Che cos’è un’enciclopedia in rapporto ad un romanzo che narra delle peripezie e inventa delle biografie immaginarie o ad un saggio che elabora un fluente, continuo discorso critico? Perché scrivere spericolate enciclopedie e non saggi o romanzi tradizionali, se pensassimo che una successione di lemmi si distingue solo graficamente dagli altri generi e che ogni alternativa sarebbe comunque valida? Alle stesse domande Arbasino potrebbe rispondere che alla pari del catalogo, del regesto, del repertorio e dell’elenco in generale la scelta dell’enciclopedia non dipende da una mera questione di vesti grafiche e allude sempre a una particolare interpretazione di tutta la letteratura. In effetti: rispetto ai dogmi della discorsività, dello sviluppo e della gerarchia su cui si basano le forme tradizionali, l’enciclopedia è per lui un’avanguardia naturale, uno stato evolutivo avanzato raggiunto dalla letteratura stessa.
In particolare, come sosteneva Kenner commentando la furia classificatoria di Bouvard e Pécuchet, in rapporto al complesso disegno del romanzo e dei suoi attributi (mimesis, senso, edificazione), il rigoroso ordine alfabetico della forma enciclopedica prolifera in forza di una semplicità «sublimely nonsensical» in cui di per sé nulla è veramente connettibile o edificabile: «the first thing that the alphabetical arrangement does is plunge the entire work into absurdity» (Kenner 1962, pp. 2, 18). Quando legge Kenner alla vigilia del fatidico 1963 Arbasino procede già oltre affiancando ai due copisti, come alunna della stesso principio di «assurdità», la figurina vispa di Alice e i «sublimi nonsensi» della sua storia: «Hugh Kenner, da parte sua, prova ad aprire l’Encyclopaedia Britannica all’inizio del suo studio di Flaubert; e come prima cosa riceve informazioni sulla lettera “A”. Poi sul significato dell’espressione commercialista “A1 at Lloyd’s”. Poi “AA”, “Aabenraa”, “Aachen”, “Aahmes”, “Aal”, “Aalborg”, e tutto il resto. Quindi, una serie di sublimi nonsensi, come una conversazione in Wonderland, magari fra Bouvard e Pécuchet. “Caratteristica dell’Enciclopedia è la sua frammentazione della conoscenza umana in pezzettini ordinati in modo che si possano trovare solo uno per volta. Niente, tranne che nel caso di un richiamo specifico, implica o connette o riconduce ad alcunché; niente corregge nient’altro…» (Certi romanzi, III).
Alla maniera delle planches dell’Encyclopédie, dal cui «didattismo» Barthes vedeva emergere «un surrealismo smarrito» («fenomeno che si ritrova in modo ambiguo nell’inquietante enciclopedia di Flaubert», Barthes 1982, p. 102), l’enciclopedia non mira alla costruzione di alcun discorso, allinea materiali irrelati, liberi, scrive Arbasino, da «quella cara metafora che è il Centro» (Certi romanzi, III): rende manifesto il rovescio della letteratura, che non è il silenzio né la non-letteratura di consumo, quanto piuttosto un disegno che non si compie, un linguaggio che non edifica né costruisce, per poi disperdersi nel vuoto. In Fratelli d’Italia Antonio raccoglierà i suoi appunti in vista del suo romanzo seguendo la stessa logica, centrifuga e dispersiva, in un lessico che sfugge alla morsa di qualsiasi struttura: «Antonio freneticamente lavora su mucchi di fogli in pile siglate “Sogni”, “Letteratura”, “Situazioni”, “Musica”, “Anni Trenta”, “Luoghi”, “Fraseggi”, “Memoria colta”, “Momenti storici”, “Perdita di memoria”, “Depressione”, “Caratteri”, “Mode”, “Grafie”, “Dolòr”, “Conversation piece”, “Collezioni di fiammiferi e saponette”» e così via (Café Society, Fratelli d’Italia). Potenzialmente infinito e del tutto privo di gerarchie, di per sé l’inventario, lo sapeva benissimo Flaubert, apre uno spazio vuoto in cui fluttuano materiali sconnessi da qualsiasi trama: contiene addirittura un principio di follia a partire da un paradossale ma effettivo «rischio della ragione» (Barthes 1982, p. 101), placidamente ignorato dai primi enciclopedisti.
