Siccome in certe storie il vissuto emotivo è importante, credo che mi toccherà fare una semplice confessione preliminare: a me la beat generation piace da impazzire e tra i beat il mio preferito è Gregory Corso. Non sono tra quelli che credono che sia stato un esperimento fallito e che si trattasse solo di alcolizzati e drogati e vagabondi che giocavano a fare gli artisti (benché fossero effettivamente alcolizzati e drogati e vagabondi), no, credo anche che siano stati pure gli artefici di opere bellissime, che hanno saputo cominciare e chiudere un ciclo perfetto e dare la giusta voce alla controcultura di quegli anni. La bellezza delle cose che finiscono, l’ultimo dei beatniks, Gregory Corso. Non so se è dovuto al fatto di aver letto I vagabondi del Dharma troppo presto, o se è perché mio malgrado non posso fare a meno di subire il fascino tutto adolescenziale dell’alcol, delle strade americane dritte in mezzo al deserto e della promiscuità sessuale (promiscuità che in tutti i casi non avrei mai avuto la forza di sostenere emotivamente, perché in realtà sotto sotto sono un reazionario immobile che vorrebbe ma non può). Forse mi piacciono per difetto, perché so che in nessun caso potrei essere come loro e il semplice sforzarmi ad assomigliare loro mi rendeva naturalmente patetico e tenero allo stesso tempo. Povero scemo, si crede Kerouac, quando la cosa più simile che potevo fare per sentirmi come lui era trovare compensazione emotiva e giustificazione al mio breve talento nell’alcol scadente.
Dicevo, tra tutti loro il mio preferito è Gregorio Nunzio Corso. La prima volta che ho sentito parlare di lui è stato al festivaletteratura di Mantova 2010, quando mi ero arruolato volontario nella schiera di sfruttati che lavorano gratis al festival invaghito dalla gloria dello sforzo non ripagato, dalle presentazioni dei libri con gli autori famosi e dalle prospettive di sesso facile che si creano in ogni situazione in cui metti centinaia di ragazzi poco più che ventenni tutti insieme nello stesso posto. Ecco, inutile dire che mi sbagliavo di brutto: andare a lavorare al festivaletteratura di Mantova non è esattamente come partire per un campo estivo Agesci, uno di quei posti in cui potrebbe succedere di tutto (e nella maggior parte dei casi effettivamente lo fa). Assomiglia più a uno stage noioso che ti fa chiedere tutto il tempo se è quello che proprio vuoi fare nella vita. In ogni caso, io a Mantova ci ero arrivato grazie a una coppia di amici che ora hanno un bambino di tre anni con gli occhi azzurri e uno di sette giorni, una macchina nuova e un centro di studi olistici al Pigneto (un posto carino, se non fosse frequentato per la maggior parte da vecchiette con la pelle chiara e sottile terrorizzate dal fatto che a un certo punto si muore).
A quel festivaletteratura, tra le altre cose, ho ascoltato Mauro Corona leggere alcune sue pagine sotto una pioggia orizzontale, scritto decine di articoli mediocri che andavano a rimpolpare le edizioni web del giornale del festival, mi sono fatto qualche selfie con il badge con su scritto redazione (era pur sempre la mia prima volta e come tutte le prime volte se non sono documentate a sufficienza praticamente non esistono), ho conosciuto Martina, una ragazza carina che però non sento più e ho avuto pure il tempo di annoiarmi parecchio. Voglio dire, Mantova è una bomboniera, ma non è che in fatto di vita notturna possa essere definita la Las Vegas del Nord, e io che non avevo faticato a immaginarmi bevute colossali con i ragazzi della redazione sputando frasi fatte sull’importanza di Proust e sul mercato dell’editoria italiana (perché, chiaro, era quello il motivo della nostra presenza lì, anche se non ce lo dicevamo, volevamo pure noi uno spazio in quel circo, lo volevamo a tutti costi) dovetti invece rassegnarmi alla pioggia, alla sobrietà e all’ufficio della signora gentile che gestiva il b&b dove ci avevano sistemato, che di notte mi lasciava usare il suo computer fisso connesso a internet. Mi sentivo molto solo nonostante avessi appena imparato a fare l’emoticon dello squalo su facebook: (^^^).
Tutti volevamo scrivere, questo me lo ricordo perfettamente, quello che mi riusciva difficile capire erano gli sguardi invidiosi che ci lanciavamo di sottecchi, tutto quel fomentare le differenze che avrebbero dovuto deflagrare negli anni successivi alla rincorsa di qualche percentuale di vendita che in ogni caso non avrebbe riguardato le nostre vendite.
Così me ne andavo affranto per le strade di Mantova, con la maglietta blu che ti davano appena arrivato insieme agli altri vari gadget, sfogliando il centoautori e cercando qualche evento improbabile che mi riconciliasse con la letteratura e col mondo intero. È stato in quel breve momento di disperazione che ho trovato nel programma la proiezione di un film dal titolo Gregory Corso: the last beat.
