Dei miei progetti di matrimonio ricordo pochissimo; ricordo che avevamo un file comune su dropbox con la lista degli invitati; ricordo che S. la aggiornava aggiungendo familiari cui era affezionata, io invece mi dedicavo soprattutto ad amici e conoscenti facoltosi (mi facevano gola i regali); ricordo che ripetevamo troppo spesso di avere un progetto comune; ricordo che parlammo del vino – un rosso piemontese, probabilmente – da servire alla cerimonia.
Quella notte di novembre si staglia invece con un nitore da neon. Avevo appena finito di cenare e stavo guardando fuori dalla finestra, verso il lago. L’acqua una massa scura accesa solo a tratti da schiuma opalescente. Il lago Michigan è enorme – 500 chilometri di lunghezza e 190 di larghezza per circa 4900 chilometri cubi d’acqua – e quando c’è vento (quindi sempre, o quasi, a Chicago) le onde sono violente come quelle dei nostri mari nei giorni di bandiera rossa. Da me erano le undici passate – circa le sei di mattina a Parigi – e speravo di parlare con S. prima che andasse al lavoro. A causa del fuso ogni volta che ci sentivamo c’era sempre uno dei due che stava per andare a letto, o si era appena alzato. Parlammo e ci dicemmo le frasi consuete; ridemmo, probabilmente, a una qualche battuta – o fu solo lei a ridere. Lo capii immediatamente: i mesi successivi non avrebbero portato regali, né cerimonie, né letti sfatti in alberghi stranieri e di lusso, solo un penoso misurare la distanza che – sul colpo e senza una ragione apparente – si era aperta tra di noi. Non so perché me ne accorsi proprio in quel momento e non un giorno prima, o dopo, o mai. “Non c’è trama – ha scritto una volta Magrelli – ma trauma”; non c’è mano che squarcia, solo lo squarcio.
Siccome mi sforzavo di essere un bravo fidanzato e mi esercitavo a diventare un bravo marito, il giorno dopo parlai con S., le chiesi se questa nuova distanza che sentivo fosse “reale”. “No”, mi disse sicura: vedevo le cose diverse da come veramente erano, probabilmente perché ero depresso. La depressione aveva deformato figure e cose, cambiato la mia percezione fino a sballare ogni prospettiva. Potevo, in coscienza, darle torto? Non era un bel periodo, e quell’umor nero apparentemente senza speranza in cui si crogiolano molti adolescenti stava durando, in me, ben oltre l’età in cui è consentito non vergognarsene. Ascoltai S. e le diedi ragione, per nulla rassicurato.
La storia è talmente banale che non è proprio possibile farla lunga: i giorni, faticosissimi e uguali, passarono, accumulandosi uno sull’altro fino a diventare un mese o poco più. Lasciai Chicago il 25 dicembre per raggiungere S. a Parigi, sperando che distanza fisica e distanza emotiva fossero commensurabili, illudendomi che eliminando la prima potesse magicamente sparire anche la seconda. Nulla, ovviamente, cambiò; anzi: la fredda prossimità dei corpi acuiva, per contrasto, la percezione dello strappo; lo spazio ingigantiva. Anche l’atteggiamento di S. non era mutato (forse solo il tono, spazientito e via via sempre più stanco, strascicato). S. insisteva nella narrazione di un amore felice, di un progetto comune presto compiuto: quella, mi ripeteva S., e di conseguenza ripetevo io con lei, era la “realtà”, tutto il resto fantasmi partoriti dalla mia mente non proprio in quadro. E realtà invece non era, ma finzione. O matassa di fatti e finzione.
Pensai d’essere diventato pazzo, e forse pazzo per un periodo lo fui davvero, con tutto l’ambaradan di sintomi del caso: l’insonnia protratta per settimane, l’afasia, l’impossibilità di dominare il proprio corpo – un corpo che si alzava e si vestiva, un corpo che si nutriva (pochissimo) e che provava a riposarsi. Silenzioso, mi osservavo come da una bolla. È una storia comune, di tradimento (forse), e di un amore che si spegne. Succede.
