E.T. – Mentre leggevo questi due splendidi «Meridiani» dei Romanzi e racconti di Arbasino, iniziando con il tuo saggio introduttivo e poi affrontando quell’immensa Cronologia, mi sono venuti in mente, quasi per contrasto, tempi molto diversi dai nostri. Niente che avesse a che fare direttamente con Arbasino, ti confesso. Pensavo a quando eravamo ancora molto giovani, tanto che ancora vivevamo nel mito delle avanguardie, e passavamo molti pomeriggi a frugare nelle bancarelle, nelle pile dei libri da «Remainders». Come le generazioni che ci avevano preceduti, cercavamo, magari ingenuamente, di farci un’idea attendibile di ciò che era nuovo, ‘assolutamente moderno’. Nel tuo primo libro, hai evocato quei tempi con un simbolo, un totem urbano che tutta la gente della nostra età che viveva a Roma si ricorda – la Lampada Osram di piazza dei Cinquecento, tra i capolinea degli autobus di fronte alla stazione. Un luogo di appuntamenti, di attese. Ebbene, anche in un’epoca così remota, Arbasino già c’era come un classico. Quella prosa era un magma in continua evoluzione, ma nascondeva in sé una tensione opposta, aveva i crismi del classico, un «Meridiano» annidato nelle sue fibre. Lo si capiva anche solo leggendo sulla «Repubblica» una di quelle incredibili cronache di spettacoli che noi non avremmo mai visto, tanti anni dopo confluite in Marescialle e libertini. Ma non era un classico nello stesso modo in cui Gianfranco Contini aveva stabilito che Pizzuto era un classico. È una cosa che riguarda il cosiddetto culto, non gli studi accademici – l’archetipo di questa specie di popolarità, mi sembra, è il successo di Fitzgerald in determinati ambienti, sia in America che in Europa. Credo che molta di questa autorevolezza dipenda dal centro del magma, cioè da Fratelli d’Italia, perché in quella storia di un’estate «senza capo né coda» Arbasino ha catturato un simbolo potente, come sempre sono potenti, in letteratura, gli itinerari iniziatici, le vicende di trasformazione. Ma tu che hai scritto delle ricchissime note per ogni libro raccolto in questa edizione, ripercorrendo la storia editoriale e quella della critica, che idea ti sei fatto, in proposito?
R.M. – La Lampada Osram era un luogo insieme fisico e simbolico. Ed è anche un’eccellente metafora della letteratura di quegli anni, tra fine anni settanta e inizio degli ottanta. Perché, proprio mentre si guardava a un’opera, a un autore, avvenivano gli incontri più imprevisti. E certamente Arbasino era lì in mezzo, non l’Arbasino dei libri di Feltrinelli, che eravamo troppo giovani per ricordare, ma quello Einaudi. A quei tempi inizia anche a collaborare alla «Repubblica». Del senso dell’opera, come se ne può parlare oggi, avevamo però una specie di percezione obliqua, indiretta. C’erano dei veri e propri seguaci, tra i nostri coetanei che iniziavano a scrivere. Il caso più lampante è Tondelli, libri come Un weekend postmoderno non sarebbero concepibili senza l’esempio di Arbasino. Bisogna considerare la memorabilità di questa prosa – delle singole frasi, delle singole definizioni. Come dei brandelli che si impigliano in una rete. Da questo punto di vista c’è una reale somiglianza con Flaiano, anche lui autore di una scrittura che non si percepisce mai nella sua interezza. O la si percepisce dopo, al tempo delle edizioni complete. I frammenti prevalgono sull’intero sistema, complice lo sminuzzamento del discorso nella stampa quotidiana, sui settimanali. Allora, il Pizzuto di Contini è l’esatto contrario, perché lì il presupposto era un’eccellenza assoluta, e dunque un rispetto, da parte del critico, degno di Dante. Invece leggere Arbasino su «Repubblica» voleva dire entrare concretamente in un terreno di stimoli, di curiosità…Io per esempio ho imparato ad amare l’ultimo Strauss, attraverso certi suoi articoli, la cui lettura arrivava insieme a quella dei saggi bellissimi di Glenn Gould raccolti in L’ala del turbine intelligente…
E.T. – Io mi ricordo benissimo un articolo rivelatore sull’epistolario di Strauss e Hofmannsthal…
R.M. – Uno che mi aveva proprio colpito era quello su Nixon in China di John Adams. Era come un manifesto: un novecento per così dire tonale, dopo il disordine dell’avanguardia. Personalmente è questo il novecento che mi interessa: l’ordine dopo il disordine, la Nuova Oggettività, lo Stravinskij neoclassico, Cocteau…Penso che l’esperimento a un certo punto debba terminare, l’idea di protrarlo a oltranza mi mette a disagio. Nello stesso tempo il disordine va pure attraversato…Mi sembra che Arbasino abbia compreso perfettamente, e incarnato nella sua scrittura, questa doppia anima della modernità: distruzione e costruzione.
