Il 12 marzo 1912 fu ritrovato nelle acque del fiume Sambre, a Châtelet, il corpo nudo e senza vita di Adeline Isabelle Régine Bertinchamps, con la testa avvolta nella camicia da notte. La donna, una modista di 42 anni, soffriva di depressione, come dichiarò il marito Leopold Magritte alla gendarmeria belga, e per questo, perché la vita le era divenuta insopportabile, aveva messo fine ai suoi giorni annegandosi nel fiume. Suo figlio René, il futuro pittore surrealista all’epoca quattordicenne, assistette alla scena del ritrovamento e quell’immagine del corpo materno nudo e scomposto, con il volto coperto, lo avrebbe ossessionato per tutta la vita, ritornando in alcuni suoi quadri. Uno dei più famosi è Gli amanti, che esiste in due versioni, entrambe realizzate nel 1928: nella prima i due volti, coperti da un lenzuolo bianco, guardano verso lo spettatore, quasi in posa per una foto ricordo, con alle spalle un paesaggio boschivo e un cupo cielo nuvoloso; nella seconda, invece, si baciano, inquadrati di profilo da un muro laterale e il soffitto, l’intero sfondo occupato dallo stesso cielo nuvoloso dell’altro quadro. Anche qui, i loro volti sono interamente velati da un lenzuolo, rendendo il bacio, di fatto, impossibile, se non come evocazione o come figura retorica. Che cosa voleva rappresentare Magritte con questa immagine? Il fallimento a cui è votato l’amore? L’impossibilità dell’incontro, della fusione platonica? Oppure quei volti coperti richiamano semplicemente il trauma del suicidio materno? Quest’ultima ipotesi getterebbe un’ombra angosciosa sul quadro, indubbiamente, come se dietro quel bacio negato si nascondesse, in realtà, la grande Assente.
Sia quel che sia, a me questo bacio surrealista è sempre piaciuto, anche se non sono sicuro di saperne il motivo. Forse perché cancella le identità, annulla i volti, azzera i nomi. Forse perché questo quadro è l’unica riproduzione possibile dell’amore: due volti coperti che si baciano, puro groviglio di desiderio, un reciproco cieco affidarsi. In fondo, parla il linguaggio dei sogni, che ha codici totalmente diversi da quelli diurni. E dunque nel sogno è più giusto, più plausibile, perfino più comprensibile, che ci si ami col volto coperto. È un po’ quello che succede al giovane Hans Castorp, il protagonista della Montagna incantata – il romanzo che Thomas Mann pubblicò nel 1924, appena quattro anni prima dei quadri di Magritte – quando sceglie di usare una lingua straniera, il francese, per rendere la sua bruciante dichiarazione d’amore a Clawdia Chauchat, la bella russa dai tratti mongolici di cui si è subito innamorato, in un febbrile – nel vero senso della parola – coup de foudre, appena giunto al sanatorio di Davos per far visita al cugino, ma dove sarà costretto a restare a lungo, scoprendosi anche lui ammalato di tisi.
L’amore di Hans per madame Chauchat, almeno fino a metà romanzo, prima della scena con il dialogo in francese, è di quelli che da adolescente preferivo su tutti, sia nei libri che nei film: inespresso, fatto soprattutto di sguardi, e silenzi, e soprattutto non consumato. Al momento del bacio tra gli innamorati, infatti, subito il mio interesse per la storia d’amore si dileguava, come se tutta la tensione dell’attrazione fisica evaporasse al primo contatto (forse per questo mi è sempre piaciuto il bacio negato degli Amanti di Magritte). Perciò quando lessi per la prima volta il romanzo di Thomas Mann, da ragazzo, non mi pareva vero di trovarmi di fronte a una storia d’amore che prometteva di restare incompiuta. La mia attenzione era tutta concentrata su quella incessante, laboriosa strategia della seduzione avviatasi tra i due, fatta di gesti, immagini, suoni (come l’indimenticabile leitmotiv della porta della sala ristorante nel sanatorio, che sbatte ogni volta preannunciando l’ingresso della donna). Certo, c’erano l’umanista liberale Settembrini e il reazionario radicale Naphta con le loro dispute filosofiche, c’erano le riflessioni sul tempo, e tanto altro, ma per me La montagna incantata, prima ancora che un grande affresco sull’Europa in procinto di sparire con la prima guerra mondiale era, e resta, soprattutto un grande romanzo sull’amore, o meglio, sulla malattia dell’amore.
