Zn + C + Ir + Cu +S → Zn CIrCuS
(zinco, carbonio, iridio, rame, zolfo)
La correlazione quantistica del mondo che siamo
«Giocare con le parole come faceva A. da scolaretto, dunque, non era tanto una ricerca della verità quanto una ricerca del mondo come si manifesta nella lingua. Una lingua non è verità: è il nostro modo di esistere nel mondo. Giocare con le parole significa semplicemente esaminare i meccanismi della mente, rispecchiare una particella del mondo così come la mente la percepisce. Analogamente, il mondo non è solo una somma delle cose che contiene. È la rete infinitamente complessa dei rapporti che le collegano. Come per i significati delle parole, le cose acquistano un senso solo mettendosi in relazione reciproca»
Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi, 2005
«Dai, che quando torni andiamo a camminare…», mi dice sempre mia madre quando è tanto tempo che non ci vediamo. Lo dice come se questa cosa potesse invogliarmi a tornare, come se fosse un mio desiderio che vuole esaudire, come se quelle sparute volte in cui lo abbiamo fatto davvero facessero punteggio dentro a una statistica che computa qualcosa che è importante per tutti. «Sì, certo», le rispondo io, anche se so che quando supero il cancello della casa in cui sono cresciuta il tempo e lo spazio si deformano e rimettermi le scarpe è praticamente impossibile.
Camminare, per mia madre, vuol dire una cosa specifica, non è andare a farci una passeggiata, è andare a fare «il giro dell’isola» – benché, quasi inutile dirlo, lei non viva affatto su un’isola. L’isola è una serie di campi coltivati e non coltivati, case, un piccolo stadio, una zona artigianale, una discesa, qualche salita e un sacco di alberi di cui non sappiamo il nome, tutto chiuso da un anello di asfalto, una specie di nastro di Möbius cittadino, una corona circolare sghemba che sembra un’arteria coronarica che trasporta auto, cani, ossigeno, ginocchia, particelle microscopiche, vite, aspettative, altre città, mancanze, realtà accese e spente, riverberi di qualcosa che è andato a finire dietro le colline, litigi, sensi da cogliere, connessioni e sudore.
Riuscire, ogni volta, a mancare quella promessa dà l’illusione di potersi allontanare facilmente dalle strane regole probabilistiche che gestiscono l’universo, ma non funziona così perché sotto a ognuna delle nostre isole c’è un meccanismo a lunga distanza, un entanglement quantistico, un intreccio di lacci e correlazioni che ci lega a tutto quello che abbiamo incontrato, che incontriamo e che incontreremo.
Il fuoco in una stanza, ultimo lavoro degli Zen Circus, racconta questo: sveste i panni di un semplice disco per diventare una ruota dentata che aggancia pacchetti di mondo e li mostra nella loro natura quotidiana, di banale e peculiare incandescenza. Tredici canzoni che segnano un’antologia di rapporti, dolori, sensazioni e sguardi tra il cuore, la rabbia, il tempo, forse tu, niente più.
Non sarà il terrore, non sarà l’amore o la serenità: lo zinco
[Simbolo dell’elemento: Zn / Numero atomico: 30 / Serie: metalli di transizione]
Ci sono vent’anni e più di musica a precedere questo disco. C’è l’inglese, il francese, lo slavo, perfino un simil spagnolo, a un certo punto. Ci sono contaminazioni, collaborazioni, condivisioni. I Perturbazione, Nada, i Ministri, Dente, Andrea Picchetti, Brian Ritchie, Giorgio Canali, Marcello Bruzzi (Teschio), Jerry Harrison, Enrico Gabrielli, Davide Toffolo, Emiliano Valente (Fufù), Tommaso Novi, Kim e Kelley Deal, Francesco Motta, Alessandro Fiori, il Pan del Diavolo – solo per dirne alcuni.
All’inizio di un saggio del 1976 che non ho mai finito di leggere, Elogio della fuga, Henri Laborit scrive: «Viviamo per mantenere la struttura biologica, siamo programmati, fin dalla fecondazione dell’ovulo, a questo fine, la ragion d’essere di ogni struttura vivente è essere». Mi fa pensare a questo il Circo Zen, a una struttura che negli anni ha mantenuto la sua ragion d’essere, esistendo e resistendo come se fosse stata galvanizzata dallo zinco per non corrodersi. Lasciarsi ossidare dal presente per creare una barriera contro la disgregazione, ricordandosi sempre che la differenza sta tutta fra il mondo che subiamo e quello che immaginiamo.
