I romanzi di Elsa Morante

da | Dic 30, 2015 | Senza categoria

Dall’incontro dedicato ad Elsa Morante presso la Casa Museo Alberto Moravia, un articolo di Lucia Dell’Aia sulla scrittura narrativa della Morante, seguito da una selezione di passi dei romanzi. L’articolo è l’incunabolo per una versione successiva più ampia.

La madre e il desiderio inesausto.
Sulla scrittura di Elsa Morante

In una recensione all’ultimo romanzo di Elsa Morante, Aracoeli, uscita sul «Corriere della sera» il 14 novembre 1982, Franco Fortini precisava che, «senza dubbio, quest’opera è fatta per chi sa che cosa è stata, finché è esistita, la letteratura». Secondo lui, infatti, la nostra scrittrice non ha alcun rapporto con «quegli attivi coboldi che abitano e animano i corpi di alcuni nostri degnissimi scrittori viventi» e nemmeno con quelle scritture che vengono redatte «con educato cinismo da astuti gnomi esperti in re-writing, pubbliche relazioni e ricerche di mercato; e che allegri se la ridono della plebe ancora pagante».

Non è impresa semplice definire che cosa sia la letteratura, ma abbiamo la certezza che la scrittura di Elsa Morante possa essere ascritta al suo territorio, se è vero che la grande letteratura di ogni tempo è quella che si confronta con i massimi problemi fondativi della specie umana e lo fa mediante una ricerca stilistica che riesce a rendere vive, e significanti in modo sempre nuovo, le forme che la tradizione ci ha consegnato.

Morante, la «grande solitaria» travolta da un «vento di assoluto», secondo Fortini, è sicuramente uno dei massimi scrittori del Novecento, più o meno distante dalle ricerche letterarie coeve, prima fra tutte la neoavanguardia. Questa sua eccentricità non è, però, da intendersi secondo il mito romantico dell’originalità e della genialità, dato che la sua scrittura, pur senza essere epigonica, è saldamente ancorata ad una tradizione che ella stessa non ha mai nascosto.

Tale tradizione affonda le radici nelle grandi narrazioni omeriche, bibliche, evangeliche, della Bhagavadgītā, dei romanzi cavallereschi, del romanzo ottocentesco, senza dimenticare la tradizione della lirica (fino agli amati Saba e Penna) e i testi filosofici, da Platone a Weil alla sapienza orientale. A trenta anni dalla sua morte, molti, e spesso validissimi, sono gli studi che si sono raccolti intorno alla sua opera, e molti di questi hanno impresso una svolta importante proprio nella direzione dello studio filologico e della ricostruzione del significato storico-culturale delle sue fonti.

Ciò che contribuisce in modo significativo a fare delle opere di Morante dei classici è la loro leggibilità, la loro apertura verso l’alterità del lettore. Tale discorso non vale solo per il romanzo La Storia, che, nel 1974, per volontà dell’autrice stessa, uscì in una edizione economica ed ebbe moltissimi lettori. Tale leggibilità è una caratteristica di tutti i suoi scritti e, probabilmente, in particolare, dell’Isola di Arturo, forse il suo capolavoro assoluto. Non trasformare le opere d’arte in virtuosismi di stile incuranti dei significati umani contenuti nella poesia è il principale tratto della poetica morantiana. In essa la parola, pur esibendo il suo carattere di menzogna, finzione, illusione, non è mai evasione fantastica dalla realtà, ma concreta costruzione di significati nel linguaggio altro della affabulazione mitica, che restituisce una conoscenza delle cose che si oppone a quelli che ella definisce i “mostri dell’irrealtà”, tipici dell’inganno illusionistico delle società capitalistiche dello spettacolo.

Vent’anni dopo l’uscita della Storia, Gabriella Sica ha definito molto suggestivamente Elsa Morante, nel titolo di un suo saggio, “Grande Madre del Novecento”. Il mito della Grande Madre è forse la più potente immagine della scrittura morantiana, e tale presenza non è riconoscibile soltanto nel tema della madre, declinato in diversi modi in tutti i suoi romanzi. Il mito della Grande Madre nella sua scrittura investe il problema poetico stesso, le questioni, cioè, legate alla parola che tenta di dare vita all’esistente, di plasmarlo, di accoglierlo.