S., con i suoi discorsi rassicuranti ma frettolosi, con le sue moine forzate, aveva creato un “romanzetto d’amore” a mio, ma probabilmente anche suo, uso e consumo, esattamente come i giudici di cui racconta Manzoni nella Storia della colonna infame avevano creato – ad uso e consumo della società ma anche di loro stessi – un abominevole, perché falsissimo, “romanzo storico”. I racconti di S. e degli untori contenevano elementi di realtà – la peste, le confessioni di Piazza e Mora, un affetto forse ancora creduto vero – ma dicevano, alla fine, il falso. Come se la narrazione, anche la narrazione che ogni giorno facciamo della nostra vita, non potesse che tradire il suo cuore nero, il suo esser sempre parziale, falsa anche quando non capziosamente falsificata. E avrebbe dunque ragione Roland Barthes parlando di “effetti di reale”: niente più che espedienti, trucchi da prestidigitatore per abbindolare lettori – e innamorati – creduloni.
Ma la letteratura, al contrario delle narrazioni degli amanti infedeli, pretende – e proprio in virtù di questa (necessaria, ineliminabile) falsificazione – di ritrovare e dire una verità altra che, per dirla con Gadda, “sta dietro i fatti e li determina come dietro il quadrante dell’orologio si nasconde il suo segreto meccanismo”.
Dopo alcuni decenni in cui dare del realista a uno scrittore equivaleva a dargli dello stupido o, al limite, dell’ingenuo selvaggio, da qualche tempo il dibattito sul realismo ha ripreso quota e interesse. Ad aprire il vaso di Pandora è stato Gomorra: è a partire dal romanzo-verità di Saviano, infatti, che la critica ha cominciato a parlare di un “ritorno alla realtà” della letteratura italiana recente. Un ritorno evidente, e che andrebbe se mai retrodatato almeno ai primi anni Novanta: a partire, per quanto riguarda il teatro, dal Racconto del Vajont di Marco Paolini (1994) fino a Radio clandestina di Ascanio Celestini (2005). Per quanto riguarda la produzione romanzesca bisognerebbe invece ricordare, tra i molti, almeno Vite di riserva di Sandro Onofri (1993), Fattacci di Vincenzo Cerami (1997) e L’Abusivo di Antonio Franchini (2001). Un ritorno alla realtà, e a forme più o meno classiche di realismo, che andrebbe poi analizzato – lo hanno fatto, e bene, Raffaele Donnarumma e Guido Mazzoni – in stretta relazione con la coeva letteratura europea e nordamericana. (Si pensi, per citarne solo alcuni e alla rinfusa, ad autori come Ingo Shultze, José Saramago, Jonathan Franzen, Michael Cunningham e, più recentemente, Jonathan Littell).
Naturalmente parlare di realismo a cuor leggero è oggi impossibile, e ogni scrittore minimamente avvertito sente irresistibile il bisogno di accompagnare il lemma con un aggettivo ad hoc, rimarcando così la differenza fra gli esperimenti odierni e quelli della tradizione. Walter Siti ha recentemente dedicato al problema un agile libello – tra autoesegesi e utile ricapitolazione delle teorie altrove analizzate più in dettaglio (il debito, riconosciuto, è soprattutto con il Bertoni di Realismo e letteratura) – nel quale propone la definizione di “realismo gnostico”. Utile ricapitolazione, dicevo, perché la riflessione di Siti ripropone, reinventandolo solo in parte, un percorso del realismo che, dai “piedoni sporchi di Caravaggio” alle epifanie woolfiane, mira soprattutto allo svelamento “impossibile” di una Totalità perduta. Anche la proposta, apparentemente contraddittoria, di un realismo come “anti-abitudine”, come “leggero strappo, particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale”, si muove, in realtà, all’interno del discorso Šklovskjiano dello straniamento (e infatti, già a pagina 10: “molto prima di essere usato da Brecht contro l’identificazione realistica, lo straniamento ha militato a lungo sotto le bandiere del realismo”). La tesi di fondo di Siti è però chiarissima