Che cosa significa, oggi, ripubblicare La principessa di Clèves? Che cosa comporta riproporre un testo così lontano, così “diverso”, per certi versi estraneo rispetto al nostro mondo di lettori del terzo millennio?
La principessa di Clèves, scritto tra il 1672 e il 1678, è a tutti gli effetti da considerarsi il primo vero classico della letteratura francese. Onnipresente nelle antologie degli studenti d’oltralpe, primo tra i testi letterari in programma nei licei e nelle università francesi, da sempre abita il cielo immutabile e perennemente luminoso che il canone riserva alle opere fondamentali, alle stelle fisse della letteratura di tutti i tempi.
Non a caso, durante la campagna presidenziale del 2006, l’allora ministro degli Interni Nicolas Sarkozy aveva maldestramente cercato un incremento di consensi proprio attraverso il romanzo di Mme de La Fayette, puntando l’indice contro la Princesse de Clèves, spauracchio – a suo dire – di tutti i concorsi da funzionario amministrativo del regno. Ha senso, erano state grosso modo le sue parole, far leggere il libro a un futuro impiegato statale? Cosa mai potranno dirci sulla vita di Mme de Clèves un usciere, una cassiera? Questa frase, all’epoca, era costata abbastanza cara al futuro presidente della Repubblica, scatenando un’immediata levata di scudi da parte di tutto il mondo della cultura francese e facendo impennare le vendite del romanzo.
Ma al di là della singola polemica, ormai persa tra le maglie della politica spicciola e delle strategie mediatiche del nostro tempo, la domanda di Sarkozy pone comunque un serio interrogativo su cui riflettere.
In che modo un classico può entrare in relazione con noi, e soprattutto con quale legittimità? Cosa c’entra La principessa di Clèves con la bigliettaia che la sera al cinema ci riserva un posto in quarta fila, o con l’impiegato che si occupa del nostro conto in banca?
Ogni testo letterario presuppone un incontro tra due culture. La cultura di arrivo, la nostra, e quella in cui questo stesso testo è nato, in cui è stato pensato, scritto. A volte mondi vicini, a volte lontanissimi. A volte strutture sociali estremamente simili, a volte neppure quasi paragonabili (come la nostra attuale democrazia occidentale e la corte di Luigi XIV in cui si muove e scrive Mme de La Fayette). In sintesi, ogni testo è per noi un estraneo, il portatore di una radicale differenza.
Del tutto priva di una sua immagine addomesticata perché non ancora disegnata secondo una rete di rimandi che la renda leggibile al nostro occhio contemporaneo, ogni epoca passata trascina infatti sempre con sé, nel momento della sua apparizione in un testo letterario, tutta l’evidente estraneità del proprio mondo rispetto al nostro. Come un naufrago sulla spiaggia, ogni secolo riemerso mostra sempre sul corpo le incrostazioni del mare che ha appena lasciato, immagini, segni linguistici per noi impensabili e che ne fanno un fascinosissimo mostro: un animale sconosciuto, Ulisse sporco di sale che appare improvvisamente di fronte a Nausicaa sulla spiaggia dei Feaci.
Il problema sta allora nel capire quanto di questa estraneità possa appartenerci, quanto riconoscere in questo Ulisse incrostato un essere umano, una creatura in grado di parlare il nostro stesso linguaggio e soprattutto di far risuonare in noi elementi che possano essere portatori di passione.
Pochi anni dopo l’uscita di Sarkozy, è stato girato in Francia un documentario intitolato Nous, Princesses de Clèves (Noi, principesse di Clèves). In un liceo “difficile” della periferia di Marsiglia, una classe dell’ultimo anno ha letto, imparato a memoria e recitato il romanzo di Mme de La Fayette. Il risultato, neppure a dirlo, è stato incantevole. Con il passare dei mesi, attraverso la lettura del testo, i ragazzi hanno iniziato a farsi loro stessi testo, intrecciando alla passione tra Mme de Clèves e il duca di Nemours le loro storie di diciassettenni alle prese con l’amore, il conformismo, la lealtà, il tradimento. Il romanzo è servito loro fondamentalmente da specchio, ma non solo. Le parti più belle del documentario di Régis Sauder riguardano tutte la lettura, la recitazione del testo. Vedere gli occhi di una studentessa marocchina o di uno studente del Gabon illuminarsi, vedere i loro gesti far- si più ampi, più eleganti mentre pronunciano: «La magnificenza e la galanteria non si sono mai manifestate in Francia con tanto splendore come negli ultimi anni del regno di Enrico II» rende subito evidente quanto l’incontro tra un’epoca e un’altra, tra Ulisse e Nausicaa sia anche e soprattutto un incontro tra due linguaggi. In questo caso, tra quello neutro e scolastico della periferia nord di Marsiglia e un idioma nuovo, sconosciuto, che richiede, per essere “detto”, altri gesti, altre posture, altri occhi, altri pensieri.