E.T. – Nel primo volume dei «Meridiani» ho trovato qualcosa che non mi aspettavo: riproponete la prima versione di Fratelli d’Italia, quella del 1963. Nella tua nota al testo, non ti rimane che rendere conto del prodigioso lavoro di riscrittura, che approda all’edizione Adelphi del 1993. È molto interessante l’aspetto quantitativo che metti in luce: passando per l’edizione intermedia, quella del 1968, ci troviamo a un testo triplicato per mole, se non sbaglio. Questa è una contesa abituale tra gli arbasinofili: qual è la forma migliore del capolavoro? Io sono un estimatore convinto dell’ultima edizione: mi piacciono tutti i rigonfiamenti, e quel pulviscolo di frammenti finali che fa pensare all’estremità della coda di una cometa. Ma la vostra scelta fa pensare. In fondo, non è un semplice passo indietro. Trasformate la prima versione in una versione successiva (e forse definitiva), come se tornando alla sua forma originaria il testo, anziché semplicemente regredire, andasse avanti…Bisogna ammettere che è un bel paradosso, come se a un certo punto Ariosto avesse deciso di ripubblicare l’Orlando furioso del 1516 dopo quello del 1532…
R.M. – Sono d’accordo, ma accentuerei ancora di più l’aspetto paradossale della situazione: c’è un autore che riconosce contemporaneamente due versioni della stessa opera. Non credo che in questo ci siano dei precedenti. Non c’è stato insomma un avvicinamento a un maggiore valore estetico. Le due opere hanno un uguale grado di riuscita. E nella volontà dell’autore convivono. Dal mio punto di vista, la riscrittura a volte cancella quel senso di presa diretta della prima edizione, che è evidente in piccoli capolavori come La narcisata o La controra. Quella famosa capacità di catturare il linguaggio corrente, insomma, può diventare meno evidente. D’altra parte la trama, coi suoi aspetti anche patetici, rimane la stessa.
E.T. – Questo è vero, il testo del 1993 risulta inevitabilmente più scritto, possiede meno quella che Barthes chiama «la grana della voce». Parlando del suo trattamento dell’oralità e della conversazione, Arbasino ha sempre manifestato gratitudine per Ivy Compton-Burnett, che è anche uno dei mostri sacri delle Lettere da Londra… A me fa anche molto pensare alla letteratura beat, a certe cose di Burroughs, ma a parte i modelli è certo che nell’edizione del 1963 si sentono proprio le voci, a partire da quella del narratore, fin da quel bellissimo inizio con loro che vanno a Fiumicino…
R.M. – C’è un’idea corrente di Arbasino come di uno scrittore essenzialmente devoto allo stile. Io non sono per niente d’accordo. Certo anche lui contribuisce all’equivoco, perché i suoi maestri dichiarati sono grandi sperimentatori, come Longhi o Gadda. Ma è davvero questo il tratto dominante della sua opera? A me sembra molto più l’ascolto, per esempio, la capacità di captare la conversazione, la chiacchiera. Quel tipo particolare di rumore sociale. Fratelli d’Italia, nella sua prima versione, è un libro scritto a rotta di collo. L’orecchio è agile, capta facilmente i modi di dire, i riflessi condizionati, le abitudini sociali…
E.T. – Mi sembra che, pur riscrivendo così sistematicamente, ad Arbasino importi poco documentare tutto il processo. Conta il risultato finale, le tappe intermedie e il lavoro di lima rimangono ben nascosti.