Uno dei grandi meriti della fruizione cinematografica è quello di aver creato uno spazio, per le persone in stato di solitudine, accordando loro per una modica cifra un tempo riparato dal tempo normale. Era la prima volta che sperimentavo quel tipo di solitudine perché era la prima volta che andavo in un cinema da solo e perché Gregory Corso non lo conoscevo ancora, ne avevo solo sentito parlare in qualche libro della Pivano che raccontava della Beat Generation, perché a un certo punto le cose cominci a impararle, e mi viene in mente che dev’esserci stato un giorno che non sapevo pure chi fossero Dante, Kerouac, Dostoevskij e tutti gli altri. È una progressiva catalogazione di materiale buono per edificarci sopra tutta una persona, tutto un carattere, è questo quello che succede quando le informazioni sono lì per cambiarti la vita, a disposizione, basta solo allungarsi per afferrarle. Che persona fossi prima di conoscere Anna Karenina non me lo ricordo, ho letto quel libro troppo distrattamente (ogni volta che sono costretto a partecipare a una discussione che lo riguardi racconto della scena di Levin in campagna, mentre taglia il grano, quella se la ricordano tutti), ma so per certo quello che è successo dopo aver conosciuto Corso.
Il film, un documentario biografico sulla vita (e sulla morte) del poeta americano, è stato una specie di rivelazione. A condurre la narrazione della storia c’era Ethan Hawke, l’attore che in Dead Poets Society interpretava Todd e autore, tra le altre cose, del secondo me ottimo Mercoledì delle ceneri. Gregorio Nunzio Corso è nato a New York nel 1930 da due genitori italiani, madre pugliese e padre calabrese (cosa che mi fece riflettere sul sangue e sulle contaminazioni ambientali sul destino della gente) che presto lo abbandoneranno a New York. A tredici anni non aveva già nessuno, d’inverno si riparava nelle metro, d’estate dormiva sui tetti dei palazzi. Gregory nella sua vita conoscerà il vagabondaggio e il carcere, ma anche Parigi e il Greenwich Village. Al tempo del documentario (siamo nel 2000) il poeta, ormai un vecchietto col cuore grande capace di innamorarsi di molte cose, viene raccontato con una onestà imbarazzante, filtrata dalla sua voce stridula e non bassa e potente come uno si aspetterebbe, racconta dei furti, degli incontri con Ginsberg, il primo che crederà fortemente in lui e lo aiuterà nella pubblicazione della celebre Bomb, una poesia redatta a forma di fungo atomico, e brucerà una foto di Burroughs sulla sua tomba, alla maniera buddhista. Le morti di quei due suoi amici metteranno a repentaglio la buona riuscita del film, dato lo stato catatonico in cui Corso cadde dopo le morti ravvicinate degli altri due beatniks. Su wikipedia inglese si racconta che i fan gli dicevano, privi di quella naturale forma di rispetto che si deve all’ultimo animale di una specie già estinta da un pezzo, “ehi, tu sei l’ultimo beat!”, facendolo incazzare parecchio.
Ricordo un particolare, in quel film, che mi aveva commosso molto. Nel suo viaggio in giro per l’Europa, per ripercorrere i luoghi della sua giovinezza (in una scena ai piedi del monte Parnaso si sentiva Corso gridare ad alta voce i nomi degli autori greci per aspettarne l’eco: Homer! Heraclitus! mentre a Venezia Gregory dice di non aver mai visto il viso di sua madre), quando passava di fronte a qualcosa che attirava la sua attenzione, ed era un’attenzione viva, con una punta di insensatezza, si fermava, prendeva dal marsupio che si portava dietro una macchina fotografica economica e semplicemente fotografava. Erano foto scattate alla svelta, senza nessuna pretesa o velleità artistica se non quella di ricordare. Eccolo lì, Gregory Corso, un signore anziano coi capelli radi e sovrappeso e con il cuore a brani, gravemente malato e di sicuro non perfettamente lucido, che fotografa i monumenti e le statue per poterle ricordare, come se l’idea della morte non lo sfiorasse nemmeno, come se la morte nemmeno esistesse. Io ero sconvolto, aggrappato ai braccioli della poltrona (era una poltrona di quelle vecchie con il sostegno in legno e il sedile che cigola), e l’unica cosa che ho saputo pensare è stato il verso di una canzone di Vecchioni.
A un certo punto del film, dalla produzione viene suggerita l’idea di cercare la tomba di questa madre degenere che aveva perduto il figlio e che probabilmente, come era arrivata negli Stati Uniti e approdata sulla costa, così se ne era ritornata in patria a morire di una morte anonima in un qualche paese di campagna, sollevata dal fatto che la vita era difficile per tutti, Puglia o New York City che siano. La tomba però non si trova da nessuna parte, la speranza di ritrovare la madre ancora viva, italianissima, di questo poeta americano per condizione ma non per sangue diventa una possibilità concreta, dettata da ovvie logiche di share alla Carramba che Sorpresa!, ma in qualche modo più dolci, all’apparenza molto meno consumistiche di come si potrebbe pensare. Sembrava che volessero ritrovare la madre di Corso perché semplicemente quella era la cosa giusta da fare.
