un parassita implacabile.
È da notare che le donne sono le sole soggette a questo terribile decadimento, che assomiglia più a un diroccamento che a un declino. Quei corpi diventano vere e proprie macerie, informi, irrecuperabili e spesso anche irriconoscibili. Gli uomini, invece, non invecchiano affatto allo stesso modo: possono diventare ubriaconi come Teodoro Massia e un po’ dementi come Damiano De Salvi, ma il loro corpo non conosce il tracollo delle donne, e la vecchiaia li raggiunge sempre in tarda età (come il catarroso nonno di casa Marrocco). Gli uomini, semmai, si ammalano: questa è una loro prerogativa, un loro lusso. E a loro devono provvedere sempre le donne.
Esse (è proprio il caso di usare, come fa la Morante, questo pronome) diventano vecchie e basta, inchiodate senza via d’uscita alla vecchiaia. Una vecchiaia che accettano amaramente, rassegnate, tristi, spesso abbrutite nell’animo, incattivite, ma a testa bassa.
Infine, le donne della Morante sono sempre e sistematicamente paragonate ad animali. Gli esempi si sprecano, tanto sono numerosi. Ma vanno fatti rientrare in questo discorso – ribaltando la metafora – anche gli animali di sesso femminile che partecipano delle qualità delle donne. Tre su tutti: la gatta Rossella della Storia, la cagna Immacolatella dell’Isola di Arturo, e la gallina Armida di Menzogna e sortilegio. Questi animali di sesso femminile, infatti, gettano luce sulle donne della Morante, appartengono attivamente alla grande categoria del femminile così come viene narrata nei suoi romanzi. Con un notevole distinguo però: tutte e tre le bestiole sopra citate non sono in grado di generare.
La stregata gallina Armida non fa uova, la gatta Rossella partorisce un gattino esilissimo che vive poche ore e poi muore, la cagna Immacolatella muore di parto e anche i suoi cuccioli non le sopravvivono. Questa maternità negata degli animali è come il lato oscuro della gigantesca metafora morantiana che vede le donne simili a bestiole, relegate alla loro funzione bestiale. Ed è anche un punto interrogativo opaco, una fessura aperta su un nodo biografico irrisolto e doloroso. Non a caso Garboli ci dice della gatta Rossella che è il personaggio più autobiografico della Morante.
È raro, tirando le somme, trovare nella letteratura italiana (se non europea) un autore che tratti le donne in questo modo, schiacciandole così prepotentemente verso il basso; che ne dia una concezione tanto arcaica, tutta incentrata e richiusa sulla maternità; che le incateni così crudelmente all’orologio biologico, senza che possa esistere un altro tempo per loro.
È quasi impossibile trovare un autore simile. Ed è sorprendente che questo autore sia una donna. A proposito di Menzogna e sortilegio, Garboli ha osservato: «Ricordo che negli ultimi anni della Morante, e poi negli ultimi anni della vita di Natalia Ginzburg, mi meravigliava il giudizio sul proprio sesso che a volte sentivo affiorare nelle loro parole. Queste due grandi donne erano giunte a sospettare e a diffidare della natura femminile e a contemplarla con una certa sazietà e forse insofferenza. La Ginzburg con uno sforzo di compassione, la Morante con derisoria animosità. E mi chiedo se Menzogna e sortilegio non sia un romanzo misogino. Ma non voglio pronunciarmi».
Menzogna e sortilegio, se è misogino, non lo è meno degli altri tre romanzi. E «l’animosità derisoria» che Garboli ha riscontrato nella voce della Morante donna non è inferiore in quella della Morante scrittore. Il punto è che dalla sua opera, più che un giudizio definitivo, emerge una scelta di campo: la scelta di raccontare la natura femminile nel suo lato più irriducibilmente femminile, ovvero biologico, corporeo, materno. E in questa scelta, che è tematica, offrire una rappresentazione grandiosa anche di quella cultura remota, arcaica, barbara (ma tuttora operante) che così ha voluto che la donna fosse rappresentata e che rappresentasse se stessa.
Queste donne vissute nel chiuso delle loro case, senza nient’altro desiderare o sperare che l’esperienza della maternità; queste donne umiliate, nevrotiche, selvagge, incolte, analfabete non sono nient’altro che le nostre nonne, e bisnonne, e trisnonne, e così a ritroso nelle generazioni fino alla notte dei tempi.
La Morante ha scelto di raccontare non la donna in via d’emancipazione (ossia una donna futura), ma la donna relegata fuori dal tempo storico, come sempre è stata fino a ieri, e spesso è ancora oggi.
In questa scelta di campo, poi, a volerla ben scavare e auscultare, sono rintracciabili idiosincrasie personali assai forti. È innegabile, infatti, che queste donne analfabete che la Morante ritrae le siano simpatiche, ma che comunque lei le guardi con gli occhi maschili di Arturo, di Ninnuzzo, ossia dei suoi eroi. Sono i maschi adolescenti che la Morante approva, sono loro il polo luminoso dei suoi romanzi, la sostanza leggera e aggraziata in contrasto con la sostanza pesante e oscura che lei tanto aborre (nelle donne e in se stessa).
In un suo breve saggio del 1995, intitolato Elsa come Rousseau, sempre Garboli ci viene incontro e ci offre un destro mirabile: «La Morante non s’identifica con le donne, s’identifica coi ragazzi. Il suo rapporto con il mondo passa attraverso la prepotenza luminosa di Achille o il distacco dal mondo di Rimbaud. Figurarsi. La Morante non ama le donne. Le disprezza; e le disprezza quanto più esse vantino civiltà, educazione, cultura. Alle donne emancipate o intellettuali è capace di negare ogni simpatia. Preferisce le contadine come Nunziata, le maestrine impaurite come Ida Ramundo. Se non fosse per Simone Weil, le donne che la Morante ammira sono quasi sempre analfabete».
La Morante, bisogna ricordarlo, è un outsider. Una donna venuta dal niente, fuggita da un’infima famiglia piccolo borghese; un’autodidatta, che non è andata a scuola fino al ginnasio; una fattucchiera, ribelle a qualsiasi modello ed influenza; un’intellettuale senza criterio, senza programmi né orari, schiava della sua fantasia potente, delle sue larve, delle sue metamorfosi. Il grande scrittore nasce da qui, da questa donna così eccentrica, da questa maestra poco edificante. La sua grandezza letteraria si nutre, come un vampiro, di quella sua, per così dire, (titanica) piccolezza.
Abbastanza naturale, quindi, che lei preferisca le popolane alle borghesi. E d’altra parte, le donne-animali e donne-piante dei suoi romanzi, non sono del tutto disarmate. Se non possono contare sull’intelletto, possono però avvalersi di poteri arcani. Simili alle dee più antiche delle religioni mediterranee, intrattengono legami fortissimi con le Grandi Madri, con la Terra generatrice. Sono, in quanto partecipi dei misteri della Natura, creature dai sensi acutissimi, dagli istinti di preveggenza, capaci di una ferocia e di un’abnegazione che le rendono al contempo sante e streghe.
Sono, per definizione, al pari degli animali, creature fuori dalla Storia; e quindi innocenti. E questo basta, forse, a salvarle.
Anche se poi la Morante, a tutto il genere femminile messo insieme, preferisce nettamente quello maschile. Ed è per loro, per i maschi (quei tiranni, quei colpevoli, scontrosi e leggiadri) che scrive i suoi romanzi.