R.M. – È incredibile che proprio lui non abbia imparato a lavorare con il computer. È la sua stessa forma mentis che è digitale! Pensa solo a una funzione come il «taglia e incolla», che è quasi l’emblema del suo modo di procedere, per esempio dagli articoli ai libri. E invece, il suo artigianato è tutto basato sugli strumenti tradizionali ormai quasi scomparsi – la carta, le forbici, la colla. Ma è vero: a differenza dei suoi illustri predecessori e dei loro critici più accreditati, Arbasino tiene in pochissimo conto il processo variantistico in sé e per sé, la famosa «approssimazione al valore» di Contini e dei suoi seguaci. Certo, necessariamente c’è un lavoro, una fatica. Difficilmente il primo getto rimane soddisfacente. Ma perché bisogna mostrare, documentare tutto il processo? Questa avversione così decisa per i cosiddetti scartafacci mi ha sorpreso. Per me, mi ha detto spesso Arbasino, si può cambiare fino all’ultimo giro di bozze, ma è come cambiare le scarpe! Il suo è uno sforzo laico, di semplice ricerca di efficacia linguistica, l’elaborazione non è mai sopravvalutata, sacralizzata.
E.T. – Esisteva una volta un genere letterario completamente neutro: la cronologia degli autori, che si stampava all’inizio del libro, dopo l’introduzione. Spesso era un lavoro nemmeno firmato, redazionale. Poi Cesare Garboli ebbe un’intuizione: trasformare la cronologia in opera d’arte. E così venne fuori quella stupenda su Pascoli. E anche l’altra, meno conosciuta, su Soldati. Adesso si può dire che tu e Arbasino, lavorando assieme alla cronologia dei «Meridiani», abbiate fatto un ulteriore passo avanti. Tutti i lettori di questi Romanzi e racconti ne sono rimasti impressionati: forse per il tono, forse per la ricchezza delle informazioni…
R.M. – Per fare di questi due volumi una sorta di congegno funzionante, c’era bisogno di trovare un inizio e una fine. La fine era abbastanza obbligata: abbiamo ristampato quella parte di Fratelli d’Italia che appare per la prima volta nell’edizione del 1993, Condizione del dolore. È un ripensamento finale, la chiusura di un’esperienza durata trent’anni. Ma l’inizio della storia? È quello che raccontiamo nella cronologia. Chi apre Le piccole vacanze si rende ben presto come la guerra sia stata importante, nella formazione della sensibilità di Arbasino. Ebbene, abbiamo cercato di raccontare tutte le circostanze da cui prende le mosse l’opera scritta, e in seguito le si accompagnano. All’inizio Alberto non voleva nemmeno pensarci, sostenendo che in fondo le vite…sono tutte uguali! Sulla base di un’impalcatura, siamo andati avanti aggiungendo centinaia di singole notizie. Col passare degli anni e il progredire dell’attività di giornalista e di scrittore, diventa – in molti lo hanno notato – impressionante il numero degli eventi culturali: le letture, le mostre, i concerti…
E.T. – Diciamola tutta: leggendo la vita di Arbasino, ci sembra di non aver combinato nulla! Avremo visto un millesimo di quelle mostre, ascoltato un millesimo di quei concerti…
R.M. – E ci credo! Ma qui ci troviamo di fronte a una vita che in qualche modo si mette integralmente a servizio dell’opera, attraverso una devozione costante ai suoi oggetti. Quando Arbasino dice di avere ascoltato cento esecuzioni importanti di Hindemith, si tratta di altrettanti tasselli preziosi, insostituibili di una conoscenza che poi sarà sintetizzata in questo o quell’articolo. Riguardo al senso di povertà che uno può provare confrontando un anno qualsiasi della sua vita a uno di Arbasino, sospetto che dalla cronologia venga fuori quasi un’idea sperimentale della vita: la replicabilità è sostanza dell’evento, la quantità si trasforma in qualità. E poi, c’è anche la passione per l’evento in sé: parte per Berlino alla caduta del Muro, o ascolta l’ultimo concerto di Celibidache…sempre facendosi la stessa domanda – dove accade la Storia? Vado e vedo.
