(da Lezioni di vero, numero 78 di «Nuovi Argomenti»)
Aveva quarant’anni Bertrand Morane quando inseguendo l’ennesimo incauto desiderio ci rimise la pelle finendo investito da un’automobile. E quarant’anni sono passati dal 27 aprile del 1977 quando arrivò nelle sale cinematografiche il capolavoro di François Truffaut, L’uomo che amava le donne. Oggi dunque Bertrand Morane avrebbe ottant’anni e chissà quale sarebbe la sua storia, come sarebbe declinata la sua vita sempre all’inseguimento irrinunciabile di quella bellezza femminile che lui adorava in ogni sua poliedrica forma e di certo, probabilmente, non si sarebbe fermato alla pubblicazione del suo primo libro autobiografico che dà – così si può dire – titolo al film di Truffaut.
L’uomo che amava le donne è una storia già decisa al passato, ma che del passato non parla mai, ma lascia solo intravedere un dolore, un vuoto, una causa misteriosa, sicuramente d’amore che ha segnato la sensibilità inquieta di Morane. Morane insegue ogni donna non come terra di conquista, ma come forma di adesione ad un amore ogni volta diverso ed ogni volta possibile. Un gioioso sentimento vergato dalla nostalgia, da un passato che impedisce ogni forma di presente e che allontana all’istante ogni pensiero futuro. Anzi il futuro è il momento attuale in cui tutto cambia e in cui l’amore si trasforma in una scoperta successiva, in un brivido imprevisto.
Morane non è alla ricerca di una conoscenza ossessiva di più donne, ma delle donne: qui i numeri non contano, non contano e non hanno senso. Quello che Morane insegue è un amore ideale che solo la diversità può realizzare, solo la continua successione di visi, corpi e discorsi può dare forma placando un dolore originario di abbandono e solitudine. Il protagonista del film si muove con erotica grazia, con una gentilezza dandy che prima ancora che nei gesti è nello sguardo intrepido e affettuoso, spudorato e intimidito.
La vita di Morane diviene dunque un libro, prende la forma di pagine di carta di un preciso numero e di un preciso peso (come ricorda nel finale l’amica editrice). La vita prende la forma dichiarata di un oggetto maneggevole e preciso. Se fosse sopravvissuto forse avrebbe preso una forma totalmente diversa, ma ad oggi e per evidente lungimiranza di François Truffaut quello che resta è qualcosa di diverso da un film che contiene un’autobiografia che contiene a sua volta un passato raccontato dal punto di vista del protagonista, perché ad essere descritta non è la vita, ma i gesti e gli incontri prima ancora che le motivazioni, una storia dunque. Una narrazione estremamente definita che realizza un sogno parallelo e contrario a quello dell’immortalità, ossia la precisione della finitezza in ogni sua forma.
È chiaro l’intento di Truffaut di dare più che spiegazione, ordine ad un desiderio, e non per giustificarlo quanto per liberarlo il più possibile. In tal senso la scrittura e le notti sfibranti passate da Morane alla macchina da scrivere si muovono parallele a quelle passionali passate con le sue amanti. Non c’è contraddizione perché il racconto diviene il luogo della comprensione di un piacere oltre gli angusti perimetri di un tempo che troppo spesso priva di ogni altra possibilità. Amare le donne è dunque pericoloso? Amarle per ogni loro gesto, in ogni loro decifrabile atteggiamento: gli occhi e la bocca e poi le gambe (inutile riportare la meravigliosa e famosa definizione di Morane). La risposta è che no, non lo è per nulla, perché amare è vitale come lo è rendere luminosi i lati oscuri della vita prima che diventino ombre cinesi tra le casse dei desideri abbandonati.
Quello che è invece davvero pericoloso è raccontare questo amore sostanzialmente assoluto, e non per questioni di mera convenienza o di rispettabilità sociale (i quarant’anni trascorsi da allora si sentono tutti per cinismo e bigottismo), ma perché il racconto diviene materia finita che chiude ogni altra possibilità: un passato che al desiderio amoroso nulla serve, un’autofiction priva di ogni elemento di trasversalità nonostante la retorica che racconta di un’ambiguità virtuosa quando invece è il contenimento di ogni contraddizione l’unico possibile sbocco di una scrittura tanto controllata.