Gli altri siamo noi, gli altri siamo tutti: il carbonio
[Simbolo dell’elemento: C / Numero atomico: 6 / Serie: non metalli]
Per arrivare a mettere (a) fuoco, a concentrare la luce dell’immagine in un punto talmente specifico da poter far partire una fiamma, gli Zen Circus, nel corso del tempo, hanno seguito un processo di osservazione della realtà che non ha fatto altro che stringersi e allargarsi: i dischi si sono mossi come la ghiera di un obiettivo fotografico, cercando il generale nel particolare, il microscopico nell’universale, la ciclicità nella stasi, lo spazio nel tempo e uno sputo di verità dovunque fosse possibile. Le parole si sono ammucchiate con una promiscuità simile a quella di cui viene accusato il carbonio, che condivide elettroni, forma catene lunghissime e reticoli di legami, innesca reazioni chimiche, genera composti, si trova, insomma, ad avere a che fare con tutto – dall’atmosfera alla terra, dalle piante al cielo, dalle punte delle matite fino ai diamanti.
Tu vorresti capire, ma nessuno te lo vuole spiegare. Milioni di chilometri di spazio fra i sistemi. Giovani si nasce, non ci si diventa. Il futuro me lo bevo per non pensarci. Folk Punk Rockers. Gli stessi occhi che urleranno per vederci. Io non so la differenza fra la croce e il perdono. Fischiano le orecchie, ho voglia di scopare. Quanto spirito ci vuole per dar fuoco alla città? Avevo amici daltonici, precoci, già tristi, allegramente fatalisti. Senza età né limiti di forma. Aperitivo e pere, ribere e vomitare. Di una donna in silenzio e uomini confusi. Le poches sont vides, les gents sont fous. Eccola la mia città, la gente ormai non sa. Le paure non han fissa dimora. E fra un’MS e l’altra se n’è andata la mia infanzia. Narodna pjesma. È una morale per me, un’amorale. Costretti dentro a un corpo che ci muore addosso. Col disincanto ci marci un po’. Tua nonna come sempre ti regalerà dei guanti. E se il domani venisse a prenderci tutti. Non voglio ballare, voglio farmi male. Gente in ogni dove ma siamo tutti soli. Sailing Song. A voi che vi piace di farvi fregare. Così tante botte che non serve il ghiaccio. Per capire chi è il nemico, devo vederlo dritto in viso. Tu verrai a bere il tuo tempo. Nemmeno un panino triste o una birra a metà. Perdenti per sempre, perfetti per oggi. Due passi da gigante, una giravolta col casqué. Il tempo non si ferma, non si è mai fermato. Dov’è che li hanno seppelliti quelli cattivi? La vita è un’avventura ma non esiste cura.
I guanti son congelati e sento l’odore del fuoco: l’iridio
[Simbolo dell’elemento: Ir / Numero atomico: 77 / Serie: metalli di transizione]
«Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ti ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri
Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me»
Scrive così Michele Mari in Cento poesie d’amore a Ladyhawke e scrivono cosi gli Zen Circus in più o meno tutti gli angoli di questo disco. Quando lo ascolti, succede una cosa incredibile: succede che tutte quelle stanze, tutte quelle finestre, tutti i padri, le madri, i figli, l’adolescenza, il presente, le incomprensioni, il dolore, le bugie, la morte, il desiderio, gli amici e le catene ti spingono a entrare in una stanza, la tua, quella che lasci sempre vuota, l’isola in cui dici di volerti inoltrare ma il massimo che riesci a fare è andarci (molto raramente) a camminare intorno. Entri e ti muovi piano, guardi le pareti, poggi i fiori per terra, analizzi il vuoto, gli strati, i sedimenti calcarei che il tempo e il mondo ci hanno impresso dentro e poi lo vedi. C’è un’enorme quantità di iridio, in quella stanza, e siccome l’iridio è siderofilo, vuol dire che o sei al centro della Terra oppure quella stanza l’ha scavata un meteorite, con un bombardamento di fuoco dal cielo. È fatta apposta per i tuoi mostri, è larga abbastanza per abitarla e computa qualcosa che è importante per davvero. Tu non ti preoccupare, respira e ripeti: sono umano.
È digerire le emozioni e così sia: il rame
[Simbolo degli elementi: Cu / Numero atomico: 29 / Serie: metalli di transizione]
Forse, se fossimo uniti gli uni con gli altri con dei fili di rame sarebbe tutto più facile, avremmo una migliore omeostasi emotiva, riusciremmo a condurre facilmente il calore e l’elettricità, combatteremmo contro la peronospora fino a batterla e riusciremmo a creare leghe che resistono nel tempo. O forse, molto più probabilmente, finiremmo comunque per intossicarci, ferirci e iniziare a bruciare.
