Era anche per il gusto di mettersi in viaggio nel crepuscolo d’agosto e giungere a destinazione a notte fonda, mentre le stelle si allineavano a piombo, mentre tutto pareva immerso nel sonno. Era per il piacere definitivo di entrare in un nido di ombre e a queste abbandonarsi, senza più il brusio discorde delle voci umane.
Era venuto di lontano, ma era venuto. Il pensiero del ritorno, che dapprima sbatteva cieco contro i miei intendimenti, a sorpresa aveva cominciato a condizionare la stessa comprensione del mondo. Anni prima – non importa quanti – avevo salutato le grotte e le montagne dallo spiazzo di ghiaia in cui si prendeva la corriera. Tutto d’un tratto dissi addio al freddo che corrode le facciate delle case e pieghetta i volti degli uomini. D’un tratto, con una fretta sconsiderata, mi avviai verso un posto qualunque che avesse il mare vicino, quel mare d’altri che da bambini guardavamo dai parapetti della montagna figurandocelo nostro, benché fosse molto diverso dalla pozzanghera che avevamo da presso e che, riflettendo il colore del cielo, imitava l’azzurro del mare. Non tornerò più, dissi fra me, mentre nel frusto della corriera mi allontanavo dal buio di quegli inverni precoci. Non tornerò indietro, dissi all’ultima luce in fondo alla strada che zitta tremolava per il freddo. Infatti non tornai.
Fu solo quando i risentimenti cominciarono a diradarsi, e i volti gli odori i suoni passati a sbracciarsi, come per farsi largo; fu quando la lenta agonia dei luoghi bui e solitari – che sempre mi aveva stomacato a morte – fece la sua ricomparsa incendiata dal raggio di una sensazione benigna; fu allora insomma che le rupi mi tornarono in mente non cupe ma bianche, più bianche dei fogli sopra i quali ne tracciavo il profilo.
Non saprei riferire perché, ma un bel mattino – con la stessa fermezza che aveva determinato la mia partenza – morì di subito il proposito di non tornare più indietro. E fu in quella prospettiva, all’improvviso desiderata, che stetti a meditare solo un poco, finché non resistetti più. Ficcai due o tre vestiti in un sacco, una provvista di cibo e una torcia, e lasciai la mia buona città di mare, a bordo di una utilitaria color verde pastura.
Illanguidita com’ero dai ricordi, rapita dall’ineffabile dolcezza del viaggio à rebours fino al paesello che ora si presentava alla mente tutto nuovo e lucente, mi sembrò che ogni altra partenza – con le strade che avevo percorso e le piazze in cui ero entrata – non fosse che un giro vizzo intorno a quell’unica via del ritorno.
Il viaggio a ritroso verso i luoghi in cui avevo visto ricavare materassi dalle lappole cominciò a sera, mentre il sole estenuato andava a spegnersi nello sciacquio pigro del mare. E doveva necessariamente includere una sosta in un altro confuso abbandono, poche miglia a ovest del paese cui ero diretta: comunque andasse, ero decisa a passare per Roscigno vecchia – il borgo esploso nell’abbandono che avevo visto per l’ultima volta il giorno prima della partenza – dato che proprio là avevo lasciato il chiavistello di casa, sepolto nel fontanile della grande piazza degli olmi. Sicché avrei fatto un viaggio nel viaggio, con l’approdo in un posto ritorto che aveva fiutato la morte e ora faceva con me come il diavolo con i sacrileghi, dicendo loro di andare e quelli vanno. Dopodiché, avrei anche potuto proseguire fino ai risentimenti di mio padre, venati di disprezzo, e al viso di mia madre, perennemente atteggiato nella posa dei sopportadolori.
Arrivai all’imbocco della strada che porta alla sorgente del Sammaro nell’oscurità completa, appena rotta da una bava di luce sfuggita al serraglio del monte sulla luna. Rimasi il più a lungo possibile su quell’erta per dove non passava nessuno; sapevo che poco dopo, prendendo a sinistra, venivano i tornanti e poi la breve sterrata fino al pontile di ferro, proprio in mezzo al fiume. Ma non era quello il ponteggio a cui dovevo arrivare. Era dalla gola del fiume – una spaccatura calcarea con impressionanti pareti a picco sulle pozze – che cominciava il sentiero verso Roscigno, appena oltrepassato un secondo ponte, stavolta di cemento.