Considerando la ripetuta opera di apertura e di straniamento delle tradizionali forme letterarie, a partire da quelle romanzesche, sembra naturale che la forma enciclopedica sia tanto frequente nelle pagine di Arbasino, come un principio saggistico che disgrega qualsiasi pretesa purezza della narrazione. Quanti «elenchi», «catechismi», «inventari» e «note» (Certi romanzi, III) si incontrano nei suoi romanzi, da Fratelli d’Italia a Super-Eliogabalo. Lo stesso Arbasino ci autorizza in più punti a considerarli «anatomie enciclopedico-ironiche» nel senso stabilito dal «quarto genere» di Northrop Frye: moderne «satire menippee» in cui l’autore esprime «il suo impeto creativo intellettualisticamente», luoghi dove si mangia e si conversa, in cui da «una gran massa di dati eruditi sul tema trattato» si produce una «farragine enciclopedica» (Frye 1969, p. 120).
Sul versante critico i segni di questa particolare vocazione enciclopedica sono anche più evidenti, diventando spesso, paradossalmente, la struttura portante di un testo che rifiuta qualsiasi sistemazione. Ben prima degli sfrenati elenchi di 2008 / Al deposito di La vita bassa, la disposizione per lemmi e l’ordine alfabetico di In questo stato e del Deposito cartacce (Paesaggi italiani con zombi) danno forma a piccoli dizionari aperti sull’attualità italiana. E risalendo ancora nella bibliografia, ci si ritrova di fronte alla summa della critica letteraria di Arbasino, le ormai introvabili Sessanta posizioni: è evidente che oltre ad un «catalogo personale e indipendente di predilezioni e di pietre d’inciampo» (Note a Sessanta posizioni) Arbasino compila la sua privata enciclopedia della letteratura, sessanta voci dalla A di «Theodor W. Adorno» fino alla W di «Edmund Wilson».
Se in tutte queste opere appare come forma elettiva e naturale della sua scrittura, come potrebbe esserlo per Savinio e la sua più esplicita Nuova Enciclopedia, la gestione della letteratura per lemmi e indici ha, secondo Arbasino, una gloriosa tradizione e i suoi precisi modelli. Rinnovata nei secoli da scrittori più interessati all’integrazione di idee in opere prive di centro che alla costruzione di trame e personaggi credibili, la «Linea Enciclopedica» che si snoda attraverso «Petronio e Apuleio, Luciano ed Erasmo, Rabelais e Burton, Swift e Montaigne, Voltaire e Sterne, Renard e Nietzsche» (Certi romanzi, III) e infine Flaubert è forse la più luminosa all’interno della letteratura occidentale, non la sola ovviamente. Al di là della grande letteratura europea, ci dice Arbasino chiudendo perfettamente il cerchio ermeneutico, la Lombardia stessa coltiva una durevole e stravagante tradizione enciclopedica. Questa inizia nel momento in cui il «comasco» Plinio il Vecchio termina la sua Naturalis Historia, «un impressionante repertorio di miti, follie, grullerie, allucinazioni, e scioccaggini» (Malte Laurids Dossi, Certi romanzi). Dopo, la stessa «botanica frenetica della vigna d Renzo e il donchisciottismo bibliografico di Don Ferrante», la deliziosa Arte del convitare del dimenticato Giovanni Rajberti, colma «di aneddoti e brindisi», e le enumerazioni frenetiche di Gadda, di cui Arbasino elegge a modello l’elenco dei «fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre» (Gadda 1989, vol. II, p. 701) dell’Incendio di Via Keplero, sono alcuni dei prodotti di una «folly tesaurizzatrice e classificatoria» tutta lombarda (La Lombardia fantasma, Certi romanzi), al cui vertice si trovano le amatissime Note azzurre di Carlo Dossi.
Impensabili in una letteratura nazionale «che non hai mai avuto un Balzac né avrà mai un Flaubert» (Malte Laurids Dossi, Certi romanzi), le Note sono lo splendente punto in cui si allineano due costellazioni lontane, la grande «Linea Enciclopedica» che va da Petronio a Nietzsche e il piccolo «Filone Insubrico» che corre tra Plinio e Gadda (L’Anonimo lombardo, XXIII): una congiuntura letteraria irripetibile che produce «un improvviso Bouvard et Pécuchet milanese» (Malte Laurids Dossi, Certi romanzi), sempre troppo ignorato anche dai migliori, tra cui lo stesso Gadda.
Di fatto, Arbasino non smette mai di compilare con pazienza le sue voci, andando a capo quando una di queste è conclusa e un’altra, dissonante ed estranea, sta per cominciare. Contraddicendo in pieno le regole basilari del genere (Diderot che per l’Encyclopédie si raccomandava di non andare oltre gli «attributi essenziali» delle voci), anche negli ultimissimi Ritratti italiani, tra «Gianni Agnelli» e «Federico Zeri», entra infatti veramente di tutto: disposti nel solito ordine alfabetico, i ritratti letterari veri e propri sono per lo più uno sfondo su cui tratteggiare resoconti di epoche mitiche e di prime memorabili, letture passate, discorsi sui costumi degli italiani in toni leopardiani, boutades e conversazioni, spunti saggistici e inusuali confidenze autobiografiche, precedute dalle immancabili scuse. Così, il ritratto di Gae Aulenti è anche una lezione sullo spirito del Design milanese e romano, quello di Giosetta Fioroni anche un ricordo della scandalosa Carmen bolognese del 1967, e così via.