È noto ai lettori e ai critici di Morante il ritornello del Mondo salvato dai ragazzini: «Tutto questo in sostanza e in verità non è nient’altro che un gioco», il quale nella Storia diventa «uno scherzo». E sono altrettanto note le conoscenze che Morante possedeva dei miti antichi, anche di quelli delle culture orientali. La sua biblioteca dimostra in maniera certa questo suo significativo interesse. Il «gioco divino» della parola di cui parla Morante reca con sé memoria, fra le altre possibili suggestioni, della poesia mistica medievale in sanscrito che onora la divinità generatrice (Tripurā) nelle diverse forme della Grande Madre, una delle quali è Lalitā (La Giocosa).

Alcuni inni di lode alla Grande Madre tratti da Il mistero di Tripurā o La dottrina segreta di Tripurā, un testo di carattere speculativo, mitologico e rituale composto fra l’XI e il XVII secolo, possono farci comprendere il legame profondo che in Morante esiste fra il tema della maternità e il tema della ricerca della parola poetica. Uno dei suddetti inni a Tripurā recita così: «Tutto questo universo è prodotto dal tuo gioco divino, è il respiro della tua parola primeva». In un altro testo si legge: «Tu sei la Signora che ha per sua forma il significante e il significato, invero tu sei l’essenza di ogni cosa». Infine, in questi ultimi versi da noi selezionati ci si rivolge alla Grande Madre in tal modo: «Desiderosa di salvare gli esseri dall’oceano del dolore, tu mostri molte, eccellenti vie di salvezza». (Per la traduzione dal sanscrito ci siamo avvalsi dell’edizione del testo curata da Fabrizia Baldissera nel millennio Einaudi L’universo di Kama).

Al tema della madre, quindi, si intreccia saldamente quello della parola che deve generare la realtà: si ricordi, del resto, il verso iniziale della poesia Alibi: «Solo chi ama conosce». Come Morante scrive in Aracoeli, «la più nera infelicità terrestre» è quella «di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama». Nell’Isola di Arturo al protagonista, che vive la solitudine e la nostalgia struggente di sua madre, morta per metterlo al mondo, appare quasi in forma di visione (sotto le vesti della matrigna, la sposa-bambina Nunziatella) una figura di divinità oceanica che ricorda Teti, la madre di Achille, che, nel XVIII libro dell’Iliade, apparendo sulla riva del mare, lo consola dalla disperazione per aver perso l’amico Patroclo.

Molte sono le figure di madri consolatrici in Morante: da Alessandra in Menzogna e sortilegio a Ida nella Storia (e la pastora Bella) fino a Immacolatella, la cagna di Arturo a cui egli si stringe quando più sente la mancanza di sua madre, che per lui «significava precisamente: carezze». Ma altrettanto significativa è la presenza nella sua scrittura della profanazione di questo mito, da Anna in Menzogna e sortilegio fino alla vera e propria parodia del mistero mariano in Aracoeli.

Nell’Isola di Arturo è il padre del protagonista, Wilhelm Gerace, allegoria della parodia, come lo ha definito Giorgio Agamben, a farsi portavoce dell’attacco contro le donne e contro le madri. Per noia, per capriccio, egli che è, e vuole essere, uno scandalo, racconta una «sgraziata fiaba» di uomini che odiano le madri, le quali non amano la felicità, ma solo il sacrificio che le immola all’esistenza dei propri figli, che sono il loro unico universo. Come il cugino Edoardo in Menzogna e sortilegio, il padre di Arturo è il Capriccio che sconvolge uno stato di quiete e di certezze, è la contraddizione che sempre sta al fondo dell’universo dei personaggi morantiani che sono spesso mossi da desideri irrealizzabili.

Attraverso l’ambiguità, «senza cui nulla piace» (Menzogna e sortilegio), e grazie allo scandalo, allo “sgambetto” della parodia, l’universo di Elsa Morante ispira quel «desiderio inesausto» che, secondo De Sanctis, la poesia di Leopardi accende in petto: «mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande» (Schopenhauer e Leopardi).

