Leggere La festa dell’insignificanza si è rivelata una pura casualità. Non è stata una lettura premeditata, né appartiene a quella categoria di romanzi che hanno occupato gli scaffali della mia libreria per un tempo indefinito, in attesa del loro momento. Qualsiasi “lettore forte” si riconoscerà in ciò che ho appena scritto: mi riferisco a quella necessità, talvolta compulsiva, di accumulare libri su libri, quasi si avesse il timore di rimanerne all’improvviso sprovvisti o di perdere per strada il romanzo adocchiato, in quel particolare frangente. Mi sono imbattuta in questa lettura al Salone Internazionale del Libro di Torino e dopo averla scovata in un angolo allo stand di Libraccio non potevo di certo contravvenire a ciò che la mia natura di lettrice seriale mi impone: acquistare ed iniziare subito a leggere questo romanzo.
Avevo conosciuto e amato Kundera qualche anno prima, quando mi sono avvicinata alla sua opera più celebre, L’insostenibile leggerezza dell’essere. Era quindi inevitabile che fossi incuriosita da un altro libro di quest’autore, rivelatosi uno dei meno noti tra le sue opere, nonché la produzione più recente pubblicata nel 2013.
Non bisogna lasciarsi ingannare dall’aspetto snello de La festa dell’insignificanza: il suo essere minuto non è garanzia di scorrevolezza di contenuto, tutt’altro; leggerlo tutto d’un fiato non è a mio parere possibile. Kundera non crea una trama lineare, ma alterna in queste 128 pagine personaggi e stralci di vita in apparenza sconnessi tra di loro; per questa ragione, la dichiarazione d’intenti dell’autore non risulta di immediata comprensione. La chiave di lettura che funge da comune denominatore a questi aneddoti, si rivela quindi essere proprio il valore dell’insignificanza, in riferimento alla vita, al destino dell’uomo, alla morte, alla felicità, al dolore.
Kundera, in certi passaggi, è chiaramente lo scrittore de L’insostenibile leggerezza dell’essere: onnisciente, seducente, caustico. Tuttavia, se in questo primo romanzo viene creata una trama più lineare non si può asserire lo stesso per il secondo, la cui struttura risulta essere più contorta, al punto che definirei la lettura di questo libro in alcuni tratti faticosa. Bisogna fare uno sforzo di comprensione, ma quando alla fine si trova il bandolo della matassa si viene pervasi dalla bellezza di quest’opera e dalla genialità del messaggio dell’autore.
Kundera con irriverenza e coraggio crea diversi personaggi, di cui racconta brevi frammenti di vita. C’è, ad esempio, D’Ardelo che durante una chiacchierata con Ramon nei giardini del Lussemburgo, inventa di essere affetto da un cancro in fase terminale e ride di questa sua assurda trovata, di cui non comprende i motivi che l’hanno indotto a concepirla.
Il personaggio di Ramon, a sua volta, viene fatto portavoce di uno dei passaggi che più mi hanno colpito di questo romanzo, sulla libertà che l’insignificanza regala:
«Quando un tipo brillante cerca di sedurre una donna, questa ha l’impressione di entrare in competizione. Anche lei si sente in dovere di brillare (…). Mentre l’insignificanza la libera. La affranca dalle precauzioni. Non esige alcuna presenza di spirito. La rende spensierata (…).»
Compaiono poi due noti personaggi di spessore, Stalin e Chrushev, svuotati del timore reverenziale che la storia attribuisce loro e resi protagonisti di aneddoti al limite dell’ilarità. La linea di pensiero di Kundera non è poi tanto diversa da quella de L’insostenibile leggerezza dell’essere: l’autore vuole far luce sulla necessità per l’uomo di saper ridere di se stesso e delle sue fragilità.
«Da tempo abbiamo capito che non era più possibile rivoluzionare questo mondo, né riorganizzarlo, né fermare la sua sciagurata corsa in avanti. Non c’era che un solo modo per resistere: non prenderlo sul serio.»
Nella maggior parte dei libri che leggo, cerco risposte o nuove domande che mettano in discussione le mie certezze. Kundera è uno scrittore che, attraverso ossimori e dicotomie, riesce magistralmente in questo: mettere in evidenza aspetti in apparenza marginali dell’esistenza, offrire un punto di vista alternativo e sviscerare contraddizioni.
Per questa ragione, nonostante lo abbia terminato, non ho ancora smesso di leggere La festa dell’insignificanza: lo riprendo tra le mani, lo risfoglio, sottolineo nuovi passaggi. È uno di quei romanzi che durano per sempre, laddove molti libri finiscono con l’ultima pagina.
Natalina Morabito è una bookblogger e bookstagrammer. Gestisce il blog Il segnalibro giratempo. Su Instagram la trovate come recensionilampo.