Il racconto di Antonio Russo De Vivo, “La casa”, preceduto da un dialogo con l’autore.
Francesco Pacifico
Mi è piaciuto moltissimo come descrivi le foto sulle pareti della casa.
C’erano foto, sulle pareti, disposte in due schiere: da un lato l’evoluzione di un ragazzone femmineo, un grassottello col viso rubicondo e rossiccio, e due occhi stanchi che lo seguivano, di foto in foto, dall’infanzia alla seconda giovinezza; dall’altra l’evoluzione di una fanciulla rabbiosa, dagli occhi carichi di sangue conficcati in un corpicino esangue, anch’essa presa nel progredire degli anni fuggevoli. Eppure entrambi quei figli, mossi su due pareti opposte e parallele, portavano con sé qualcosa di materno che la luce, fioca, pareva celare per pudore.
Una soluzione così forte per raccontare gli affetti dell’inquilina mi pare tradisca letture forti. A chi ti ispiri, fra gli scrittori italiani?
Antonio Russo De Vivo
Non saprei dire a chi mi ispiro, anche perché talvolta cambio stili, cambio modalità di scrittura, e in questo certo influiscono le letture ma non solo. Mi accorgo che forse è sbagliato cambiare sempre. Per noi ultimi aspiranti scrittori, gli “scrittori giovani” qualcuno direbbe con una formula per ovvi motivi temibile (oggi la percezione della “giovinezza” è poco chiara), la questione è tanto interessante quanto complessa. Io sono molto vicino ai discorsi che legano la “scrittura” al “supporto”, discorsi derivanti da McLuhan e che ho ritrovato in “La lettera che muore” (Meltemi) di Gabriele Frasca, opera purtroppo poco conosciuta, ma anche in parte sottesi nell’impalcatura teorica di Arturo Mazzarella. Mi interessa vedere cosa diventerà la scrittura, perché oggi la scrittura è ancora lì, legata al passato, ancora distante dai grandi mutamenti in atto dovuti alla massificazione dell’utilizzo del web. Aspetto di vedere “come cambiano i libri”. Mi capitò di leggere una cosa, sul web, non so dove, non so scritta da chi, ma che terrò sempre presente (sto cambiando discorso, perdonatemi): noi cresciuti con la TV siamo quasi fatalmente destinati a riproporre personaggi e situazioni stereotipate. Non era proprio così ma il succo è questo, o se anche non lo è mi interessa credere che lo sia. Potrei dire che più dei libri, o quasi quanto i libri, ad ispirarmi sono i mass media, basti pensare che la scena in questione la vedevo, era per me un’immagine cinematografica (ed io i film li vedo in TV, le scene le immagino quindi in tv). Vorrei rileggere “L’informazione” (Einaudi) di Martin Amis, un libro che dice molto di più di quanto voglia far credere. Paradossalmente, invece, mentre scrivevo questo racconto rileggevo “Casa d’altri” (Einaudi) di Silvio D’Arzo, libro meraviglioso. Da un punto di vista stilistico, non so quanto c’entri in tutto quanto ho detto, io ritengo che la perfezione l’abbia raggiunta Fenoglio, la cui eleganza e il cui senso del ritmo sono stati, a mio avviso, vetta mai raggiunta da altri.
FP
Sì, forse Fenoglio spiega la voglia, che mostri in questo racconto, di creare soprattutto un’atmosfera forte, con odori e luci e temperature: “Aprimmo una porta, la stanza pareva un antro. Filippo accese la luce, tetra, e sopra di noi scorgemmo un lampadario sfoggiante il peso di decenni antichi: in ottone, a cinque luci che i bracci affusolati legavano allo stelo centrale, sfidava gli anni con una ingombrante placcatura dorata”.
Però mi pare che sia più che altro un esercizio. Nella casa non c’è alcuna posta in gioco. E infatti non mi piace che alla fine tu concluda con un “avevo vissuto abbastanza” del narratore.