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Nel primo passo che segue, tratto da “Menzogna e sortilegio” (1948), a parlare è la giovane protagonista Elisa, voce narrante del romanzo, che ricostruisce la storia della sua famiglia, fin dagli eventi che hanno preceduto la sua nascita, grazie al suo unico e fedele compagno, il misterioso gatto Alvaro…

Prima di tutto, i miei genitori mi lasciavano un enigma. La loro morte era stata preceduta da alcune circostanze che, pur non essendo, invero, a riguardarle con mente adulta, né straordinarie né favolose, tali erano apparse a me bambina. La vicenda della mia famiglia, col passare degli anni, rimaneva per me indecifrabile, e certi documenti e testimonianze, da me conservati, non me la spiegavano, ma la rendevano anzi più arcana, poiché offrivano un ricco lavoro alla fantasia. La fugace apparizione dei miei genitori, durata per me quanto durò l’infanzia, era stata d’una specie tanto conturbante che, in seguito, la mia memoria trasformò il loro dramma piccolo-borghese in una leggenda. E, come avviene ai popoli senza storia, su questa leggenda io mi esalto.

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Dal romanzo “L’isola di Arturo” (1957), la descrizione ammirata che Arturo fa del padre e del suo mistero che lo rende quasi un personaggio divino (2.1). Segue un brano sulla madre di Arturo, di cui il ragazzo possiede solo una foto e che egli trasfigura nella memoria, sentendone la mancanza struggente (2.2 e 2.3). Poi i passi in cui Arturo, osservando la sposa-bambina del padre, Nunziatella, ha la visione di una madre consolatrice che ricorda la figura di Teti così come appare ad Achille nell’“Iliade” consolandolo dopo la morte di Patroclo (2.4). Infine, un passo in cui parla il padre di Arturo, Wilhelm Gerace, che per noia e per capriccio lancia strali contro le donne e le madri, dando vita ad un controcanto parodico dell’intera narrazione (2.5).

2.1. La prima ragione della sua supremazia su tutti gli altri stava nella sua differenza, che era il suo più bel mistero. […] Anzitutto egli primeggiava fra gli isolani per la sua statura. […] Oltre alla statura, poi, lo distinguevano dagli altri i suoi colori. […] in ciò quasi il segno d’una stirpe non terrestre: come s’egli fosse fratello del sole e della luna. […] Lui non faceva mai parola sulla vita fuori dell’isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell’esistenza misteriosa, affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare. Il mio rispetto della sua volontà era tale che non mi permettevo, neanche in pensiero, l’intenzione di spiarlo, o seguirlo, di nascosto; e non osavo neppure d’interrogarlo. Volevo conquistare la sua stima, e magari la sua ammirazione, sperando che un giorno, finalmente, lui mi avrebbe scelto per suo compagno nei viaggi.

2.2. […] mia madre. La quale, in se stessa, non era altro che una femminella analfabeta; ma più che una sovrana per me. […] Figurina stinta, mediocre e quasi larvale, ma adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza.

2.3. Ma talvolta, specie durante le sere, quando mi ritrovavo solo fra i muri di una stanza, e incominciavo a rimpiangere la madre, per me madre significava precisamente: carezze. Sospiravo il suo corpo grande, santo, le sue manucce di seta, il suo fiato. Il mio letto, nelle notti d’inverno, era freddo e gelido: e per riscaldarmi, io non avevo che addormentarmi abbracciato con Immacolatella. […] Ad ascoltare la ragione, sapevo che tutto quanto restava di mia madre era rinchiuso sotto terra, nel cimitero di Procida. Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto, io, per lei, credevo addirittura in un paradiso.