e condivisibile: il realismo, al suo cuore, è una tensione “a rappresentare zone sempre più nascoste e proibite della realtà, impiegando artifici sempre più sofisticati e illusionistici” piuttosto che un risultato raggiunto. Stupisce, se mai, che ancora si senta il bisogno – più di un secolo dopo Freud, dopo il modernismo e, ad esempio, la “metastoria” di Hayden White – di liberare il campo dell’equivoco del rispecchiamento; come non fosse ormai lapalissiano che ogni narrazione è già sempre un’interpretazione nella quale i nessi tra azione e reazione risplendono di una cogenza (di un significato) sconosciuto al “mondo reale” (al semplice accadere del mondo). In quanto interpretazione, in quanto di più di – e della – realtà, ogni narrazione è quindi sempre nello stesso momento atto di fede nella possibilità di dire il mondo e suo tradimento. La non ingenuità dei realismi contemporanei è, in fondo, tutta qui: nella consapevolezza che è possibile dire una verità del mondo e di sé solo attraverso una costruzione che è immancabilmente parziale e soggettiva; che è come dire: una costruzione sempre almeno parzialmente arbitraria. È, del resto, storia vecchia: consapevoli della propria inaffidabilità, i romanzieri hanno da sempre cercato di contrabbandare le loro invenzioni per storie vere (si pensi solo a quello che, per il critico Ian Watt è il primo esempio compiuto di romanzo moderno, il Robinson Crusoe di Defoe pubblicato nel 1719, o all’espediente del manoscritto ritrovato nei Promessi sposi di Manzoni), oppure hanno rivendicato alla finzione un di più di verità generale. Ritorneremmo quindi d’un balzo al libro nono della Poetica, là dove Aristotele afferma che “la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari”. Come scrive Franchini ne Gli ultimi due italiani di Kobarid, “la storia immaginata” finisce per essere “vera quanto quella reale”; l’equivalenza però – e non è un distinguo da poco – è di quantità, non qualità: la storia immaginata è, o può essere, vera quanto quella reale, non come quella: è di diversa specie. Perché, nella vita come nella letteratura, il problema non è tanto (o non solo) accertare i fatti, ma provare a connetterli (e “soltanto connettere” è l’imperativo posto in epigrafe a Casa Howard di Forster) in vista di un senso. È per questo che il (forse sopravvalutato, certo problematicissimo) saggio di David Shields Fame di realtà sembra mancare il bersaglio: oggi come ieri il lettore non è “affamato di realtà” ma “affamato di destino”, ovvero di un ordine e un significato che, sconosciuti al mondo reale, tralucono invece dalle (migliori) finzioni romanzesche.
In questo senso, Siti ha ragione, il realismo è sempre uno “strumento di accesso al Mito”; uno strumento, o ancor meglio una cassetta degli attrezzi, ovvero la somma di molti e diversi effetti di realtà; effetti di realtà che servono a rendere riconoscibile il mondo rappresentato (“a non perdere e tenere a ruota” il lettore scrive Siti) in vista però di un superamento del mondo verso l’idea: “Platone si lamentava del realismo perché è una copia della copia – leggiamo già a pagina 28 -, ma il verosimile sarà tentato di riportare l’albero dipinto verso la forma ideale dell’albero, potando malformazioni e rami secchi”. Che lo si chiami “gnostico” come Siti, “aumentato” come Ricuperati, “2.0” come Casadei (che però si riferiva in particolare a Gomorra) o, ancora, “consapevole” come propongo io, alla fine ogni realismo rimanda all’insufficienza della sua stessa rappresentazione e insieme all’inafferrabilità e insufficienza del suo referente: quella realtà che “non ci basta” e che, non ancora ordinata in racconto, nessuno sa bene che cosa sia. (Ecco il paradosso: per quanto problematico e complesso, il realismo, che è una tecnica, è possibilissimo; impossibile è invece, iuxta Lacan, il reale).
