Dal De bello Gallico alla testata di Zidane, la storia della rivalità Italia -Francia è antica quanto l’Europa. Cesare era un criminale di guerra o un grande condottiero? E Materazzi un campione di razza o uno scarpone da antologia? Quando ci sono di mezzo gli italiani e i francesi diventa solo una questione di punti di vista. Del resto on est cousins, pas de jumeaux: siamo cugini, mica gemelli, si diceva in un vecchio film di Chabrol (Les cousins).
L’estate scorsa sono stato chiamato dall’Istituto Italiano di Cultura a Parigi per una residenza d’artista. Vivevo in una mansardina pucciniana dove Marina Valensise, la direttrice dell’istituto, aveva saggiamente deciso di ospitare i cervelli italiani un attimo prima che emigrassero all’estero.
Intralciando il passo marziale del parigino sempre indaffarato, vagavo per la città come un flâneur fuori tempo massimo e una domanda insistente mi rintoccava in testa: cos’è che non va tra noi e i francesi? Avanti cugini, sediamoci davanti a un pastis e discutiamone serenamente.
Che ci fosse nei nostri confronti una certa ammirazione era innegabile. Si mostrava nelle inavvicinabili boutiques di Saint-Germain che ospitavano in vetrina le prestigiose griffes del Made in Italy, si respirava nei tubi di scappamento dei vesponi che sfrecciavano sgargianti come cetonie lungo gli Champs-Elysées, si notava persino davanti ai cinema di Saint-Michel, dove la gente attendeva composta sotto la pioggia per vedere impensabili retrospettive su Zurlini.
Dalle forme sensuali degli elettrodomestici in vetrina a quelle aggressive delle fuoriserie nelle concessionarie, dalle gelaterie gremite alle cromature scintillanti delle macchine da caffè, difficile negare una sottaciuta, quanto sincera, ammirazione francese per un’eleganza e un gusto tutto italiano. Dunque una parte di quella grande bellezza di cui tanto si era parlato a Roma (Dieu n’est pas Fellini! Si sentiva sbuffare all’uscita dalle sale) si era trasferita a Parigi, ma depurata da ogni faziosa polemica e protetta da ogni potenziale bruttura in grado di minacciarla in patria. Eppure, anche in Francia, quella italiana era una bellezza fragile, perennemente sotto esame e sotto accusa, una bellezza che richiedeva impegno e concentrazione. Bastava avanzare incautamente di mezzo passo durante una fila al Franprix che la signora appaiata ti apostrofava con un infamante “Ah, les italiens!”. E se trascuravi il rotacismo tradendo una “erre” vibrante, alveolare, immancabilmente italiana, il cameriere del bistrot ti rifilava con disprezzo un umiliante menu in inglese (per i francesi chi non è francese è americano). Allora, da italiano umiliato ma orgoglioso, lasciavo il tavolo e riprendevo le mie peregrinazioni per la ville lumière.
Scendendo per Rue du Cardinal Lemoine in bella vista c’era una targa che non lasciava la soddisfazione di individuare da soli il palazzo in cui Hemingway e la moglie avevano vissuto quando erano poveri e felici. E pochi metri più avanti, dall’altro lato della strada, non facevo a tempo a consultare il mio taccuino che un’altra targa mi avvertiva che in quel palazzo Joyce aveva finito di scrivere l’Ulisse, ospite di un mecenate a sua volta menzionato in un’altra targa a fianco, che incerottava la facciata del palazzo come il volto di un pugile dopo un incontro. Un po’ in soggezione per tanta furia didascalica mi avviavo perplesso verso il Panthéon, dove rimpicciolivo al cospetto della sua mole monumentale e alzavo gli occhi al fregio: aux grands hommes la patrie reconnaissante. Ecco la mirabile sintesi della grandeur, mi dicevo, la riconoscenza della patria nei confronti dei grandi uomini; mentre noi italiani, campioni del mondo di autolesionismo, olimpionici di esterofilia, sempre pronti a mandare un Mazzini in esilio e fischiare un Verdi a una prima. Visitavo monumenti, musei, collezioni pubbliche e private, dove tutto era chiaro e accessibile, là tutto funzionava come avrebbe dovuto, ricordandoti con dolorosa precisione come avrebbe potuto funzionare qua. Senso dello Stato, organizzazione, efficienza delle istituzioni: ecco le armi segrete della supremazia francese.
Ma allora, se superiori e grandiosi, perché invece che esercitare la magnanima clemenza dei vincitori sui vinti, i francesi ci riservavano sempre una vaga diffidenza, se non un sottile disprezzo? I miei dubbi mi tenevano più compagnia dei parigini, che non sembravano molto desiderosi di conoscermi. Poi un giorno, mentre ero seduto tra filari di teste canute (a quanto pare i vecchi allignano anche in Francia), negli sfarzosi saloni dell’Hotel de Galliffet dove si teneva una conferenza del critico Antoine Compagnon, allievo di Roland Barthes e uno dei maggiori proustiani viventi, ho capito.
Ho capito perché i giornali svolazzano, i francesi s’incazzano e le balle ancora gli girano. E stavolta non c’entrava Bartali, ma Piero della Francesca. Compagnon raccontava di un suo vecchio viaggio in Italia e di una tappa a Monterchi, dov’era andato a vedere La Madonna del parto. Nel suo italiano corretto ma incolore aveva chiesto in paese dove fosse la cappella che custodiva il capolavoro ma nessuno era stato in grado di indicargliela. Alla fine una vecchietta gli aveva detto che le chiavi della cappella ce l’aveva tale Angelo, lo spazzino. Ma ora era fuori con l’apetto, doveva aspettare che tornasse. Lui, stupefatto, aveva aspettato Angelo. E una volta rientrato, Angelo gli aveva cortesemente aperto la chiesetta. Così, il giovane Compagnon aveva potuto immergersi in una mistica contemplazione dell’affresco, un irripetibile tête-à-tête con Piero, in metafisico silenzio davanti a quella grande bellezza così ignorata e indifesa, immensamente vulnerabile, un pensiero che l’aveva commosso fino alle lacrime. Voilà. Ecco cosa non ci perdonano: di farli commuovere.
Perché i francesi della loro grandeur fanno – e a ragione – orgoglio e vanto, la difendono e la catalogano con l’indefesso zelo di un burocrate napoleonico.
Al contrario di noi italiani, che della nostra bellezza, malconcia, oltraggiata e polverosa, come aristocratici dalle mani bucate che non si curano delle loro sostanze, facciamo uno scialo dissennato, uno sperpero sublime, una struggente rovina. Sapendo bene che, prima o poi, la grande bellezza finirà. Ma che è talmente sterminata che noi non la vedremo mai quella fine.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).