La prima volta che ho considerato l’esistenza dei libri avevo due, forse due anni e mezzo. Ero a casa della Signorina Drago, maestra delle elementari dura e pura che continuava a usare ceci sotto le ginocchia e bacchettate, nonostante fossero prossimi gli anni Novanta. Stavo seduta a capotavola nella sua piccola cucina, nell’odore delle melanzane fritte.
“Leggi” mi diceva la Signorina Drago, i capelli grigi e gli occhi verdi. Poi indicava il libro aperto davanti a me. Allora io scuotevo la testa, balbettavo qualcosa come “non so leggere, sono troppo piccola”, ma lei non voleva sentire ragioni. I suoi erano ordini, e io dovevo soltanto eseguirli. Altrimenti sarebbero stati ceci sotto le ginocchia, bacchettate e schiaffi; già, gli schiaffi a casa della Signorina Drago non mancavano mai.
Questo è il mio primo vero ricordo dei libri. Un pomeriggio meridionale e primaverile. Il sole che si spalma nel cielo tiepido e su Via Cavallotti Felice, alle spalle di Corso Umberto, una manciata di metri dal cuore pulsante di Taranto, la città dove sono cresciuta e dove ho imparato ad amare le parole, le storie che ti portano altrove, i libri che sono sì sogni e universi, ma anche carta: carta su cui scrivere, carta su cui scarabocchiare, carta da frapporre fra se stessi e il mondo. Piccole città dove vivono piccole donne, torte che piovono dal cielo, lettere fra bambini che si innamorano, e ancora balene da inseguire, jungle da perlustrare, tappeti volanti sui quali entrare nelle notti d’oriente.
Per evitare gli schiaffi – e i ceci sotto le ginocchia, e naturalmente anche le bacchettate che arrivavano quando uno meno se lo aspettava, e producevano un dolore acutissimo ogni volta – avevo imparato a leggere benissimo.
La regola era semplice: ogni pagina andava letta, ad alta volte naturalmente, dieci volte. E se si sbagliava anche una sola volta, si ricominciava. Di nuovo per altre dieci volte. Per altre dieci volte ancora. Per altre dieci volte ancora.
Passavo i pomeriggi a leggere. Ed erano letture disperate, dense di ansia e di paura. Non fermarsi abbastanza a lungo su una virgola, esattamente come soffermarsi per qualche secondo in più, equivalevano a ricominciare. Ricominciare. Ricominciare.
La notte i miei sogni erano popolati da libri che mi inseguivano, e dentro cui il mio corpo bambino veniva inglobato: fra le pagine restavo schiacciata, dentro i pensieri degli altri, dentro i loro dolori. Le gioie, chissà perché, non le percepivo mai.
Se in mio fratello il medesimo trattamento della signorina Drago, a lui riservato da una donna molto più docile e anziana, aveva prodotto la ripugnanza più totale nei confronti dell’oggetto e del contenuto libro – ripugnanza condivisa in egual misura da mia madre, in me quegli interminabili pomeriggi infantili avevano generato una perversa e inspiegabile devozione.
I libri hanno costituito la parte centrale della mia infanzia e della mia adolescenza; le parole altrui si sono affastellate in me nelle letture forsennate che solo i disperati sanno orchestrare, e che sono gioco di prestigio: un saggio nella cartella da leggere a scuola e durante l’intervallo, un romanzo sul comodino, un classico in sala da pranzo per non perdere tempo, e dedicare tutti i minuti, tutti i minuti possibili, anche quelli fra il primo e il secondo, alle storie altrui. Precocemente ho anche cominciato a scrivere; ma questo era secondario. Perché la prima passione, il primo innamoramento, è stato quello provocato dalle parole degli altri.
Ed è stato questo sentimento di timore e di scoperta che ho provato quando ho parlato per la prima volta di Atlantide con Simone Caltabellota, ex direttore di Fazi e di Lain.
Erano anni che nella casa di Trastevere fantasticavamo insieme di una casa editrice fuori dalle mode e dal tempo. Di una casa editrice attenta solo a pubblicare libri belli, libri che ti parlano e ti raccontano di te, del mondo che a volte è così incomprensibile e misterioso, così bello e disperato. Erano anni che rimandavamo e promettevano e posticipavamo.
All’improvviso l’anno scorso, in quel caldo sorprendente che porta con sé la primavera romana, tutto ha preso i confini della scommessa: insieme a noi Francesco Pedicini, direttore di produzione dalla lunghissima esperienza, e lo scrittore Gianni Miraglia.
Ogni cosa è accaduta con straordinaria lentezza. Un incontro ha generato un appuntamento, a un aperitivo è seguita una cena, così per mesi; senza che ce ne rendessimo conto, si sono moltiplicati i momenti per stare insieme e discutere (momenti alcolici, che da astemia affrontavo con stoica resistenza). Sono arrivati i primi titoli che ci sarebbe piaciuto pubblicare, e poi la costituzione della società in un’assolata giornata milanese, gli incontri con i grafici e con i webmaster (sempre alcolici, naturalmente), e tutte quelle cose che fanno di un gruppo di amici una casa editrice.
Improvvisamente, è venuta alla luce Atlantide. Ed è nata dal desiderio di restituire la voce a testi che negli anni si sono persi. Dal desiderio di scoprine di nuovi. Dalla volontà di allontanarsi dal tritacarne editoriale cui tutti, anche se in modo diverso, avevamo preso parte.
Il motto è stato fin da subito quello di non cercare le vendite, ma la bellezza e la profondità. Non è un caso che abbiamo rifiutato i canali distributivi tradizionali, cominciando dalle librerie di catena e dai siti di vendita online, e abbiamo deciso di pubblicare i nostri libri su carte pregiate, stampando soltanto 999 esemplari numerati. 999 copie da vendere attraverso il nostro sito internet, e una rete di librai amici che possiamo vantarci di chiamare per nome.
Gli ultimi mesi sono stati un rincorrersi. Una casa editrice è fatta di piccole cose, di decisioni d’istinto e di programmazione. È fatta soprattutto di pensieri, di scelte di rotta, di incontri, di condivisione. Di riunioni giornaliere che si tengono quasi sempre su Skype, e che riescono a mettere insieme l’asse Milano-Lucca-Roma-Taranto. E sono l’incontro fra degli amici che amano i libri, che hanno deciso di scommettere su qualcosa che per la maggior parte delle persone è bellissimo, ma soprattutto folle. E forse sì, folli un po’ lo siamo, ma ogni volta che prendo in mano un libro di Atlantide, ogni volta che penso al prossimo testo che pubblicheremo, che faccio tardi per rileggere le bozze, provo quel sentimento lì, quello che mi avvolgeva da bambina nella cucina della Signorina Drago insieme all’odore delle melanzane fritte.
C’è la paura di sbagliare, certo, ma soprattutto il senso di scoperta e la bellezza. E ci sono i libri, con la loro carta ruvida e profumata, con le loro parole. Tutte cose che, da sole, valgono bene ogni rischio.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).