Un giorno del 1950 Enzo Pepori, proprietario del ristorante toscano Bagutta, vicino a San Babila, ci venne incontro tutto emozionato. «L’assessore alla Cultura del comune di Milano mi aveva fatto dono di una nuova invenzione, il “registratore delle voci”, perché le nostre storiche cene potessero lasciare un segno per i posteri. Poco fa mi hanno portato i nastri puliti e montati. Senta, senta, Montale, il suo dialogo con Fausto Coppi!»
Una volta al mese si svolgevano al Bagutta serate consacrate a un grande artista del momento, scrittore, pittore, musicista, regista. Ma, eccezionalmente, il gruppo dei fedelissimi aveva insistito per una serata-omaggio a quell’idolo delle masse che da sempre si presentava come “Coppi Fausto”. Vellani Marchi, il pittore che faceva un quadro a ricordo di ogni occasione, sapeva che, passata tutta la vita a pedalare, il campione non aveva presenti i nomi degli illustri personaggi chiamati a fargli festa. «Montali chi?» Vellani Marchi lo istruì facendo da correttore e suggeritore, per cui, al momento dell’incontro con il poeta, Coppi riuscì a esalare tutto d’un fiato: «Se la fortuna mi aiuterà ancora, avrò l’ambizione di essere chiamato il Montale del ciclismo». Immediata la risposta: «Se mi andrà bene, avrò l’ambizione di essere io il Coppi della poesia italiana».
La settimana seguente il registratore si ruppe per sempre, e di un centinaio di incontri si conservarono soltanto quelle due battute. Montale rise e insieme si seccò: quel piccolo episodio, quel tentativo fortunatamente fallito, era un’implicita conferma del suo pessimismo su ciò che si salverà per la Storia: “il futile e il peggio”.
Siamo sicuri che la Storia ci racconti la verità nei suoi minimi e massimi snodi? Ci mostri veramente il senso, l’indole e il carattere dei grandi personaggi del passato? André Gide raccomandava a tutti, letterati e no, di lasciare il più possibile di testimonianze. A distanza di tempo, anche sapere come quel grande affondasse la faccia in una fetta d’anguria può essere rivelatore di qualcosa.
Se ho accettato di raccontare qualche episodio dei quindici anni che ho passato accanto a Montale, da vicino e poi da lontano, è soprattutto perché vorrei mostrare un’immagine diversa da quella del “monumento annunciato” che la superficialità o sovente l’invidia degli altri vedevano in lui. Né i nostri rapporti, che tante volte mi è stato chiesto di raccontare, erano l’incontro di due colti conversatori che a colazione e a cena affrontassero i massimi sistemi. Tantomeno era un rapporto da maestro ad allieva, e, se mai Montale ha visto in me un’allieva, questo non si riferiva alla poesia bensì al canto. Me lo disse chiaramente al terzo incontro, sapendo che avevo preso lezioni dal famoso tenore Zenatello, fondatore delle iniziative canore tuttora convergenti nell’Arena di Verona. Montale, baritono frustrato la cui carriera si era interrotta per la morte del suo maestro Sivori, ora sognava di avere un’allieva. Ma io stavo in una camera ammobiliata, e lui nell’elegante albergo Ambasciatori dove non soltanto non si poteva far rumore, ma nessuna donna poteva salire. Abbiamo tentato di cantare in una chiesa, sopraffatti dall’organo e dalle voci, ma ovviamente l’impresa si rivelò fallimentare e uscimmo soffocando le risate.
Ecco il punto fondamentale: le risate. Raramente mi sono divertita e ho riso come con Montale. In lui l’umorismo, il comico andavano in profondo, anche quando si incarnavano in piccole situazioni o minimi personaggi. C’era sul fondo una certa curiosità o angoscia delle aporie, delle gaffe, la benedetta svista, “lo spiraglio che butta un lampo sulla scorza delle convenzioni e della buona educazione forzata, base del nostro comportamento fin da bambini”. Certe sue frasi, o pezzi di frasi che io captavo al volo, potevano apparire sciocche o incomprensibili a un orecchio qualsiasi. Un piccolo esempio, risalente ai miei primi anni di Milano, ’50 o ’52: io andavo in piscina e Montale veniva a prendermi a mezzogiorno. Mi ero appena arrampicata dalla scaletta dopo un tuffo e lui mi dice: «Anche oggi l’acqua ti reggeva a galla?». La giornalista che ha riferito questa frase l’ha trovata molto banale e con ironia ha commentato: «L’alto pensiero di un poeta». Ma era da collegarsi all’“aria di vetro” di una delle sue poesie più note. Sì, poteva succedere, per un diabolico deragliamento, che l’acqua venisse meno alla sua natura, che si facesse vuoto, incapace di reggere un corpo. Come poteva succedere all’uomo che inavvertitamente si volta, e scopre alle sue spalle l’inesistenza di alberi e case, uno scenario di carta sbriciolato. Questo guizzo, questo lampo, non era certo tale da venir rilevato in soldoni fra noi due, e tutto il commento che potei fare alla sua frase, di cui solo qualche secondo dopo lui si accorse, si esaurì in un’occhiata complice e in un sorriso.
Questo brano è tratto da Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, Mondadori, 2011.
Maria Luisa Spaziani, poetessa e francesista, è morta ieri, 30 giugno, nella sua casa romana all’età di 91 anni.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).