Ma conviene fare un passo indietro e rilevare, a un livello elementare di diagnosi, come un’attitudine in senso lato realistica pervada oggi la narrativa italiana a livelli e con sfaccettature tra loro anche molto differenti. “Realistici” (di un realismo del dictum) sono, ad esempio, tutti quei romanzi che, partendo da un episodio di cronaca, mirano alla scoperta di una verità fattuale diversa da quella vulgata; penso, ad esempio, ad alcuni gialli di Lucarelli e, in parte, a Gomorra stesso. Tali testi, che sfruttano le formule del giornalismo investigativo, si servono di un di più di narrazione come espediente per meglio catturare l’interesse del lettore. Più complesso, almeno da un punto di vista dell’evoluzione del genere, è invece il discorso riguardo quei romanzi che, partendo da un episodio di cronaca e ibridandosi con generi diversi quali il saggio e l’autobiografia, mirano a trascendere il mero fatto per giungere a una verità prettamente romanzesca, ovvero esistenziale quando non mitica. (Il romanzo ibrido, allora, non riflette l’evento, riflette bensì sull’evento, mettendo in scena le dinamiche in atto tra vita singolare e Storia, o tra vicende private e archetipi umani). Tra i molti esempi possibili, e tra i più riusciti, ricorderei ancora L’Abusivo di Franchini e Il demone a Beslan di Andrea Tarabbia. (Un libro, quest’ultimo, notevolissimo e che non mi pare abbia ricevuto l’attenzione che meritava).
C’è poi un’attitudine realistica diversa, a prima vista anche più “tradizionale”, perché non mira a superare il sospetto (oggi, lo sappiamo, alle stelle) del lettore per il racconto fnzionale attraverso la rielaborazione più o meno narrativizzata di fatti realmente accaduti, ma entra a modellare una trama che è immediatamente e senza ambiguità dichiarata d’invenzione. Penso ai romanzi di quello che è oggi il nostro scrittore insieme più celebrato e bistrattato, Alessandro Piperno. Talvolta ho l’impressione che i suoi più aspri critici nascondano un odio inconfessabile per il genere romanzo in sé; perché si dica quel che si vuole, ma Piperno è romanziere di razza, e tutt’altro che commerciale. Più ancora che attraverso il romanzo d’esordio Con le peggiori intenzioni, credo che la centralità del suo progetto narrativo sia comprensibile alla luce del dittico Nel fuoco amico dei ricordi; un dittico nel quale anche la lingua, depurata di alcuni eccessivi preziosismi che appesantivano la prima prova, si fa più robusta e, direi, “classica”. (E un fine latinista come Luca Canali ha riconosciuto a Piperno uno stile “solennemente ciceroniano” sapientemente mescolato al turpiloquio). Non è un caso che più di ogni altro Piperno abbia sollecitato confronti con i grandi romanzieri primo-novecenteschi (si è scomodato addirittura Proust, di cui Piperno è stato, peraltro, interprete originalissimo). Persino Filippo La Porta, che aveva assai giustamente bollato tali paragoni come “incauti”, non ha resistito alla tentazione, e ha parlato delle Peggiori intenzioni come di un “Buddenbrook de noantri”. Al di là della pertinenza dei singoli raffronti, il punto è capire perché, quando si parla di Piperno, sembri impossibile sottrarsi a questo gioco di accostamenti e azzardi. Se l’Italia è, come ha ricordato La Capria, “terra di letterati, e perciò ricca di scrittori e scarsa di romanzieri”, Piperno – a contraggenio rispetto alla sua stessa tradizione – crede fermamente nel, e forse ancor di più ama il, romanzo “tradizionale”. (Quel romanzo “ben fatto” che la nostra neoavanguardia aveva bollato come irrimediabilmente “borghese” e aveva – sbagliando – relegato in polverose soffitte piene di “buone cose di pessimo gusto”). Immagino che nella personale biblioteca affettiva di Piperno i nomi di Robbe-Grillet e Butor occupino un posto assai marginale; li conosce, senza dubbio ne ha valutati i ripetuti tentativi eversivi, e ha poi consapevolmente deciso di adottare una strategia che, anche ammesso che sia di retroguardia, certo non è obsoleta. Per restituire al romanzo la sua funzione conoscitiva, sembra dirci Piperno, non è necessario negarlo, ma rilavorarlo e rinnovarlo dall’interno, tenendo ben ferme le fondamenta del genere, quelle stesse fondamenta che molte teorie novecentesche volevano far saltare in aria: la robustezza (anche psicologica) dei personaggi e dell’architettura narrativa, e il “piacere” di una narrazione a forte carattere mimetico. Lo si sarà capito: quello di Piperno mi sembra un programma tutt’altro che naïf, e in effetti ad altissimo tasso di rischio. Cos’è, infatti, Il fuoco amico dei ricordi se non un tentativo di descrivere gli intrecci e gli urti tra la contemporanea “società della comunicazione” e la vita psicologica e intima del singolo? Potremmo quasi considerare Persecuzione e Inseparabili due case studies sull’Italia contemporanea; ma sono, invece, qualcosa di diverso e (forse) qualcosa di più. Se alcuni fatti di cronaca hanno certamente funzionato come principi ispiratori (in filigrana alla vicenda di Filippo di Inseparabili, ad esempio, appare chiaramente il “caso Saviano”), Piperno non sceglie, come oggi va per la maggiore, la scrittura di non fiction più o meno romanzata, ma si affida – con un atto di fiducia che può apparire enorme – all’immaginazione, al romanzo “puro”.