Secondo me, per raccontare una situazione inquietante ma priva di contenuto come questa si può andare in quei territori fra Poe e i racconti brevissimi di Maupassant, e unire al terrore un maggiore distacco dei personaggi che entrano nella situazione, creando un contrasto fra la zona in cui si è entrati e le persone che ci entrano.
Che ne pensi?
AR
Penso che Maupassant mi piace molto, ed anche Poe: due riferimenti eccellenti per la narrazione che voglia giocare sulle paure dell’essere umano, sulle ossessioni anche. Mi piaceva delineare lo stupore dinanzi a una donna cui probabilmente non è rimasto nient’altro che una casa, ma una casa che non è una di quelle villette presenti in tanto cinema americano, al contrario è un semplice appartamento. Ecco: il fulcro del racconto è la soglia tra due mondi, quello della signora, e quello dei due lavoratori: questi devono sopravvivere a un mondo che non conoscono, né vogliono conoscere. Non c’è una posta in gioco, non c’è un concetto di evoluzione dei personaggi, non c’è volontà di esprimere una qualche idea o morale, c’è solo un’esperienza strana da lasciarsi alle spalle.
La casa
Alla porta io dissi a Filippo di tirarsi bene la cinghia del pantalone e Filippo mi guardò serio. Bussai con la mano esitante. La porta fu aperta e fiutammo l’aria. C’era caffè, tanto, poi c’era zucchero. La signora stava seduta in un angolo della cucina, con sigaretta accesa e gomito sulla coscia molle. Aveva un sorriso lungo, e sottile. Ci disse che eravamo in ritardo e io tacqui.
«Colpa mia.» disse Filippo, giovane e bello e perciò sfrontato.
«Andate di là.» rispose la signora, anzi non rispose, ma parlò senza sentirlo, e io gli diedi una pacca sulle spalle per andare, senza nulla aggiungere.
Il corridoio era un basso e stretto, di diversi metri, una luce giallognola a malapena lo illuminava. C’erano foto, sulle pareti, disposte in due schiere: da un lato l’evoluzione di un ragazzone femmineo, un grassottello col viso rubicondo e rossiccio, e due occhi stanchi che lo seguivano, di foto in foto, dall’infanzia alla seconda giovinezza; dall’altra l’evoluzione di una fanciulla rabbiosa, dagli occhi carichi di sangue conficcati in un corpicino esangue, anch’essa presa nel progredire degli anni fuggevoli. Eppure entrambi quei figli, mossi su due pareti opposte e parallele, portavano con sé qualcosa di materno che la luce, fioca, pareva celare per pudore. Filippo accostò la testa alla penultima foto di lui, cercando di carpirne qualcosa, poi si girò di scatto e mi sorrise. Io allora vidi una cagna così poco sublime da concedere al ragazzone una bellezza immeritata: un incrocio di razze indefinibili, minuta, col corpo lungo e le zampe piccole e un muso schiacciato e, dietro di sé, una coda che andava lontana. Stava addosso alla coscia grossa del ragazzo, con la linguetta di fuori, in cerca di sprazzi di felicità. Il ragazzo la ignorava, teneva lo sguardo truce appeso alla macchina fotografica, e gli occhi tondi spalancati a forza, per timore del flash. Di fronte a lui la ragazza, in posa pugnace rivolta alla vita che doveva sfuggirle con la peggiore delle giovinezze, non digrignava i denti ma con gli occhi spalancati era come se ruggisse; il fotografo l’aveva inquadrata intera, in quella stessa casa, in camera da pranzo. Ai bordi della foto c’era una coda, innalzata e arricciata, tale da non capirsi se sfuggisse o se si frapponesse all’immagine. Io da lì mi rassicurai su quella comunanza avita tra ragazzo, ragazza e signora tutti. Non sorrisi, ma d’istinto mi morsi al labbro inferiore, con piacere.
«Andiamo.» dissi a Filippo, tenendolo per la spalla, e dopo troppo tempo quel corridoio blando e supponente terminò.
