Ho conosciuto Kobe Bryant nel 2011. Era venuto in Italia in un momento in cui la NBA era in sciopero. E c’erano voci insistenti che lo volevano vicino alla firma di un contratto con una squadra italiana (forse la Virtus Bologna) per giocare tre mesi nel nostro campionato.
Ero andato a intervistarlo all’Hotel Hilton di Roma per «Vanity Fair». L’albergo era assediato di fan, protetto da polizia e guardie del corpo – quelle personali di Kobe: tutti più alti di lui (che già era 1,98), vestiti come Men in Black e con l’auricolare d’osservanza. Venni deportato in una gigantesca sala conferenze tagliata nel mezzo da un tavolo stretto e lungo almeno dieci metri; una sola sedia da una parte, una dall’altra: sembrava il set per un incontro tra Reagan e Breznev.
Kobe entrò, scortato da due bodyguard e da un ufficio stampa, e mi salutò con la sua voce profonda, calda, in un perfetto italiano. Per fortuna, anche a lui venne subito da ridere per quella sistemazione da interrogatorio e suggerì di prenderci le nostre sedie e di spostarle di modo da poter stare faccia a faccia senza il tavolo di mezzo.
Io, ex mediocre cestista negli anni giovanili e appassionato di basket, ero molto emozionato all’idea di dover chiacchierare con l’uomo detto il Signore degli Anelli (cinque titoli NBA coi Los Angeles Lakers); ma il suo soprannome preferito era un altro: Black Mamba, come Uma Thurman in “Kill Bill”.
«Più che un soprannome è il mio alter ego», mi spiegò. «Quando non gioco, sono un tipo a cui piace ridere e scherzare, come adesso. Ma appena scendo in campo divento un’altra persona, il Black Mamba. È un po’ quello che succede a Clark Kent quando entra in una cabina telefonica…».
Gli chiesi dell’origine di quel suo nome così strano, Kobe, come quello della carne giapponese: «Tutto quello che so» mi disse, «è che i miei genitori erano in un ristorante, hanno guardato un menù e si sono detti: ‘Bel nome, Kobe’…».
Suo padre, Joe Bryant, aveva giocato qui da noi dal 1984 al 1991; quindi Kobe ha vissuto in Italia dai suoi sei ai suoi tredici anni. «Di Rieti, Reggio Calabria e Pistoia ho ricordi confusi perché ero troppo piccolo» ammise. «Invece di Reggio Emilia ho memorie molto vivide; ho ancora molti amici lì, con cui mi sento spesso. E poi è in Italia che ho imparato ad amare il basket: la prima pallacanestro che ho conosciuto, che ho visto dal vivo, è stata quella italiana. C’era un giocatore che mi piaceva molto, Alessandro Fantozzi, che giocava a Livorno. Uno fortissimo era Mario Boni, che giocava col Montecatini. E poi, certo, D’Antoni e Meneghin… Amo il basket italiano ed è qui che ho iniziato a giocare. In Italia mi hanno insegnato i fondamentali di questo sport. Quando sono tornato in America a 14 anni, tutti gli altri ragazzini che avevano imparato a giocare nei playgrounds sapevano fare un sacco di giochetti, come i palleggi dietro la schiena, ma non avevano i fondamentali. Io, invece, che li avevo, a imparare quei trucchi ci ho messo poco.»
Bryant non era noto per essere simpaticissimo. Con me lo fu. Ricordo una persona con un carisma pazzesco, di grande intelligenza, con uno sguardo che inchiodava. Ma anche un ragazzo che era genuinamente felice di poter parlare la lingua della sua infanzia e ricordare i tempi in cui non doveva sorreggere sulle proprie spalle un nome e una fama così pesanti.
A 17 anni era diventato professionista senza passare per il college. Una scelta più unica che rara, che dice molto del suo carattere. «Volevo imparare subito dai migliori al mondo» mi aveva spiegato. «Sapevo già che sarei diventato un giocatore della NBA; così, non ho perso tempo e mi sono buttato subito tra i grandi.»
Nel 1999 a Los Angeles arrivò Phil Jackson, il Buddha degli allenatori, carico dei sei trofei vinti coi Chicago Bulls di Michael Jordan. A Kobe dava da leggere dei libri. «Non ne ho mai letto uno!» mi confessò con una risata di cuore. «Mai! Lui lo sa e ci scherziamo sempre su. Comunque Phil è un grande: lo zen applicato alla pallacanestro».
Anche Kobe, quanto a concentrazione, non se la cavava male. Era considerato uno dei giocatori più “letali” nella storia della NBA grazie alla sua capacità di decidere una partita negli ultimi secondi. In quei momenti palpitanti, Kobe riusciva a pensare solamente al gioco, a stare dentro la partita, senza mai pensare alle statistiche e ai record. Tornava il ragazzino che correva sui parquet di Reggio Emilia.