La proliferazione di autofiction sembra infatti proprio percorrere le strade rassicuranti di un passato conformato dentro alle quali ogni discorso, film, libro, saggio o romanzo che sia viene invaso da un desiderio di immortalità che nei fatti è più che altro una pulsione di morte in cui ogni inquietudine viene sostanzialmente addomesticata. L’autofiction prende così la forma di una perenne giustificazione che parte dagli occhi tristi dell’autore e arriva fino ai lettori o spettatori che partecipano così ad una sorta di lavacro di colpe e anche di buone intuizioni miste a pillole di un qualche argomento di volta in volta buono come cornice. Forse l’assenza di un sincero spirito religioso unito ad una sconfortante mancanza di prospettiva intellettuale – data anche da tempi più attorcigliati attorno alla tragedia e al ridicolo – guidano gli autori verso una forma estremamente pudica di autoanalisi. Un percorso tuttavia spesso segnato da un eccesso di drammatizzazione o di superficialità che poco vale soprattutto sul lungo periodo. Opere dunque quelle che vanno sotto la facile categoria di autofiction che si accatastano l’una sopra l’altra generando un passato gestibile, ma irreale. Una strumentazione intellettuale che per paura dell’inadeguatezza piomba nell’inutilità.
La fuga sembra essere l’unica possibilità e il gusto per la sparizione diviene il metodo quasi clinico di cura di una società tanto sovraesposta quanto nascosta ai suoi stessi occhi. Bertrand Morane sapeva che dimenticare non era possibile, che anzi ogni nuovo incontro era frutto di quell’incomprensione che sta tra ciò che è accaduto e ciò che crediamo di ricordare di noi e di quanto è stato, ma ha provato a cristallizzare il tutto, non fallendo perché nel Novecento era possibile ancora non fallire, ma più semplicemente morendo. Perché fermare, immobilizzare vuol dire rinunciare al movimento fatto delle sue catastrofiche seppur spesso minime conseguenze. Nel Novecento si poteva pure cambiare identità o inventarsene una nuova (pensiamo tra gli altri a Romain Gary), oggi tutto ciò ha assunto forme di precariato che nella sua inesorabilità ci regala sprazzi di immortalità.
Oggi non si cambia identità, ma la si dismette all’occasione, siamo in un tempo in cui la fuga è necessaria e possibile anche e principalmente perché nessuno ci insegue, l’autofiction non è che una forma di alibi per distrarre, un modo per lasciare impegnate le persone durante la nostra assenza da una festa, da un invito o nel momento in cui i pensieri attorno ad una tavola sorvolano le teste dei presenti, magari per fermarsi sul collo affilato della ragazza sconosciuta seduta al tavolo vicino che sorride e con gli occhi nerissimi ricorda al nostro cuore – in quel momento spensierato – un poco di mare greco. È in quei momenti che l’autofiction la fa da padrona e la nostra identità sfugge dai nostri corpi anche grazie ad un grado di certificazione che ormai non ci identifica più, ma anzi ci protegge e ci occulta. Nulla è meglio infatti di una carta d’identità o di un passaporto perfettamente legali per scomparire. Nulla è meglio di un documento che certifichi in maniera assoluta che noi sì abbiamo quel nome e quel corpo, quelle intenzioni e quel lavoro. Una tale assoluta assurdità di certezza permetterebbe la fuga a chiunque e infatti così è oggi giorno, ogni giorno e l’autofiction non è altro che il livre de chevet della nostra contemporaneità.
E proprio ora sto scrivendo questo testo in una vecchia latteria di provincia, una via di mezzo tra un bar sport e una bisca semiclandestina i cui arredi sono fermi agli anni Settanta e ricordano certo una Montpellier con le fòrmiche ingiallite e le sedie con le gambe in metallo un poco arrugginite sui bordi. In questo spazio temporale in cui l’astrazione obbligata della scrittura si incontra alla perfezione con la quotidianità dei suoi avventori si fa estrema la precisione di una cadenza immutabile negli anni: io scrivo e loro giocano o bevono. Più che clienti abituali, personaggi veri e propri che impongono quasi un orario al mio lavoro perché difficilmente il mondo o meglio la realtà può piombare con la sua dose di irrazionale imprevedibilità dentro ad un sistema così esclusivo e organizzato. Un foglio bianco perfetto privo però dei vuoti dell’angosciosa solitudine, ma certamente non del tutto impermeabile agli imprevisti.