Ogni secolo possiede precise parole chiave che lo avvolgono e lo definiscono come vesti significanti. Il Sei-Settecento francese in particolar modo è un’epoca in cui il linguaggio è a tutti gli effetti un linguaggio-mondo. Bienséances, honnête homme, esprit, sociabilité, ma anche galanterie, magnificence sono tutti elementi linguistici che non rappresentano solo una sequenza di suoni in grado di far riferimento, per convenzione, a un preciso corrispettivo semantico, ma sono ter- mini che portano sulle loro spalle un intero “discorso”. Per tutto il Grand Siècle – e così anche per tutto il secolo successivo – il linguaggio sarà il primo strumento su cui formare la propria identità sociale. L’uomo del Seicento è essenzialmente fatto di parole. Le parole lo definiscono, lo attraversano, ne forgiano la struttura illuminandone il volto e mettendone allo stesso tempo a nudo le fragilità, le contraddizioni. A ben guardare, La principessa di Clèves non è altro che questo: la storia della costruzione di un’identità attraverso la parola. O meglio, la storia dello scontro, della lacerazione tra parole (tra parole-mondo) differenti e della loro impossibilità di convivere all’interno di un unico discorso.
Fin dalle prime pagine, appare chiaro come il romanzo sia strutturato intorno a una serie di termini nevralgici, snodi semantici impossibili da aggirare nell’immediata evidenza della loro forza comunicativa. Tra tutti forse il più importante è bienséances. Una prima traduzione frettolosa del termine potrebbe essere “buone maniere”. Le bienséances indicano un preciso modo di comportarsi, rappresentano la conformità alla regola, sono la manifestazione esteriore di un’educazione aristocratica che vede nell’osservanza stretta di una rigida etichetta l’espressione più alta del proprio prestigio sociale. Gli ultimi anni del regno di Enrico II (la narrazione dei fatti del romanzo si svolge nell’arco di poco più di un anno, dall’ottobre del 1558 con il negoziato di Cercamp, al novembre del 1559 con le nozze tra Elisabetta figlia del re di Francia e Filippo II di Spagna) sono regolati da un rigido cerimoniale di corte. Tornei, feste, incontri, cene, sono l’articolazione complessa di un preciso meccanismo a orologeria. Chi è aristocratico – nel romanzo mancano del tutto le altre classi sociali, dalla nascente borghesia cittadina alla povertà contadina delle campagne – non può sottrarsi al proprio compito, così come un perfetto ingranaggio deve produrre, con
la sua semplice presenza e i suoi giusti movimenti in relazione con gli altri elementi del sistema, il buon funzionamento della macchina. Chi vive a corte si trova perennemente immerso in una collettività di sguardi e di giudizi. Tutti vedono tutti. Tutti valutano il corretto operato (la completa padronanza delle bienséances) di tutti.
È del tutto semplice leggere in filigrana, dietro la minuziosa ricostruzione storica della corte dei Valois, la Versailles di Luigi XIV in cui si muove la stessa Mme de La Fayette. Fi- glia della piccola nobiltà di toga, amica intima di La Rochefoucauld e animatrice di uno dei salotti più importanti del tempo, Marie-Madeleine Pioche de La Vergne è un’impeccabile dama di corte. Sposata a un gentiluomo di campagna – il conte François de La Fayette – appartiene di fatto allo stesso universo della sua protagonista. Le modalità di comportamento che regolano la vita della principessa di Clèves sono esattamente le sue.
Le bienséances non sono però soltanto una regola formale, un insieme di precetti da imparare a memoria. Comportarsi secondo norma, in buona sostanza eseguire alla perfezione la propria “recita sociale”, è anche e soprattutto un esercizio di perfezionamento identitario. All’interno di un ideale armonico in cui superficie e profondità si trovano a coincidere, chi si muove bene in società è anche colui che possiede un perfetto equilibrio interiore. La corte – universo claustrofobico perennemente immerso in una rete di sguardi e giudizi – è di fatto il luogo deputato a sancire l’esistenza stessa del singolo soggetto. Essere a corte equivale a essere tout court. Avere un ruolo e saperlo gestire significa avere piena padronanza anche della propria esistenza. Ma di che genere di esistenza si tratta? Come vive un cortigiano sotto il regno di Enrico II? Un altro termine che da subito viene offerto al lettore è dissimulation, “dissimulazione”. Di fronte al voyeurismo onnidirezionale della corte, di fronte a un’ingerenza scopica senza pari, la dissimulazione programmatica, radicale, continua è l’unico mezzo di sopravvivenza. Tutti simulano a corte, da Caterina de’ Medici (i cui sentimenti, ci viene subito detto, non sono facili da indovinare) al visdomino di Chartres, dal duca di Nemours (che nasconde a tutti il suo amore verso Mme de Clèves) ai principi del sangue. Di fronte a una sovraesposizione continua ed estenuante sulla scena sociale, il cortigiano possiede come unico strumento di difesa il completo autocontrollo delle proprie pulsioni, la perfetta padronanza dei muscoli del viso, dei gesti, della voce, delle parole. Nascondere, celare, fingere sono l’unico mezzo per garantire una qualche autonomia di fronte a un organismo perennemente declinato al plurale. Chi finge, è “solo” all’interno di un “tutti”. Chi mente, è una pedina libera all’interno di una partita a mosse obbligate.
