In un prossimo futuro, quando gli storici della letteratura dovranno indicare un personaggio che stia al romanzo americano contemporaneo come Achab o Hester Prynne stavano al romanzo americano di metà Ottocento (un personaggio non solo memorabile, quindi, ma anche capace di riassumere nel proprio destino uno di quegli scatti in avanti di cui è composta la storia letteraria), con ogni probabilità il nome più accreditato sarà quello di Levov lo Svedese, il protagonista di Pastorale americana di Philip Roth. Calando sullo sfondo dell’estremismo politico degli anni Sessanta la storia di un ex atleta bello e generoso devastato da una violenza inconcepibile – una figlia assassina, una terrorista che lo ricatta, una moglie che lo tradisce – Roth infatti non solo fa del suo personaggio un perfetto punto di convergenza tra storia individuale e storia collettiva, ma riesce anche a dare voce a un enigma più profondo. E Levov, con la sua infinita capacità di sopportazione che non è sufficiente a salvarlo dal più immeritato degli inferi, è in ogni espressione del suo essere quella domanda, una manifestazione di profonda, sincera, americanissima incomprensione di fronte alla catastrofe.
Come capita spesso nel caso di romanzi tanto fondamentali, la potenza dell’interrogativo sollevato da Pastorale americana ha agito anche come argine al tentativo di rielaborazione di quello stesso materiale: in parte perché è diffusa giustamente la consapevolezza che il genio ebraico di Philip Roth rimane tuttora troppo inafferrabile per produrre discepoli, in parte perché la nuova generazione di narratori ha trovato altri profeti (almeno uno, David Foster Wallace) e in parte, infine, perché è stata la Storia stessa con la S maiuscola a dare concretezza al senso di abisso con l’attacco al WTC. Le condizioni che hanno prodotto la vicenda dello Svedese, insomma, sono state uniche e irripetibili, ed è proprio la presenza all’orizzonte di un evento catastrofico come l’11 settembre, appena quattro anni dopo l’uscita del romanzo, a conferirgli a posteriori quello sguardo retrospettivo sull’America novecentesca che ne fa un punto di sintesi, la fine di un’epoca e l’inizio di un nuovo corso.
Per questo motivo colpisce oggi, a quindici anni di distanza, osservare uno dei pochi esempi che testimoniano nel materiale vivo della propria narrazione questo passaggio di testimone: mi riferisco a Guardami di Jennifer Egan, originariamente pubblicato proprio nel 2001 ma tradotto solo oggi da minimum fax. Il romanzo, che si situa alla confluenza di diversi temi ormai classici nella scrittrice di Chicago (il ruolo delle tecnologie nella vita delle persone, il rapporto tra sguardo e identità, la commistione di generi) e che racconta la storia di una modella sfigurata da un incidente stradale che si ricicla come personaggio di un innovativo e inquietante social network, paga esplicito tributo al capolavoro di Philip Roth con il personaggio di Moose, un professore universitario la cui vita è stata trasformata radicalmente da una “visione” avuta da ragazzo: prima di tutto perché Moose, fratello dell’amica d’infanzia della protagonista Charlotte, è un personaggio rimasto prigioniero del passato, il tempo dell’infanzia provinciale dalla quale Charlotte ha dedicato tutta la vita a fuggire ma anche il tempo mitizzato di un’innocenza perduta. Tanto che le voce narrante di Guardami, così come quella di Nathan Zuckermann in Pastorale americana, non possono fare a meno di riferirsi a quel passato con una vena elegiaca, seppure ovviamente conflittuale.
Simbologia della perdita a parte, le analogie tra Moose e Levov sono molte e vanno dalla semplice citazione fino al vero e proprio confronto intertestuale: Rockford, la cittadina dell’Illinois in cui è ambientata parte della vicenda di Guardami, conta una nutrita comunità svedese (è di origine svedese la stessa Charlotte, in effetti); come Levov, anche Moose è stato ai tempi del college un atleta di successo, e come lui è stato bello e amato dalle ragazze; analogamente a quella di Levov, anche la vita di Moose ha subito un punto d’arresto improvviso, uno shock che l’ha radicalmente trasformata, e significativamente a causa di uno stesso oggetto: Levov dopo che la figlia Merry ha fatto esplodere un ufficio postale uccidendo una persona, Moose spingendosi troppo in là in un esperimento universitario sul rapporto tra tecnica ed etica che coinvolgeva, appunto, una bomba rudimentale; come la Newark di Roth, anche la Rockford di Jennifer Egan racchiude in sé una sintesi dello sviluppo storico del Midwest americano, un destino che è anche una sintesi di quello della nazione e che Moose, così come Levov, si trova a simboleggiare vivendone sulla propria pelle le terribili conseguenze. Ma qui finiscono le analogie e cominciano i punti di distanza.