Aprimmo una porta, la stanza pareva un antro. Filippo accese la luce, tetra, e sopra di noi scorgemmo un lampadario sfoggiante il peso di decenni antichi: in ottone, a cinque luci che i bracci affusolati legavano allo stelo centrale, sfidava gli anni con una ingombrante placcatura dorata. Filippo mi strinse una spalla e con l’altro braccio mi indicò l’angolo. C’era un comodino in legno, a due cassetti, rovinato dagli anni. Sopra di esso, una truppa di foto circondate da candele spente. Ci avvicinammo curiosi, attraversando un enorme letto a tre piazze e bordi in ottone e coperte nere – tanto enorme da divorare almeno i due terzi della stanza -, e un armadietto in legno di mogano alto e scuro. Filippo taceva celando un sorriso, non osato, al cospetto di quelle figure di defunti, molti vecchi, qualche giovane e poi, ancora, quel cane. Il cane stava dentro una cornice d’ottone finemente lavorata – l’ottone, metallo poco nobile ma in disuso, dominava, in quella stanza -, in posa stanca, sofferta, quasi morente. Doveva essere stato costretto a patire l’obiettivo, quel cane, agli sgoccioli della sua esistenza. Filippo mi fissò negli occhi come se cercasse in me il coraggio. Una risata, grassa, incombeva come un groppo in gola. Ma io lo ammetto, fui crudele. Lo guardai truce, il ragazzo, per il suo bene: gli intimai con gli occhi che si era lì per altro, non certo a giudicare. Pero anch’io, dentro, volevo ridere, tra i morti, le candele e il cane.
«Diamoci una mossa.»
Filippo assentì e rilassò il viso.
Erano le diciassette.
Appena adagiammo le mani ai bordi del comodino sentimmo dei passi e ci voltammo alla porta.
«Gradite del tè?»
La signora trasportava un carrellino di annata, nel solito ottone, coperto da una trapunta ricamata a mano.
Filippo era sorpreso, io per rassicurarlo mi accostai al carrello e presi una delle tazze in ceramica bianca. Filippo mi seguì. Sorseggiamo. Il tè era cattivo, mi sembrava di scoprire per la prima volta il sapore della cenere. Bevvi tutto, Filippo invece, al primo sorso, fece una smorfia palese, e posò la tazza sul carrello, con fare nervoso.
La signora lo guardò. Io guardai la signora.
La signora aveva un rossetto forte sulle labbra, di color bordeaux, e le ciglia scure, di una tinta tra il blu e il nero. Le gote scavate e incipriate facevano contrasto con il corpo grosso. Quelle gote si accesero, mentre lei guardava Filippo. Non disse nulla, ma fece fare un giro al carrello e andò via.
«Dai, diamoci da fare!» dissi a Filippo.
Ci demmo da fare sul serio, e per la sera liberammo la stanza da tutto quanto c’era.
La signora, a fine giornata, ci parlò.
Disse tutto quello che voleva. Cambiare mattonelle del pavimento, dipingere le mura, comprare nuovi mobili, antichi, cambiare il lampadario, per un altro altrettanto magniloquente; rifare tutto, meglio. Un fiume di parole, decise ma nervose, che tracciavano nell’aria una stanza da letto grandiosa.
Filippo mi fissò e, senza dire, lui la pensava come me. Io annuii. Sarebbero stati giorni di passione.
Salutammo e ce ne andammo.
La porta di acciaio dell’ingresso ci abbandonò risucchiando il vento e rimbombando prepotente.
L’ascensore, di fronte, dallo sportello scuro e graffiato, invaso da scritte e disegni puerili, lo evitammo.
Scendemmo i quattro piani a piedi.
Uscimmo dal portone di ferro e ruggine, non senza aver incrociato un giovane vestito male, dall’aria sospetta, che farfugliava sui mali della vita.
Eravamo, ora, come liberi.
Lasciammo dietro di noi un palazzo in prefabbricato, alto sei piani, cadente su più punti. Avanti e indietro, tanti palazzi uguali.
La strada, larga e lunga come un grosso boa schiacciato, era del tutto vuota.
Raggiungemmo quasi la mia macchina, quando un gatto bianco e sporco ci si parò davanti, e si lamentò in cerca di calore. Io no, invece. Avevo vissuto abbastanza.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).