«I write about where I am in life.»
Difficile decifrare questa frase, pronunciata da Alice Munro nel corso di un’intervista a Peter Gzowski alla CBC Radio nel 1987. «Scrivo di dove sono nella vita» è la traduzione letterale. La frase è insieme essenziale e criptica: quel «dove» si riferisce al tempo o al luogo? quel «vita» è la vita dell’autrice o la vita in generale? Senza dubbio è un esempio di quella «purezza» che l’autrice ambiva a raggiungere. Una purezza che non è affatto sinonimo di chiarezza, o di trasparenza, o di semplicità, eppure è tutte queste cose insieme. Con un buon margine lasciato all’ambiguità. La stessa che contraddistingue i suoi racconti, il suo stile, così chiaro, trasparente, semplice. Sempre solo in apparenza.
Eppure l’uso che l’autrice fa di materiale autobiografico, le fasi della sua carriera, difficili da identificare con precisione ma contraddistinte da spostamenti geografici, cambiamenti stilistici, passaggi dal realismo all’uso dell’ipotetico, del possibile e dell’immaginario, sembrano indicare che la sua frase vada proprio interpretata alla lettera. Alcuni critici hanno sottolineato il fatto che i personaggi dell’autrice, soprattutto quelli femminili, sembrano evolversi, crescere, invecchiare insieme a lei, da una raccolta all’altra: dall’infanzia, alla giovinezza, all’età matura, all’avvicinarsi della vecchiaia, alla comparsa della malattia, del fantasma della morte. Ciascuno di questi temi, come e dove la Munro li tratta, richiederebbe un lungo saggio a sé. Non è difficile, però, vedere come e dove tratta quello della maternità, limitato, forse marginale, in teoria: in realtà prevalente, pervasivo, ossessivo. E cronologicamente congruo.
Lo dimostra, a sorpresa, uno degli ultimi racconti della scrittrice, apparso nel «New Yorker» del 19 settembre 2011, e parte della raccolta eponima, pubblicata nel 2012. Si intitola Uscirne vivi, e il settimanale lo inserisce nella sezione «Personal History». È dichiaratamente autobiografico e, se vogliamo interpretare alla lettera la frase sopra citata, possiamo ipotizzare che Alice Munro, arrivata a ottant’anni, un’età in cui la memoria evoca il passato lontano meglio di quanto non registri quello recente, o l’immediatezza del presente, stia scrivendo proprio di «dov’è nella vita». Vale a dire del momento in cui i ricordi d’infanzia si fanno più vividi. Il saggio rivela in tutta la sua crudeltà un episodio che l’autrice aveva già raccontato, travestendolo e spostandolo su Rose, la protagonista «inventata» di Botte da re. Proprio il primo racconto di Alice Munro pubblicato dal «New Yorker» nel marzo del 1977, trentacinque anni prima.
In Botte da re, Rose viene punita per aver sfidato Flo, la matrigna. La punizione è impartita dal padre, su richiesta di Flo: qualche cinghiata sulle mani, schiaffi in faccia, spintoni contro il muro e ancora schiaffi e calci, altri calci quando Rose è a terra; Flo si spaventa, si pente, accusa il marito di avere esagerato, poi segue Rose in camera da letto, prima per spargere un unguento lenitivo sulle ammaccature, poi con un vassoio di leccornie del tutto eccezionali nel ménage della famiglia. La Munro descrive nei dettagli il rituale della punizione, poi, con altrettanta precisione e introspezione psicologica, il misto di furia, dolore, umiliazione, vergogna, risentimento, ma anche di sicurezza, conforto e trionfo, che Rose trae dalla ripetitività del rito. In Uscirne vivi, invece, l’autrice delinea brevemente la stessa scena, reale, questa volta, un ricordo d’infanzia. L’atteggiamento di Alice bambina veniva definito «rispondere» ai rimproveri della madre, non della matrigna: «Il mio atteggiamento la feriva, diceva lei, e prima o poi andava a raccontare tutto a mio padre che lavorava nel fienile. A quel punto a lui toccava interrompere quel che stava facendo per venire a picchiarmi con la cinghia (un castigo abbastanza comune a quei tempi). Dopo le botte, me ne stavo a piangere a letto, organizzando la fuga da casa. Ma anche quella fase passò, e diventai un’adolescente mansueta, allegra, perfino, nota per il modo divertente in cui raccontavo cose sentite in giro per strada o incidenti di scuola».
Poi in Uscirne vivi, come niente fosse, la Munro prende a rievocare altre scene d’infanzia, episodi realmente accaduti e fino a quel momento sepolti nella memoria, o comunque non ancora usati come materiale narrativo. Non è difficile ipotizzare, tuttavia, che proprio quelle crudeli punizioni corporali – così frequenti, e comunemente accettate, negli anni Cinquanta del secolo scorso, e non solo nel Canada rurale – siano una delle cose che l’autrice non è riuscita a perdonare alla madre, nella realtà come nei racconti, per tutta la vita. Forse inconsciamente, finora, o forse volutamente. Ma il breve, laconico, distaccato racconto autobiografico suona come una confessione: spariti il risentimento e la vergogna per la violenza subita, il ricordo diventa uno dei tanti, evocato con lo stesso pudore, la stessa ritrosia che l’autrice mostra sempre quando parla di sé, e di «dove è nella sua vita».
In occasione dell’attribuzione ad Alice Munro del premio Nobel 2013 per la Letteratura, pubblichiamo un brano del saggio introduttivo al Meridiano Mondadori dedicato alla scrittrice canadese.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).