Innanzitutto (ed è uno dei motivi che fanno di Pastorale americana un romanzo con una carica horror degna di un film di Roman Polanski) la dannazione dello Svedese viene dalla propria figlia, cioè da quella splendida metafora del doppio che è la riproduzione di sé nella prole: l’adolescente affetta da balbuzie, terrorista e assassina è lo specchio in cui si riflette la zona in ombra della vita di Levov, una vita fatta di successo, lavoro e fiducia nel progresso americano. Al contrario la visione di Moose è ormai completamente interiorizzata, e si manifesta in un panorama molto lontano da quello della Newark scossa dalle rivolte razziali: il cavalcavia di un’interstatale in mezzo ai campi di grano. In secondo luogo la distruzione di Levov non si trasforma mai davvero in una visione proprio perché è qualcosa di troppo radicalmente altro per poter occupare uno spazio nella realtà, tanto che lo Svedese, in una delle scene più dolorose ed esilaranti del libro, ha bisogno di aggrapparsi alla storia di Giovannino Seme di Mela per trovare un mito fondativo capace di dare un senso al caos. In maniera significativamente diversa, la visione di Moose abbandona i territori ancora profondamente materiali del mito per spostarsi in quelli più contemporanei dello gnosticismo tecnologico:
Moose aveva capito che era ormai tutto finito: i treni, le fabbriche, il mondo degli oggetti era perduto per sempre, e l’immaginario era in ascesa, e turbinava su sottili connessioni che sentiva letteralmente accumularsi sottoterra, avide e invisibili. Fili che non erano neanche fili. Informazioni che vivevano nell’etere (p. 412).
Se il problema principale di Levov concerneva il campo dell'”essere” (l’essere della figlia qualcosa di inconcepibile, una violenza cieca), nel caso di Moose il male è inerente al “guardare”:
La nascita della visione chiara, della consapevolezza delle persone della propria esteriorità sembrava all’origine di un fenomeno la cui portata si spingeva fino al tempo attuale: schermi, cornici, immagini, un mondo costruito e vissuto dall’esterno (id).
Infine, mentre la prospettiva di Levov è completamente americanocentrica (da cui la “pastorale” del titolo), quella di Moose si è ormai allargata alla scala globale:
La risposta stava nella visione: quello che prosperava in questo nuovo mondo era un uomo diverso da Moose, un sociopatico che si reinventava ogni pomeriggio, per il quale la menzogna era solo persuasione. Dominavano sempre di più il mondo, queste creature volubili, minotauri che non erano prodotti della nascita o della storia, della natura o dell’esperienza, ma erano solo esteriorità basata su prototipi, e avevano la stessa relazione con gli esseri umani che gli abiti realizzati a macchina hanno con quelli cuciti a mano. Un mondo ricreato con i circuiti è un mondo senza storia, senza contesto, senza senso, e poiché noi siamo ciò che vediamo, noi siamo ciò che vediamo, un mondo così è certamente destinato alla morte (p. 411).
Se il Novecento americano veniva chiuso con il falò simbolico dei suoi miti, rappresentati in Pastorale americana dalla famiglia, dal progresso e dalla promessa della felicità, la creatura che emerge dalle ceneri per inaugurare l’ingresso nel Terzo Millennio è una creatura ormai iper-tecnica: un “minotauro” immateriale fatto di connessioni, auto-consapevole, trasparente come il vetro da cui la visione di Moose prende le mosse, cosciente solo della propria immagine e sempre votato a essa. “Noi siamo ciò che vediamo”: Levov, proveniente da una famiglia di guantai, avrebbe detto piuttosto che “noi siamo ciò che sentiamo”, conferendo un primato assoluto al tatto. Nello spostamento di senso che questa differenza riassume in sé (verso una prospettiva globale, esteriorizzata, tecnica) è racchiuso se non un intero destino storico quantomeno un manifesto di poetica per il nuovo romanzo americano. A quindici anni di distanza di questo manifesto stupisce la chiarezza visionaria: che a pronunciarlo sia la voce cristallina di Jennifer Egan, davvero una delle più nitide e potenti della narrativa d’oltreoceano, invece non stupisce affatto.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).