«In America» mi spiegò quel giorno a Roma, «quando sei un giocatore alle prime armi ti insegnano che non devi pensare alle statistiche individuali ma solo al bene della squadra; ma alla fine della carriera tutti guardano solo alle statistiche, alle percentuali di tiro, ai rimbalzi… Non entri nella Hall of Fame se non hai fatto certi numeri. Io, comunque, sono sempre stato un giocatore che non hai mai giocato per le statistiche. A 20 anni potevo lasciare i Lakers e andare a giocare in una squadra dove sarei stato l’unica stella indiscussa e segnare miliardi di punti. Ma ho preferito rimanere a Los Angeles e giocare al fianco di un grande dal quale imparare, come Shaquille O’Neal.»
Di Kobe era nota la sua passione per la storia del basket. In questo era simile a un altro numero uno, Roger Federer, che oltre ad essere un campionissimo del tennis è un vero e proprio amante del gioco e della sua tradizione.
«Nel basket è già successo tutto», mi spiegò. «Se ne conosci la storia è un vantaggio, perché magari stai vivendo in una situazione in cui si è già trovata un’altra squadra e puoi scoprire da loro come hanno fatto a vincere. Ecco perché leggo e studio moltissimo la storia del basket. Questa cosa, ad esempio, mi ha aiutato contro i Boston Celtics nella finale del 2010, quando siamo andati sotto 3 partite a 2. Ricordo che siamo rientrati negli spogliatoi e tutti erano sconsolati e dicevano: «Basta, è finita». Io ho chiesto un attimo di silenzio e ho detto: ‘1988. I Lakers erano sotto contro i Celtics; sono tornati a casa e hanno vinto due partite di fila, prendendosi il titolo NBA. Mi volete dire che loro lo hanno fatto e noi non possiamo? Torniamocene a Los Angeles, vinciamo la prossima e poi vinciamo ancora’. E così è stato.»
In molti paragonavano Kobe a un altro mito dei Los Angeles Lakers, Magic Johnson. «Più che Magic – che ammiro tantissimo – quello che mi ha aiutato di più, però, è stato Michael Jordan» mi disse. «Soprattutto nella prima fase della mia carriera, ci sentivamo spesso: mi ha insegnato molto. Le nostre personalità sono simili, mentre Magic ha un carattere diverso.»
Solo dopo un bel po’, nonostante fossimo seduti da un pezzo uno di fronte all’altro, quel pomeriggio notai che sulla maglietta di Kobe c’era scritto, molto in grande, BLACK MAMBA. Per mia fortuna, comunque, non avevo davanti il terribile supereroe, ma un signore dai modi gentili. Bevemmo del tè e continuammo a chiacchierare ben oltre l’orario previsto. Io avevo portato con me un mio amico, Roberto, e suo figlio, entrambi grandissimi fan di Kobe, e nonostante il divieto impostomi dall’odiosa ufficio-stampa, a un certo punto chiesi a Kobe se potevo farli entrare per un autografo. Il Mamba fu gentilissimo con loro, e si fece dare qualche informazione sul campionato italiano.
Gli chiesi di Obama, con cui sapeva che aveva giocato mentre era Presidente. «È un grande appassionato di basket», mi raccontò. «Anche se purtroppo tifa per i Chicago Bulls.» Dicono che Obama sul parquet non se la cava male. Ma, dopotutto, sarà mai consentito fare fallo al Presidente? «Nooo!» mi disse Kobe, ridendo. «Ecco perché io mi sono messo in squadra con lui: mi piace vincere sempre, ma lui non lo tocco!»
Quando eravamo già ai saluti, mi decisi a fargli la domanda più scomoda. Kobe aveva da poco compiuto 33 anni e quindi era giusto che gli chiedessi se avesse già iniziato a pensare a cosa avrebbe fatto “da grande”. Eravamo già in piedi, e lui mi sovrastava. I suoi occhi s’indurirono. Poi mi mise una delle sue grandi mani sulla spalla, come per appoggiarsi , e mi disse con un filo di voce: «Devo ancora pensarci. So bene come il ritiro dallo sport professionistico sia per molti atleti un vero e proprio trauma. Io sto cercando di capire quale lavoro mi piacerebbe fare quando non giocherò più a basket. Forse qualcosa che ha a che fare col marketing e la pubblicità… Però mi piacerebbe anche lavorare coi ragazzini, insegnare loro la pallacanestro. Fare l’allenatore no, però: mi manca la pazienza. L’insegnamento che spero di aver dato ai miei figli attraverso la mia professione spero sia la determinazione. Di quella ne ho a quintali! Nello sport spesso si perde, ogni tanto si gioca male… Non bisogna mai abbattersi, ma dirsi, convinti: ‘La prossima volta farò meglio’».
È davvero triste pensare che a Kobe Bryant, uno dei giganti dello sport di ogni tempo, il destino abbia tolto così presto la possibilità di continuare a pensare: la prossima volta…
Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.