E.T. – Anche dal racconto della propria vita, inoltre, emerge una vera e propria passione per il dettaglio significativo. Fa venire in mente una bellissima considerazione di Proust, in una lettera del 1919: «c’est à la cime même du particulier qu’éclôt le géneral». I famosi aneddoti sono come un mosaico di dettagli, potenzialmente infinito. Anche in senso ironico o addirittura dissacratorio. A volte basta solo il lampo di un’immagine ben scelta: in queste settimane si è molto riparlato di Isherwood, per il film tratto da Un uomo solo, ed ecco Arbasino puntuale che lo ricorda mentre si aggira su una spiaggia californiana…con una palla che gli spunta dal costume!
R.M. – Ma anche tanti incontri di Parigi, o cara! funzionano così! Il mostro sacro va sempre dissacrato, sembra fatto apposta per questo. Nel Montale giornalista a volte c’è qualcosa del genere. Ma ovviamente Arbasino ha investito molte più energie in questo genere di prosa. Il dettaglio e l’aneddoto, poi, sono gli ingredienti essenziali di un’arte del ritratto, continuamente approfondita, rimodulata. L’ispirazione è sempre la stessa – una forma costante di curiosità umana, che poi, però, si adatta a un’infinità di tecniche particolari: il ritratto appena schizzato, come a matita, che occupa magari lo spazio di poche righe, e quello più complesso, ‘a olio’ potremmo dire, come nel libro su Gadda.
E.T. – All’inizio di questa nostra conversazione, hai ricordato Tondelli, e il suo debito con Arbasino. Nella tua introduzione ai «Meridiani», citi anche un racconto di Silvia Ballestra, degli anni novanta, ironico ma pieno di ammirazione sincera. Ma vorrei aggiungere almeno un terzo esempio, Su Mantegna di Giovanni Agosti, che nonostante sia un’opera di grande filologia, prende esplicitamente le mosse (oltre che dal Pasolini di Petrolio) da Fratelli d’Italia, e in particolare dall’episodio della mostra padovana di Mantegna e Crivelli. Insomma, ho la sensazione che i nipotini di Arbasino siano ancora più numerosi di quelli di Gadda! Mi sembra un caso molto raro tra gli scrittori della sua generazione, questa fortuna tra le generazioni più giovani. Certo, ci sono Pasolini, La Capria, Parise, Elsa Morante, Calvino… ma in tutti questi casi l’ammirazione prevale sull’imitazione, invece con Arbasino si è spesso tentati di scrivere come lui, di percorrere sentieri simili…
R.M. – Soprattutto il confronto con la fortuna di Pasolini è illuminante: esiste uno scrittore meno pedagogico di Arbasino? Non trasmette valori, insegnamenti morali. Non è un didatta. Semmai, è uno scrittore fortemente etico, in conflitto perenne con quella fama di frivolezza. E poi, un altro aspetto inedito di questa fortuna, è la varietà dei campi in cui si può riconoscere: esistono narratori arbasiniani, ma anche critici d’arte, scrittori di cose musicali…
E.T. – Certo, con l’andare del tempo si è anche insediata stabilmente nella prosa di Arbasino una nota malinconica, una continua laudatio temporis acti – il mondo si è troppo involgarito ai suoi occhi, ci si diverte di meno, c’è meno abbondanza di oggetti d’ammirazione.