D’altra parte, nessuna delle voci è un vero ritratto anche perché nessuno dei personaggi è mai veramente solo sulla scena, nemmeno quando assume la sua posa inconfondibile: né lo sfondo è mai generico o neutro come poteva esserlo nelle Sessanta posizioni, dove ciò che contava era il modello, il suo volto e la sua presenza ferma nell’atelier letterario di Arbasino. Ciò che viene ricostruito e rappresentato nei Ritratti è piuttosto la forma di un rapporto: è ciò che si ottiene affiancando tutti i personaggi al profilo dell’immutabile Bel Paese, come in un doppio ritratto in cui l’Italia diventa la consorte bruttina o la madre invadente che siede accanto, con cui non è possibile non avere a che fare.
Solo in quest’ottica i Ritratti di Arbasino si precisano e possono essere messi meglio a fuoco: sono assai più vicini ai Paesaggi italiani che alle Posizioni, perché nascono dallo stesso sguardo rassegnato e divertito sulle meschinità e i vari ritardi della Penisola. A mano libera e con negligenza da saggista (che aggira la diligenza del romanzo ben fatto e del puro studio sociologico) Arbasino tratteggia una sua personale galleria di agonisti culturali. Sono tutti, almeno in partenza, vittime potenziali o reali della loro italianità, ma molti diventano idoli e forse eroi quando sopravvivono anche splendidamente al rapporto quotidiano e soffocante con quella consorte e quella madre: D’Annunzio, «povero Imaginifico», che «si trova a operare in una Italietta meschinissima che sta offrendo il peggio di se stessa», Delfini, da rivalutare assolutamente «pensando alla vita di uno come lui in un paese che si chiama Italia», Praz che è proprio «uno straniero in patria», De Chirico, che dopo Monaco e Parigi sconta nell’impoverimento della sua pittura «gli effetti di dieci anni di Bel Paese».
Il titolo, dunque, non deve ingannare: Arbasino allestisce una galleria di ritratti più antitaliani che italiani, in cui lo sguardo, per focalizzare un volto memorabile, è costretto a fermarsi sul paesaggio desolato che di solito lo circonda. Chi invece volesse contemplare un ritratto veramente italiano di Arbasino, legga del poeta Arcangelo Elvezio Bustini, in Fratelli d’Italia: un giovane Vate che fino ad un certo punto coltiva un «finissimo gusto asburgico» e ritorna sui sessanta ad essere italiano, prontissimo alle adulazioni e alle recensioni interessate.
In Arbasino l’autocommento puntuale di singoli punti oscuri dell’opera è un fatto rarissimo perché profondamente inutile. Stando agli articoli di un codice strutturalista che egli dissemina e ripete nei suoi saggi, la critica letteraria non si cura di tutto ciò che precede la pagina, dei dettagli, dei particolari, delle occasioni che si staccano dalla vita per generare letteratura: piuttosto «esplora un’opera dimenticando tutte le vicende e le circostanze che si trovano “al di fuori”», ne «saggia temi, sistemi, costanti stilistiche» e «strutture formali» (Mary McCarthy, Sessanta posizioni), ovvero oggetti ricorrenti e sostanzialmente complessi. Non essendo nulla di tutto ciò, l’autocommento che in una pagina di Certi romanzi Arbasino dedica proprio alla figura di Bustini serve quantomeno ad evitare qualche imbarazzo.
Quanti Bustini ha contenuto in effetti dal primo Fratelli d’Italia ad oggi la desolata società letteraria italiana? In quanti si potrebbero riconoscere in quello scrittore sui sessanta, un po’ nevrotico, un tempo famoso, un Vate decaduto e ormai «corsivo, journalese, finto-disinvolto e tutto-fare», più interessato alla «vicinanza dei potenti» che al culto della musa (Conversazioni a Spoleto, Fratelli d’Italia)? E poi quante marchese, rentiers e cicisbei potrebbero pensare, anche con un certo compiacimento, di essere loro le vere fonti di una Gazzaniga, una Desideria, un Christian? Di fatto, di fronte all’ipotesi di un’intersezione e di uno smercio di materiali tra la vita e la letteratura nell’elaborazione dei suoi personaggi, Arbasino dissente, nega il possibile gioco di specchi di scuola realista in base al quale, ad esempio, è sufficiente «ripercorrere le note delle edizioni Garnier di Balzac, per controllare quanti tratti di personcine insignificanti e dimenticate contribuivano alla messa a punto dei suoi personaggi minori» (Certi romanzi, I).