Nata come un semplice «pendant grottesco» alla Morte a Venezia durante l’estate del 1913, La montagna incantata all’inizio viene concepita da Mann come una breve novella di argomento politico-pedagogico: l’idea nacque da un soggiorno che lo scrittore tedesco ebbe nel sanatorio di Davos per un mese circa, l’anno prima, in visita alla moglie Katia, ricoveratasi per una sospetta tubercolosi. Ma allo scoppio della guerra mondiale Mann abbandonò il «racconto» che aveva cominciato e ne sospenderà la stesura per quattro anni, senza però mai rinunciare del tutto al progetto. Tuttavia, nel suo carteggio è solo a partire dal marzo 1917 che inizia a far riferimento alla sua opera interrotta come a un «romanzo», e non più un «racconto». Che cosa è successo nel frattempo? Cosa ha determinato questo sviluppo imprevisto che ha trasformato la novella nel romanzo dalle considerevoli dimensioni che conosciamo? È semplicemente sopraggiunta nella mente di Mann l’idea del personaggio femminile e del tema erotico da inserire nella trama pedagogica. Quando compare nei suoi diari per la prima volta il nome di Clawdia Chauchat (o meglio di Klawdia, come inizialmente scrive Mann) ecco che la concezione stessa del libro muta: la struttura della narrazione si complica, la trama si sdoppia. Affinché l’incantamento amoroso trovi il suo lento e inesorabile sviluppo, Mann ha adesso bisogno di tempo, cioè ha bisogno di raccontare il tempo in cui l’innamoramento si dispiega. Quello stesso tempo che si dissolve nel momento in cui Hans Castorp scopre sul suo corpo i sintomi dell’amore, che coincidono fatalmente con quelli della tubercolosi. Noi lettori siamo costretti così a innamorarci insieme a lui, ad ammalarci con lui, a dimenticarci con lui del tempo che passa. È come se solo con lo sviluppo del tema erotico il racconto – per quattro anni interrotto – riprendesse davvero vita e chiedesse di continuare ad essere raccontato, ampliandosi, esondando, assumendo una forma completamente diversa. Una trasfigurazione che nasce da un semplice nome, e da tutto ciò che questo nome, in termini di motore narrativo, è capace di evocare.
E dunque, nell’ultima notte di Carnevale, quando il sovvertimento dei ruoli è lecito, seppur momentaneamente, indossando una maschera, durante una festa organizzata dai pazienti del sanatorio – ci troviamo alla fine del quinto capitolo – Hans, rivolge per la prima volta la parola a madame Chauchat, dopo sette mesi di soli sguardi. E sarà questo il dialogo che prelude all’unico momento di passione del giovanotto con la bella e sinuosa slava, dopo il quale, sorprendentemente, Castorp tornerà ad assumere il suo atteggiamento rinunciatario, come se niente fosse accaduto tra di loro.
«Devi sapere che per me è come un sogno – le dice – stare seduto qui insieme a te… comme un rêve singulièrement profond, car il faut dormir très profondément pour rêver comme cela».
Con uno scarto geniale, Mann ha cominciato a far parlare Hans non nella sua lingua, il tedesco, ma in francese, come se il personaggio per addentrarsi nei pericolosi territori dell’eros avesse bisogno di un lasciapassare che lo liberasse da qualsiasi remora, e gli procurasse la necessaria, audace libertà. E tutta la conversazione tra i due avviene in questa lingua straniera, in una zona franca, per così dire, dando all’intera scena un tono effettivamente onirico. Non sorprende dunque che Hans Castorp confessi di avere l’impressione di sognare. Per Hans, infatti, parlare in francese è come «parlare senza parlare», senza responsabilità, o, per l’appunto, «come parliamo in sogno». Ed è in questo sogno «particolarmente profondo» che finalmente riesce a dichiarare il suo amore, dapprima in maniera spontanea e passionale – «ti amo, ti ho amata sempre, perché sei il “tu” della mia vita, il mio sogno, la mia sorte, la mia voglia, il mio eterno desiderio» – e poi, sempre in francese, la lingua del sogno, dopo aver celebrato «i luoghi deliziosi del corpo umano» e la festa immensa delle carezze, lanciandosi nella più originale e fisica e ricercata dichiarazione mai pronunciata: «Sì, mio Dio, lasciami sentire l’odore della pelle della tua rotula, sotto la quale l’ingegnosa capsula articolare secerne il suo olio scivoloso. Lasciami toccare devotamente con la bocca l’arteria femorale che batte sul davanti della tua coscia e che si divide, più in basso, nelle due arterie della tibia! Lasciami respirare l’esalazione dei tuoi pori ed esplorare la tua peluria, immagine umana d’acqua e albumina, destinata all’anatomia della tomba, e lasciami morire, con le mie labbra sulle tue».