R.M. – Indubbiamente, soprattutto negli articoli di giornale, c’è questa nota malinconica. Per noi che siamo più giovani, sarebbe veramente difficile condividerla in quanto tale. Ma a questo proposito, direi che il dato culturale non è puro, si mischia con un normale fattore psicologico. Lavorando alla cronologia, mi sono reso conto perfettamente che non è un rimpianto indiscriminato per il passato. Per esempio, il mondo lombardo dell’infanzia e dell’adolescenza è ripensato con un ironico distacco. Semmai, il senso di un mondo perduto riguarda gli anni successivi all’arrivo a Roma – quando ancora è uno studioso di diritto internazionale, e la vocazione letteraria non si è cristallizzata completamente.
E.T. – Molto tempo dopo, leggendo una biografia di Caravaggio, Arbasino si divertirà a incontrare un suo omonimo in una lista di scapestrati che ne facevano di tutti i colori, a Roma, col favore della notte…Caravaggio è un po’ l’archetipo dell’artista provinciale che arrivando a Roma inserisce una tessera decisiva nel mosaico del suo destino. Come per Arbasino, per tantissimi scrittori importanti del novecento il trasferimento a Roma è un detonatore fondamentale, la vera scuola in cui si impara ciò che bisogna sapere del mondo: è così per Flaiano, per Pasolini, per Sandro De Feo, per La Capria…
R.M. – Ma anche per Gadda, dopo gli anni infelici a Firenze. Quanto ad Arbasino, indubbiamente un progetto di romanzo-conversazione come Fratelli d’Italia deve per forza attingere a un determinato modo di conversare, che è molto ‘internazionale’ ma anche – contraddizione solo apparente – molto ‘romano’.
E.T. – Ci avviamo verso la fine di questa conversazione, ma vorrei ancora chiederti cosa ti ha insegnato, questo lavoro così minuzioso e impegnativo sui testi di Arbasino. Più che le idee e le ideologie della critica, che si possono indossare e smettere come dei soprabiti, secondo me sono proprio imprese del genere, che costringono a mettere le mani in pasta, a rendersi conto di effettivi processi di scrittura, che hanno il potere di insegnare ancora qualcosa – o sbaglio?
R.M. – Guarda, sono tentato di risponderti con una battuta, ma meno effimera di quello che può sembrare: mi sono reso conto di quante cose, importantissime per i critici, per gli scrittori…non lo sono affatto! Già ti ho fatto l’esempio delle famose varianti. Ma più in generale, il rapporto con la stessa nozione di testo è mille volte più feticistico da parte dei critici che degli scrittori. Ovviamente, la grande fortuna è quella di lavorare con un autore che è vivo, che ti può comunicare il suo punto di vista. Non per assumerlo totalmente, altrimenti del critico, del curatore, non ci sarebbe nemmeno il bisogno. Ma dialogando è possibile trovare un punto di equilibrio, una migliore approssimazione a ciò che è effettivamente utile. È possibile insomma ricalibrare l’intero rapporto con la macchina, il procedimento letterario. Se ha ragione Céline, che Arbasino cita in un una nota preliminare, quando dice che il suo «lavoro bestiale giù alle macchine, tra nafta e carbone, non deve importare al passeggero che ha pagato la crociera e se la gode sul ponte», al critico non resta che dare uno sguardo alla sala macchine, e descrivere. Ma con discrezione, lasciando che la crociera vada. Un testo è essenzialmente un manufatto, e questa idea umile contiene già in sé tutta la nobiltà necessaria.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).