Al contrario dei minori di Balzac, al di fuori della letteratura Bustini non ha modelli o fratelli maggiori: è anche più solo e «fuori luogo» della Baronessa Stefania di Specchio delle mie brame, i cui antenati, se non nelle tombe, riposano almeno nelle pagine («Letteralmente uscita dalle voluttuose pagine del Verga più frivolo e mondano…»). Bustini è sempre e solo Bustini in quanto, ci dice Arbasino, è una pura «idea fissa» in forme semiumane: l’idea «che un letterato conservatore contemporaneo di un certo decoro e di una certa pretesa in Italia debba essere austriacante, abitare nel Lombardo-Veneto, formarsi su fonti mitteleuropee di finissimo gusto asburgico», un «Nuovo Parini che storicisticamente aveva il dovere di esistere nel nostro Paese» e che invece «non è mai esistito» (Certi romanzi, VI). Pur perdendosi come tanti lungo la carriera letteraria e ritornando ad essere da austriacante perfettamente italiano (cioè uno di tanti che «vivono solo di sospiri e gemiti», Poesia italiana moderna, Fratelli d’Italia), in sé il personaggio di Bustini nasce nel vuoto, nella mancanza di una qualche persona. Arcangelo Elvezio Bustini, anch’esso un minore, è un pensiero, una teoria, è una riflessione sconsolata sul corso delle lettere italiane. Come tutti i personaggi di Fratelli d’Italia, anche Bustini è un «mero fagotto di eccentricità, non animato da alcun principio di natura» (Certi romanzi, I). Ma più di tutti gli altri personaggi solo Bustini trova nell’artificiale e nell’inautentico la sua cifra: «una Dafne?… un Marsia? una Marisa?… No: Bustini sconvolto in faccia e anche più nei capelli», «sembra però un Coppelius agganciato ad una bambola meccanica», «somiglierebbe al ritratto di Shakespeare nell’in folio, il vecchio» (Domenica con incidenti, Fratelli d’Italia) e così via.
Alla fine, anche la costruzione di un personaggio e la cura per un qualche messaggio umano che questo potrebbe consegnarci vengono sacrificati al gusto, pienamente saggistico, del riferimento culturale. I turbini dell’«encyclopedic farrago» di Frye investono in pieno anche il povero Vate decaduto: ne alleviano il peso di creatura vivente e pietosa, ne segnano il destino di figura irrisolta, disgregata, silhouette definibile solo per analogia, solo a partire da forme umane o disumane, tra miti, maschere e ritratti. É un destino comune a tanti personaggi di Arbasino, fino al caso limite di Michele di Specchio delle mie brame; all’interno di uno straordinario repertorio di frasi fatte e bêtises tra virgolette («“voce in capitolo”, “gatta nel sacco”, “pulcini nella stoppa”» e «“pan di bocca”», ma anche «“chi va con il zoppo” [sic] e “chi lascia la vecchia”»), lui semplicemente è una sintesi di «luoghi comuni»: «in brevissimo spazio» ne riunisce anche più «del Dictionnaire di Flaubert», il Dictionnaire des idées reçues. Bustini rimane più memorabile solo perché nella sua costante nevrosi e nella sua effettiva pochezza è senza dubbio un personaggio divertente: ma freddo come un automa o come una statua, un punto nel vuoto intorno al quale vorticano schegge d’arte e ritagli di letteratura.
Bibliografia
Arbasino, Alberto, L’Anonimo lombardo, Milano, Adelphi, 1996.
Arbasino, Alberto, Certi romanzi. Nuova edizione seguita da La Belle Époque per le scuole, Torino, Einaudi, 1977.
Arbasino, Alberto, Fratelli d’Italia, Milano, Adelphi, 1993.
Arbasino, Alberto, Paesaggi italiani con zombi, Milano, Adelphi, 1998.
Arbasino, Alberto, Specchio delle mie brame, Torino, Einaudi, 1974.
Arbasino, Alberto, Sessanta posizioni, Milano, Feltrinelli, 1971.
Arbasino, Alberto, Ritratti italiani, Roma, Adelphi, 2014.
Kenner, Hugh, Flaubert, Joyce and Beckett. The Stoic Comedians, Boston, Beacon Press, 1962.
Barthes, Roland, Le tavole dell’Encyclopédie, in Id., Il grado zero della scrittura / seguito da Nuovi saggi critici, Einaudi, Torino, 1982.
Frye, Northrop, Anatomia della critica, traduzione di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, Torino, Einaudi, 1969.
Gadda, Carlo Emilio, Romanzi e racconti, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, Milano, Garzanti, 1989.