Così è stato, Corso ha 67 anni e l’anno successivo si ammalerà di un tumore alla prostata che lo porterà via in breve tempo. La madre di Gregory la ritrovano in New Jersey, in una casa di quelle classiche americane, fatte di legno bianco, la doppia porta e un giardino tenuto male di fronte. La scena di Gregory che bussa alla porta della madre con un mazzo di rose rosse squalcite in mano ha dell’incredibile, ti fa stare col fiato sospeso fino a che la madre, ottantenne, non lo abbraccia, lo accarezza e gli chiede amorevole per prima cosa se mangiasse abbastanza. Le nonne di tutti avrebbero lo stesso approccio alla dimenticanza, mi viene da pensare. Gregory la abbraccia di rimando, si mette a piangere, fa ancora delle foto. Riviene in mente una poesia letta all’inizio del film, Cantilena Marina, scritta quando Gregory non sapeva che la madre aveva ripreso la via del mare sei mesi dopo averlo partorito: “Mia madre odia il mare,/ il mio in particolare / le ho detto: non odiarlo / che altro potevo dirle. / Due anni sono passati / e il mare se l’è mangiata / poi sulla spiaggia trovai una strana / ma bella cosa da mangiare. / Ho chiesto al mare se si mangia / e il mare ha detto che si può. / -Oh, mare, che pesce è questo / così tenero, buono, che credi…? / -Di tua madre sono i piedi”.
Come si fa a non volergli bene, a Gregory Corso? Quello che traspare è una purezza unica, gli occhi buoni di certi barboni con gli occhi azzurri che quando passo per San Lorenzo ti gridano Alleluia, la tenerezza di certe foto in bianco e nero di bambini che sorridono nonostante la guerra.
Qualche mese dopo, sul letto di morte bianco dell’ospedale dove viene ricoverato è la madre ritrovata, risputata dal mare, che gli scosta i capelli bianchi e radi dalla fronte e lo tranquillizza, gli dice che è bello, che sta bene, che non succede niente. Era decisamente troppo da sopportare, stavo per piangere per la seconda volta davanti a un film (la prima fu durante La vita è bella, avevo undici anni e non sapevo ancora come gestire gli stati emozionali).
Uscito dal cinema e tornato a casa ho cercato un modo per rivedere quel documentario, per passarlo ad amici e parenti, per fare in modo che chi non lo conoscesse finalmente potesse anche lui accedere a uno spirito tanto forte. Niente, il film, nonostante abbia vinto diversi premi (a memoria ricordo il Taormina Film Festival) non è mai stato distribuito, tutto quello che si può trovare su internet è il trailer e la locandina.
Ma c’è ancora una cosa che si può fare. Si può andare al cimitero acattolico di Roma a visitarne la tomba in cui sono seppellite le sue ceneri, si trova in alto, è poco vistosa, lontano dalle statue che popolano quel luogo, vicino alla tomba di Shelley. Si può andare lì, e magari pure ascoltare una delle sue poesie più famose, sicuramente quella più partecipata Matrimonio, letta da Valerio Mastandrea.
In una delle ultime scene del film si vede Ethan Hawke che giovane giovane entra nella camera d’ospedale, quasi imbarazzato, con la faccia limpida e prima di intonare insieme i primi versi di quella poesia gli dice qualcosa come “non sai quante ne ho rimorchiate, con questa”: “Devo sposarmi? Devo essere buono? / Far colpo vestito di velluto e cappuccio da Faust sulla ragazza che abita /accanto? / Portarla al cimitero invece che al cinema / dirle tutto sui lupi mannari vasche da bagno e clarinetti biforcuti / poi desiderarla e baciarla e tutti i preliminari / e lei che arriva solo fino a un certo punto e io capisco perché / e non mi arrabbio dicendo Devi sentire! È bello sentire! / Invece la prendo fra le braccia mi appoggio a una vecchia tomba contorta / e corteggio lei la notte intera le costellazioni nel cielo”.
Alla fine ero contento, di esserci andato, a Mantova. Per tornare a Roma sono passato per l’Umbria, a casa di amici che mi avevano invitato per una specie di festa del vino.
Durante quei giorni mi ricordo solo di aver accettato un invito in Lettonia, e di aver battezzato una notte un tacchino americano di quelli da esposizione, con i colori più sgargianti che avessi mai visto, col nome di Aiace Telamonio (e mi viene da pensare che forse è per quello che gli anni successivi, alla stessa festa, non mi hanno più invitato), solo per poter dire a un certo punto, fermo in mezzo a quell’aia con gli occhi di un animale che ti fissano, in una notte che mi immagino non dissimile da certe notti americane silenziose, ecco, “io sono come voi”.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).