Dentro ai tuoi occhi o dentro la fine. Colpa del vino, la droga, i libri e cose così. Forse anche Nerone odiava l’inverno. I Vanzina, gli ’80, i culi, i rutti. Più lo faccio, più tu mi sprofondi dentro. Se non è l’alba allora sta esplodendo tutto. Mi lascio cadere all’indietro, capelli in bocca e labbra gonfie. Voi come fate, davvero, a scegliere un solo amore. Accendo i pensieri al contrario così per rovesciare il mondo. Se l’amore non so darlo, se non ne so parlare. Tu continua pure a cercarti nella borsa per ritrovarti sconfitta. Così mi sono arreso agli altri, mi copro sempre quando tira vento. Anna stringe la cintura, e più la stringe più le fa male. Sulla crosta terrestre che sott’acqua è ancora unita. Ti cerco l’anima dentro e trovo solo la mia. Una coperta non basta, brucio qualche sdraio. Io non so e non credo che lo saprò mai. Abbiamo voce roca, fronte bassa e selvaggia, un identico cielo, un solo mare e nessunissima medaglia.
E a casa tua fa freddo: lo zolfo
[Simbolo dell’elemento: S / Numero atomico: 16 / Serie: non metalli]
Il fuoco in una stanza è un disco che parla del nostro io eppure lo fa utilizzando il noi, il tu, il loro, il voi, il lei: in questo modo crea già nella forma il senso che poi esprime nella sua sostanza. Qual è la vera quantizzazione del mio io? A quante e quali persone, esperienze e situazioni sono intrecciato? Esiste un limite di distanza oltre il quale il riverbero di tutte quelle stanze e di quei fuochi smette di avere un effetto su di me? O su di lui? O su di loro? O su di te?
Pensa al bosone di Higgs o alla teoria delle stringhe, all’antimateria o al mistero della sfinge. Oppure pensa a Io, il satellite naturale di Giove che non fa altro che collassare e rigonfiarsi, dipendere dal Sole e dalle maree di Giove, risentire di montagne e crateri generati dalle centinaia di vulcani che lo ricoprono e che sono in attività, con sbuffi di zolfo talmente alti da coprire la distanza che c’è tra Roma e Milano. Ecco, se io dovessi pensare a una rappresentazione fisica dell’io e di questo disco penserei proprio a questo: un territorio che sarebbe invivibile se non fosse il mondo che siamo.
Ne L’invenzione della solitudine, Paul Auster scrive del rapporto con suo padre a due settimane dalla sua morte, indaga sugli affetti, sulla memoria, su quello che non diciamo e su cosa poi voglia dire per lui diventare padre a sua volta. La famiglia, la mancanza, le stanze della sua vecchia casa diventano scrittura e la scrittura diventa luogo. C’è un libro molto bello, uscito l’anno scorso per minimum fax, che si intitola L’unico viaggio che ho fatto: a un certo punto di questo libro, Emmanuela Carbé scrive: «Ma cos’è lo spazio? Non è la lingua che si abita? E se la lingua è una casa allora i luoghi sono ciò che è possibilità di narrare. Se è stato narrato, come Las Vegas, è luogo. Se l’hai narrato, come il signor Pierre Dupont alle prese con il bancomat prima di andare in aeroporto, è luogo. Siamo astronauti esploratori che vanno con i missili Aster nel deserto dei centri commerciali, vanno su Saturno, vanno a Milano 3. Vanno in via dei Condotti e su Facebook a cercare tracce che suggeriscano la possibilità di sopravvivenza della vita umana».
E allora andiamo a camminare, mamma. Andiamo a fare il giro dell’isola. Andiamo a imparare i nomi degli alberi, a giocare con le parole e a raccontarci di tutti i luoghi e le lingue che siamo sicure esistano. Potremo finalmente urlare il nostro vero nome.
[In questa rubrica sono stati già raccontati I Cani, Motta, Truppi, gli Afterhours e Vasco Brondi]
Elisa Casseri è nata a Latina nel 1984 ed è laureata in Ingegneria Meccanica. Autrice del blog "Memorie di una bevitrice di Estathè", ha pubblicato il suo romanzo d’esordio "Teoria idraulica delle famiglie" per Elliot nel 2014. Nel 2015, ha vinto la 53° edizione del Premio Riccione per il Teatro con il testo "L’orizzonte degli eventi". Il suo ultimo libro è "La botanica delle bugie" (Fandango, 2019).