Hans Castorp non avrebbe mai potuto dire queste frasi nella sua lingua. Ha avuto bisogno di un velo, come il lenzuolo che copre i volti degli amanti di Magritte. Perché per essere liberi di amare davvero abbiamo sempre bisogno di nasconderci dietro qualcosa, che sia un velo, una maschera, una lingua straniera. Ma soprattutto perché, come dice madame Chauchat a un certo punto del suo onirico dialogo in francese con Hans Castorp, tra i lustrini e le maschere del Carnevale, «è più morale perdersi e perfino lasciarsi distruggere, che conservarsi».
Mi sono domandato spesso se un romanzo come La montagna incantata possa ancora dire qualcosa a un lettore di oggi. Il suo umanesimo, e perfino la sua ironia, sembrano appartenere in effetti a un mondo, a un universo definitivamente scomparso. E per quanto mi sia potuto identificare totalmente da giovane in quella strepitosa disponibilità pedagogica ed erotica di Hans Castorp, per quanto senta di appartenere profondamente, ancora oggi, come uomo, come studioso e come lettore, a quel mondo, mi ritrovo a constatarne, giorno dopo giorno, la siderale distanza, la totale estraneità, la radicale inappartenenza all’orizzonte ricettivo del nostro tempo presente. Che cosa potrebbe pensare un adolescente di oggi, ad esempio, un mio giovane studente, di un libro come questo? Che tipo di dialogo si innescherebbe tra lettore e opera? Sono portato a pensare che non ci sarebbe alcuno spazio per un incontro. Li scopro, questi nostri ragazzi, ogni anno più indifferenti alla bellezza della poesia e della letteratura, più refrattari all’impegno, più anestetizzati da un nulla catatonico che li circonda. I libri sono diventati, per la maggior parte di loro, degli oggetti incomprensibili, se non completamente muti. Alla loro età io scoprivo Shakespeare e mi si spalancava un universo infinitamente più ricco della vita che vivevo quotidianamente. Non vedevo l’ora di rifugiarmi nelle pagine di Stendhal, di Dickens, di Kafka, di Joyce, di Leopardi. Passavo giornate intere a leggere Proust con quella voracità e quel senso di vertigine che solo a sedici anni ti può dare la lettura. Ero assettato di sapere, pronto a lasciarmi plasmare dai libri e dalle persone, pronto a innamorarmi di tutto e di tutti. Ero esattamente come il giovane Hans Castorp. E allora, come impedire il naufragio di quel mondo? Come fermare la deriva e non rassegnarsi a considerare definitivamente tramontata un’idea di cultura su cui ci siamo formati e che ci ha reso alla fine quello che siamo? Non ho risposte a queste domande. So solo che ogni anno rinuncio a trasmettere ai miei studenti qualcosa di più delle mie passioni, e dunque di me stesso. Solo quindici anni fa potevo fare lezione con una canzone di Jacques Brel o un blues di Billie Holiday, leggevo ogni mattina passi dei miei autori preferiti, e a volte perfino interi libri, suscitando incoraggianti entusiasmi, spiegavo il Don Giovanni di Mozart e il melodramma catturando la loro attenzione, proiettavo un film di Charlie Chaplin facendoli divertire e commuovere. Oggi tutto ciò è diventato improponibile, irricevibile. Forse sono io che sto invecchiando o forse sono loro che stanno andando in una direzione troppo diversa dalla mia. E dunque rinuncio. Come rinuncio a quasi tutta la poesia che amo. È una progressiva, inesorabile sottrazione pedagogica, che porta il mio lavoro a separarmi sempre più da me stesso e dalla mia coscienza più viva. E allora ripenso a La montagna incantata. Certo, abbiamo messo noi in soffitta Mann molto prima che tutto ciò avvenisse e fosse inesorabile. La responsabilità di certi avvenimenti è anche nostra. Ma davvero siamo sicuri di potercelo permettere, oggi più che mai? Davvero pensiamo che un romanzo inattuale come questo possa non dirci più nulla? Forse per tentare una possibile risposta dobbiamo tornare ancora una volta al quadro di Magritte. Cos’hanno in comune, infatti, gli amanti che si baciano con