In questo universo strutturato secondo una perenne dualità tra singolo e gruppo, tra dissimulazione e adeguamento, arriva nel fiore dei suoi sedici anni Mlle de Chartres, futura sposa del principe di Clèves. Educata dalla madre, tenuta lontana dalla corte per tutto il periodo della sua infanzia e della prima giovinezza, si manifesta fin da subito come qualcosa di incongruo, di fondamentalmente mai visto. Mlle de Chartres è portatrice di una parola sconosciuta, neppure contemplabile all’interno della struttura di potere della società aristocratica cinquecentesca. La sua parola, il termine-mondo che porta in dote è infatti vérité, “verità”. La principessa di Clèves, per tutto il romanzo, non sarà mai capace di nascondere i moti del suo animo. A differenza degli altri cortigiani, dell’intera compagine di figuranti che Mme de La Fayette mette in scena, lei è l’unica a non contrapporre mai al labirinto di occhi della corte la soggettività della menzogna. In lei tutto “appare”, tutto viene sempre e immediatamente mostrato sulla superficie levigata del volto (a più riprese nel romanzo i suoi sentimenti verranno rivelati dal rossore delle gote o dal gesto involontario dell’abbassare lo sguardo) così come sulla superficie articolata del linguaggio. Esattamente come un’altra eroina della narrativa francese vittima di un amore adulterino e infelice – la settecentesca presidentessa di Tourvel delle Relazioni pericolose, per certi versi molto simile al personaggio di Mme de La Fayette – per lei la parola corrisponde sempre alla rivelazione di una naturalità senza mediazione. All’interno di un mondo costruito sull’uso costante del linguaggio e della seduzione come armi strategiche (in questo, universo libertino e corte dei Valois sembrano del tutto equivalenti), entrambe si offrono come elementi di discontinuità, interrompono il gioco e ne capovolgono le regole.
Si è molto discusso in sede critica del perché Mme de Clèves abbia avuto il bisogno di dire al marito del suo amore per il duca di Nemours, dal momento che il tradimento non era stato né sarebbe stato mai consumato. La scena dell’aveu, della confessione, è stata interpretata ora come gioco crudele, ora come semplice ingenuità. Perché infatti raccontare un crimine non commesso? Perché farsi carico gratuitamente dello scioglimento tragico di un romanzo e di un matrimonio? La risposta è semplice. Perché per Mme de Clèves non esiste altra scelta. Perché colei che porta il blasone di verità non può non confessare, non può nascondere quanto ha di più importante nel cuore. Il vero scandalo della principessa non è il suo amore adulterino per il duca di Nemours – amore che di per sé non avrebbe nulla di socialmente condannabile, dal momento che tutti a corte, compresi il re e la regina, tradiscono e vengono traditi – ma il suo continuo e radicale opporsi alle pratiche discorsive che tengono in vita quel preciso sistema sociale. Mme de Clèves è un unicum, non è paragonabile a nessun’altra donna, è un esempio evidente di virtù, ma nello stesso tempo è il granello di sabbia che, se opportunamente infiltrato attraverso gli ingranaggi, può arrivare a scardinare l’intero sistema. In un mondo in cui la macchina sociale per funzionare ha bisogno di una perpetua oscillazione tra due poli opposti, tra l’adeguamento alle norme stabilite dal gruppo e una soggettività difesa e articolata attraverso la finzione, lei oppone la fissità di una parola indubitabile, immobile. Di fronte a questa parola non esiste più oscillazione, perché la verità non richiede nessun tipo di adattamento sociale e nessuna difesa. La verità semplicemente è. È per questo che alla fine Mme de Clèves non potrà che uscire di scena, allontanandosi dalla corte (dall’esistenza stessa) e conducendo vita ritirata. Vivrà, come racconta Mme de La Fayette nella frase conclusiva del testo, in «occupazioni più sante di quelle praticate nei conventi più austeri», lasciando esempi di virtù inimitabile. Inimitabile, ovvero impossibile da imitarsi. Ancora una volta unica. Ancora una volta, sola.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).