Anche per chi, come me, sente tutta la stanchezza del genere-romanzo e punta su narrazioni a forte componente (auto)riflessiva e ibrida, il dittico di Piperno fa l’effetto di una boccata d’aria fresca. Verrebbe da esclamare: “ma allora è ancora possibile!”; è ancora possibile, cioè, costruire un impianto narrativo nel quale piacevolezza e cognitività della trama vadano di pari passo. Mentre leggiamo della famiglia Pontecorvo non solo godiamo dei ripetuti coups de théâtre che una narrazione perfettamente bilanciata dosa con attenzione, ma riflettiamo sui meccanismi che, spesso in modo occulto, governano il nostro stare nel mondo qui e ora.
La piacevolezza di cui parlo non ha a che fare, però, con quella visione consolatoria del mondo di cui ha parlato David Foster Wallace come carattere distintivo dell’arte commerciale; non è una visione rassicurante: Piperno non si arresta di fronte a debolezze, meschinità, storture dell’anima, ed anzi tutte le indaga con sguardo fermo e pietoso (il balzo in avanti del Fuoco amico dei ricordi rispetto alla prima prova mi pare sia frutto esattamente di questa capacità di notomizzare le nostre ferite con rispetto e delicatezza). La piacevolezza di cui parlo deriva quindi dalla razionalità dell’architettura narrativa e dalla possibilità di riconoscimento empatico del lettore con i personaggi. Molto più che la rozza, e sempre labile, alternativa tra tradizione e avanguardia, ciò che emerge con chiarezza dalla lettura di Piperno è allora una rinnovata fede nel personaggio – un “personaggio-uomo” di debenedettiana memoria – e nella sua capacità di disporre senso intorno a sé. I recenti saggi divaganti di Pubblici infortuni lo dimostrano chiaramente: ciò che a Piperno più sta a cuore è infrangere “il prisma smerigliato che divide la realtà dall’immaginazione”, ovvero mostrare come romanzo e mondo, come narrazione d’invenzione e vita vissuta si coimplichino irrimediabilmente: il romanzo non è semplicemente specchio della nostra esperienza del e nel mondo, ma è anche ciò che modella il nostro modo di percepire e abitare una “realtà” sempre fuggevole e complessa.
Affamati come siamo di dati stabili, di certezze cui ancorare la nostra esistenza; affamati di parole (e amori) cui credere “oggettivamente” (ciecamente), facciamo fatica ad accettarlo, ma la finzione può modificare la cosiddetta realtà tanto quanto questa può entrare in una storia inventata: nel romanzo (nella letteratura) ma anche – forse soprattutto – nella vita. In questo senso ogni romanzo, anche il più fantastico e apparentemente lontano dagli eventi “veri” del mondo, è profondamente e autenticamente “realistico”. È questo l’effetto mimetico più potente, davvero incendiario, che il romanzo è in grado di produrre: mostrare, e nella sua stessa struttura, il processo attraverso il quale ognuno di noi, ogni giorno, costruisce se stesso e il mondo come un cocktail – amarissimo, talvolta – in cui i diversi ingredienti di fatti, speranze, sensazioni e atti di fede sono imbrogliati l’uno nell’altro, e inseparabili.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).