il volto coperto dal lenzuolo, con gli amanti del romanzo di Mann, che riescono ad abbandonarsi alla passione solo usando una lingua straniera? Se il lenzuolo magrittiano evoca un’Assenza, come si è detto, se rappresenta, cioè, il feticcio che nasconde il Grande Vuoto, anche in Castorp agisce una forza inconscia, che si libera solo in quella scena del Carnevale. Il ragazzo, che è orfano dall’età di sette anni, ha infatti vissuto durante l’adolescenza un’attrazione omosessuale per un suo compagno di classe slavo, Przibislaw Hippe, che adesso rivive nei tratti chirghisi e negli sguardi di madame Chauchat. In entrambi casi ci troviamo di fronte a un desiderio triangolare, a un desiderio cioè che evoca un terzo soggetto, per quanto assente, e dunque a una pulsione interdetta, rimossa, che può essere vissuta solo liberando la forza disgregatrice di Eros: in Magritte l’Edipo, in Mann l’omosessualità. Si può amare, sembrano volerci dire quel quadro e quel romanzo, solo se si è disposti a rinunciare a se stessi, e dunque se si è disposti anche a incarnare quell’Assenza, a identificarsi in essa fino alla dissoluzione. Ma come accettare di perdersi, di violare l’ordine simbolico, senza cedere per questo alla potenza terrifica di Thanatos? Come trasformare, cioè, il lenzuolo funebre in un atto d’amore salvifico?
Mann fu a lungo indeciso, come testimoniano i suoi diari, se inserire la scena tra Hans e Clawdia Chauchat, e la loro successiva unione, proprio in quel punto, o spostarla più tardi, o addirittura non farla avvenire mai. Trovo che sia molto significativa questa esitazione. Certo, avrebbe fatto felice il lettore che ero stato da adolescente, curiosamente inibito alle scene d’amore esplicite e propenso a prolungare invece all’infinito i corteggiamenti e gli spasimi d’amore non corrisposti. Ma avrebbe, allo stesso tempo, lasciato emergere in maniera inequivocabile, e forse inaccettabile, l’impossibilità dell’amore realizzato, l’illusione erotica dell’unione dei corpi, e di conseguenza, la necessità di un racconto infinito, come l’infinita spola di una Penelope in eterna attesa, che fa e disfa la tela, emblema di una sublimazione eterna. E allora, alla fine della Montagna incantata, Mann, congedandosi dal suo protagonista che parte per il fronte con poche possibilità di sopravvivere alla immane carneficina della Grande Guerra, accenna a quel «sogno d’amore» che il giovane ha materializzato una volta attraverso una serie di visioni, quando durante il suo soggiorno a Davos si era perso in una tormenta di neve durante una sciata solitaria, rischiando la vita (e sono, queste, le pagine più alte dell’intero romanzo). Un sogno d’amore che lo ha salvato dalla seduzione della morte; quello stesso sogno d’amore che forse potrà salvare in futuro anche l’umanità intera dalla follia della guerra. Che cosa voleva intendere Mann? È qui, credo, che dovremmo cercare l’attualità del romanzo, la sua riscoperta, la sua necessità, la sua possibilità di rivitalizzare il nostro presente così inerte. Nella risposta che dovremmo provare a darci oggi, ciascuno di noi, rileggendo questo straordinario romanzo – di certo il più grande della letteratura tedesca del Novecento – cercando di capire allo stesso tempo quale sia il nostro «sogno d’amore», quali i fantasmi da evocare, il nostro daimon, l’illusione erotica, e come governare questa forza sotterranea, e se, governandola, essa stessa possa permetterci di farci migliori, più consapevoli, più liberi, senza però concedere alla morte il dominio sui nostri pensieri.
L’edizione di riferimento del romanzo di Thomas Mann per la stesura di questo saggio è: T. Mann, La montagna magica, a cura e con introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2010. Da qui sono state tratte le notizie e i riferimenti alla gestazione del romanzo, nonché le parti citate del dialogo originariamente in tedesco, mentre le parti in francese sono state tradotte da me.