Cosa direbbe Hercule Poirot leggendo il libro di Pierre Bayard, non è dato saperlo.
Il capolavoro di Agatha Christie, uno dei romanzi più tradotti e venduti nella storia dell’editoria mondiale, viene accusato di averci mentito per un secolo sull’identità dell’assassino. Sulle tracce del misfatto si è messo un segugio molto particolare: un altro scrittore, che aveva già “sabotato” il finale di L’assassinio di Roger Ackroyd, di Il mastino dei Baskerville, e persino quello dell’Amleto di Shakespeare, alla fine del quale l’uomo del dubbio non si sarebbe affatto suicidato come quel buontempone del Bardo aveva voluto farci credere. Con Bayard, saggista, accademico e critico rigoroso, non siamo al puro gioco letterario, tutt’altro: il suo tentativo di forzare i meccanismi narrativi ritenuti a prova di bomba, come quelli del giallo classico – trappola perfetta per definizione, è quello di restituire una libertà perduta al personaggio imbrigliato dal narratore in un plot che gli sta stretto, e di trascinare nella sua fuga per la libertà il bottino più prezioso: il lettore. E se alla fine il compito di Pierre Bayard sia più vicino a quello dell’assassino (nell’eliminare senza pietà certezze secolari di scrittori e lettori) o a quello del detective (nello scoprire le macchinazioni segrete dei loro personaggi) come forse piacerebbe a lui, il lettore potrà farsi un’idea propria.
Nel suo La Vérité sur “Dix petits nègres” una voce di cui non conosciamo l’identità si dichiara responsabile della morte delle dieci persone uccise sull’isola. Si tratta del “vero” colpevole tra i Dieci piccoli indiani?
«Nel mio libro difendo l’idea che i personaggi – letterari, cinematografici, teatrali – dispongano di una forma di autonomia rispetto al loro creatore. Molti romanzieri sostengono d’altronde che a partire da un certo momento i loro personaggi sfuggano al loro controllo. Questa autonomia li conduce, ad esempio, ad avere una vita sentimentale o sessuale sconosciuta allo scrittore, e talvolta, purtroppo, a commettere delle azioni che la morale disapprova, come gli omicidi.
In questo caso specifico, il personaggio dell’assassino prende la parola per esprimere la sua costernazione per il fatto di non essere mai stato sospettato da ottant’anni a questa parte, e per raccontare quello che è successo davvero a Nigger Island».
La struttura del suo libro segue uno schema “tesi, antitesi, sintesi”: la sfida sembra quella di mantenere un rigore logico e filosofico per poi giungere, paradossalmente, al sabotaggio di un meccanismo perfetto quale è sempre stato considerato Dieci piccoli indiani. Non è la prima volta che lei si cimenta con un’impresa del genere. Ci spiega il suo metodo critico-letterario?
«Il mio procedimento si chiama “critica poliziesca”. Si fonda sul sospetto sistematico, e sulla convinzione che nelle opere letterarie, così come nel nostro mondo, non ci venga detto tutto. Si fonda sull’idea, connessa a quella dell’autonomia dei personaggi, che l’autore non sia a conoscenza di tutto ciò che avviene nella sua opera – che è più ricca di quanto lui stesso possa immaginare – e dunque sull’idea che in un romanzo poliziesco possa accadere all’autore di sbagliarsi sull’identità dell’assassino. Nei romanzi polizieschi d’enigma l’interesse consiste nel lavorare sulla questione dell’“accecamento”. L’accecamento del lettore, innanzitutto, perché tutto viene orchestrato affinché egli non veda la verità, nonostante essa sia davanti ai suoi occhi fin dall’inizio del libro. Ma c’è anche l’accecamento dell’autore, dal momento che questa verità gli impedisce di vedere le altre verità possibili che la sua dissimula. In questo, il romanzo poliziesco è un luogo privilegiato per riflettere, ben oltre la letteratura, sul problema dell’interpretazione».
A un certo punto il narratore interrompe la sua ricostruzione per reclamare uno “Statuto del personaggio letterario”. Qual è la ragione di una simile rivendicazione?
«Se accettiamo la mia tesi sull’autonomia dei personaggi, bisogna considerarli come una minoranza a rischio, al pari di altre specie umane e animali: mi auspicherei allora che venga redatta una Carta dei loro diritti e allo stesso tempo dei loro doveri. Perché anche loro hanno il diritto a essere trattati con rispetto, come gli abitanti del nostro mondo, e a non essere sottoposti a trattamenti degradanti. Ovviamente essi hanno anche dei doveri, soprattutto quello di comportarsi in modo responsabile, per esempio senza invadere il mondo reale, come alcuni di loro tendono a fare (Woody Allen ha raccontato questo fenomeno in La rosa purpurea del Cairo)».
La sua opera incita il lettore a uscire dal torpore nel quale i meccanismi narrativi “perfetti” lo fanno sprofondare.
«La critica poliziesca incita ciascun lettore a vestire i panni del detective. Se ammettiamo che l’autore non sa tutto e che i personaggi sono autonomi, davanti al lettore di buona volontà che non vuole farsi fregare da quello che gli viene raccontato si apre un campo d’indagine sconfinato. Con questo spirito è stata creata di recente un’associazione internazionale di critica poliziesca, InterCriPol (intercripol.org), incaricata di completare il lavoro dell’Interpol – mettersi sulle tracce degli assassini impuniti – e più in generale di rilevare tutte le inverosimiglianze che abbondano nei romanzi».
Gennaro Serio è autore di Notturno di Gibilterra, romanzo vincitore del Premio Calvino 2019, di prossima pubblicazione da parte de L'orma editore. Collabora con la pagina culturale del «Venerdì di Repubblica»; suoi articoli sono apparsi su «Repubblica D» e «Il manifesto».