2.4. Allo spegnersi della lampada, un fioco riflesso lunare si svelò nella stanza, attraverso le vetrate polverose. Io mi sdraiai supino in terra, pigramente. Intravedevo, al di là del mio corpo disteso, l’ombra seduta della sposa, come una statua; e guardavo, con la testa rovesciata, la opaca finestra alle mie spalle, immaginandomi la figura sottile della luna nuova che là dietro il vetro discendeva il sereno come lungo un filo. Il buio nella stanza durò solo pochi secondi; ma in quei pochi secondi io tornai, d’improvviso, a rivivere un mio ricordo. Esso apparteneva a un’esistenza che io dovevo aver vissuta in tempi lontanissimi: secoli, millenni prima, e che solo adesso mi risaliva alla memoria. Sebbene non tutto chiaro, era un ricordo così veridico e certo che per un poco mi rapì al presente! Mi ritrovai in un luogo assai lontano; quale fosse il paese, non so. Faceva una notte chiara, ma in cielo non si vedeva la luna: io ero un eroe, e camminavo lungo la riva del mare. Avevo ricevuto un’offesa, o soffrivo di un lutto: forse avevo perduto il mio più caro amico, è possibile che me lo avessero ucciso […]. Chiamavo qualcuno, e piangevo, disteso sulla rena; e appariva una donna assai grande, che sedeva su una pietra, a un passo da me. Era una bambina, ma pure aveva, in tutta la persona, una maturità maestosa; e la sua misteriosa infanzia non pareva un’età umana, ma piuttosto un segno di eternità. Ed era proprio lei che io avevo chiamato, questo è certo; ma chi ella fosse, ora non sapevo più ricordarlo: se una divinità oceanica, o terrestre, o una regina legata a me da parentela, oppure una veggente…

2.5. Io non so che farmene, del sentimento delle femmine. Non lo voglio, io, l’amore vostro. […] Il mio antenato, che sta pittato qua, su questo ritratto, diceva che una femmina è come la lebbra: che quando ti si attacca, vuole mangiarti tutto intero, brano a brano, e isolarti dall’universo. L’amore delle femmine è un malaugurio, le femmine non sanno amare. […] Almeno […] dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre, chi ti salva? Essa ha il vizio della santità… non si sazia mai di espiare la colpa d’averti fatto, e, finché è viva, non ti lascia vivere, col suo amore. […] Ah, è un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né se stesso, ma soltanto te! […] In realtà, essa vorrebbe sempre tenerti prigioniero, come al tempo ch’era incinta di te. E quando le sfuggi, tenta di irretirti da lontano, e di dare la propria forma a tutto il tuo universo, per non farti mai scordare l’umiliazione d’essere stato concepito da una donna!

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Questo brano è tratto da “La Storia” (1974): la voce narrante onnisciente racconta un sogno della protagonista Ida. Il sogno, come recita una epigrafe del romanzo, da una poesia di Marina Cvetaeva, rimanda all’idea dell’essere «imponderabile in un mondo di pesi, dismisura in un mondo di misure».

Quella notte, dopo tanto che non sognava, [Ida] ebbe un sogno. I suoi sogni, per solito, erano colorati e vividi, ma questo invece era in bianco e nero, e sfocato come una vecchia foto. Le pareva di trovarsi all’esterno di un recinto, qualcosa come un terreno di rifiuti in abbandono. Altro non c’era che delle scarpe ammucchiate, malridotte e polverose, che parevano smesse da anni. E lei, là sola, andava cercando affannosamente nel mucchio una certa scarpina di misura piccolissima, quasi di bambola, col sentimento, che, per lei, tale ricerca avesse il valore di un verdetto definitivo. Il sogno non aveva intreccio, nient’altro che quest’unica scena; ma per quanto lasciato senza séguito, né spiegazione, sembrava raccontare una lunga vicenda irrimediabile.

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L’ultimo romanzo di Elsa Morante è “Aracoeli”, 1982. Nel passo che segue la voce narrante è quella del protagonista Manuele, mentre cerca di seguire le tracce del mistero materno, nel suo luogo di origine in Andalusia, El Almendral.

Fra i vari, possibili beni, di cui la gente è ghiotta, io, per tutto il mio tempo, domandavo quest’unico: d’essere amato. […] Io fin da ragazzino udii che El Almendral non era un mandorleto (come pretende il suo nome) bensì una sassaia bruciata dal vento. Però quella sassaia nasconde – invisibile ad occhi estranei – il mio giardino d’amore. […] Per la prima volta ho sperimentato la più nera infelicità terrestre: di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).