Succede così che in questo bar entri una ragazza, pochi anni fa (all’incirca quaranta) si sarebbe detto una giovane donna, una studentessa probabilmente intorno ai sedici, diciassette anni. La ragazza ha capelli lunghi e biondi disordinati sulla testa e indossa un parka e anfibi da liceo artistico ai piedi. Consuma un cappuccino che chiede con voce timida e un cornetto che predilige alla crema. I modi attorno a lei cambiano di forma mentre il proprietario si fa cortese. Rivedo nella schiena di lei che si porge verso il bancone, l’irriverenza di quel mondo femminile che mi capitò di rifiutare quando ancora tentavo di frequentare decentemente un liceo (o meglio dovrei dire un qualche liceo). Devo a quella bellezza insopportabile per la sua densità i discorsi logorroici che negli anni ho maturato così come le letture più o meno colte che in realtà non sono state altro che il rifugio della fuga, l’estremo luogo in cui compiere l’unico tradimento possibile, quello che porta lontani dal desiderio per paura e per quell’assalto del cuore che troppo spesso si è incapaci di accettare e che si preferisce invece imparare a gestire.
Guardo la giovane donna che fu pagare e allontanarsi con il passo strascicato degli appena svegli e rivedo il senso di una nevrosi che si potrebbe definire autonomia di pensiero, ma è meglio di no, perché in fondo nasce da quell’estremo tradimento e da quella rinuncia desolante. Potrei in virtù di questo pensiero maturato fino alla soglia dei quarant’anni ricostruire per filo e per segno, definire e votare alla precisione una biografia amorosa, ma al tempo stesso tradirla sotto la forma di una plastica anestetizzante.
L’autofiction ricorda così il potentissimo squalo sotto formalina di Damien Hirst, una cassa da morto trasparente e luccicante che finge la vita con la materia biografica, che rinuncia alla traduzione e allo svelamento infinito per una piatta autocoscienza rassicurante. Qualunque sia la storia, da quella della camorra a quella di un reduce dalla guerra cecena tutto si risolve in uno schema prefissato e preciso. Si dice storytelling, ma anche new journalism ossia tutte quelle storie bellissime e interessantissime in cui nulla davvero conta, in cui lo sguardo di chi scrive rimane immutato e controllato dalla prima all’ultima riga. L’autore prende così in ostaggio il lettore obbligandolo a qualche informazione in più, a qualche inutile conversazione a tavola con gli amici. Aguzzino e ostaggio si ritrovano uniti nell’inutilità imponderabile che si fregia però di un’ammirata concretezza: un taccuino tutto già scritto e quindi a chiunque inutile.
E sbiadisce l’avvertimento di Marguerite Duras di fronte all’incombere dei fatti: «Pensa a quel che c’è fuori dalla camera, alle strade della città, a quelle piccole piazze fuori mano vicino alla stazione. A quei sabati d’inverno tutti uguali».
Bertrand Morane prova dunque a liberarsi dalla solitudine facendo ordine, ma al tempo stesso è costretto dall’abitudine ad inseguire la donna successiva prima di perderla, prima di dimenticarla. I ricordi sono un inseguimento obbligato, non sono altro che un cassetto di vecchi biglietti. Ed è proprio nel momento della costruzione di un ordine che Morane perde l’equilibrio e muore, o meglio scappa via, fugge. Il libro è ciò che resta di lui, ma lui resta enormemente e confusamente nelle donne che compongono il suo corteo funebre. Resta il catalogo vivo e pulsante dei loro corpi e dei loro sguardi che Truffaut attraversa in un elenco che è quanto di più anti narrativo e invece fortemente romanzesco ci possa essere e che subito riportaalla mente una sintesi pazza tra Perec e Robbe-Grillet.
L’uomo che amava le donne dunque si pone come un avvertimento sui pericoli di un’autofiction quasi sempre facile e che vale la pena percorrere solo quando è il rischio del fallimento o dell’inconclusione a guidarla e non per tracciare tracce precise in un mondo confuso e che come tale va vissuto. Oggi Bertrand Morane avrebbe probabilmente l’aria stanca e porcina di Jean-Pierre Léaud, invecchiato male (e quindi bene) e che rappresenta una passione contemporaneamente viva e vissuta. Qualunque rischio vale un inseguimento o un attraversamento con il rosso perché solo la morte in fondo tiene salva la vita e solo l’ingenuità di chi pretende di raccontarla può ridurre entrambe ad un forma amorfa priva di gusto. L’autofiction vive nella pretesa di mostrare tutto, un po’ come le minigonne: «Si rammenta quando, diversi anni fa, sono uscite le minigonne? Gli uomini erano come impazziti. Ma io ero piuttosto preoccupato, perché ho pensato: be’, a questo punto non possono più accorciare, e dovranno per forza allungare».
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.