Presi una tazza dal sacco di tela e cercai sul sedile posteriore dell’auto la borraccia piena dell’acqua che veniva dalla città di mare. Bevvi con l’avidità di un congiurato che ha le ore contate; vuotai la tazza come se un’orgia di odio mi afferrasse la gola al modo di tante mani che la tenevano stretta. Quasi ogni notte della mia vita di prima avevo meditato sulla fuga dalla desolata e fredda solitudine del paesaggio che era tutta la mia visione. Quasi ogni notte seguivo il fascio luminoso dei fari di un’automobile in lontananza, fino alla confluenza con le luci delle città che, sebbene elettrificate e ossessive, erano puro splendore se guardate dal ciglione di un villaggio sperduto. Può darsi che la faccenda non fosse seria come allora mi sembrava, ciononostante era la più urgente, e se pure ignoravo ciò che avrei fatto, sapevo benissimo ciò che non avrei fatto: non sarei restata, questo era certo; e come guardando una carta di navigazione cercai nel palmo della mano i solchi della pelle, le righe che indicassero una via d’uscita dal trappolone.
Il sentiero era percorribile a fatica per le colonie di erbacce e sterpaglie che vi si erano stabilite e moltiplicate a dismisura. Nei fossi scavati dall’acqua, la terra ogni poco si sgretolava e si riuniva in piccole zolle piene di baionette di ortiche, in modo che sotto la luce dei fari l’effetto era quello di un prato gramo e appena vangato. Afferrai la maniglia dello sportello e ingranai la terza, che non entrò. Riprovai, ma il motore diede in una specie di scoppio; tornai in prima, poi in seconda, infine con uno scossone la terza entrò. Proseguii senza rallentare, come se sfuggissi a inghiottitoi più cupi e affamati di quello che avevo davanti. In un momento mi parve di raggiungere la poderale che da qualche parte doveva avere appese le indicazioni per il viottolo sottostante, che era il passo prima di Roscigno vecchia. Mi fermai e frugai intorno con lo sguardo. La mia ostinazione invincibile a cominciare il viaggio all’imbrunire, per giungere poi a destinazione di notte, mi si riproponeva ora con lo stesso trabocco acido di un cibo cattivo. Dovevo uscire dall’auto con il solo aiuto della torcia e farmi avanti in quella radura che il silenzio rendeva vasta come una steppa. Da una siepe sbucò all’improvviso una gatta; era bella grossa e levò un lamento eccessivo, direi plateale, quindi si ripulì gli occhi con una zampata e corse a stendersi sopra il parafango lucido dell’auto. Guardai di nuovo intorno e di nuovo non vidi che artigli di vegetali e stoppie. Quando era accaduto tutto questo? Avevo davanti un finimondo di erbaccia fredda e coperta di brina, un tramestio infernale di insetti sopra e sotto le falci di foglie piegate su se stesse come anime in penitenza. Ne udivo finanche il respiro: roco. Non si sentiva altro, a parte il fruscio di qualche fronda che ondeggiava su altre fronde. Per un semplice impulso mi avvicinai a quel che restava di un graticcio sotto il quale si sentiva gorgogliare dell’acqua. Scostai il mucchio di lamelle che lo aveva assoggettato ed ecco apparire un cartello, tutto annerito e mangiato dai vapori della notte, ma in modo starei per dire artistico, dato che era rimasto uno spiraglio entro il quale, come su una tela di Magritte, si stagliava l’indicazione ‘Roscigno vecchia’. Tornai in fretta all’auto e mi stupì la gatta che era ancora là, raccolta nel suo panneggiato manto di grasso, tranquilla. Per allontanarla, sfoderai la torcia e le gettai negli occhi un fiotto di luce, ma quella ne risentì assai poco e si ridistese con pacatezza di padreterno.
– Va’ via! – le gridai – Via, ho detto!
Ma il suono della mia voce, anziché atterrire la gatta, tornò a me aumentato, come se in un momento la mia stessa voce si fosse riempita di forza e s’incaricasse di fornirmi un ammonimento: quel Va’ via, pieno di risonanze, sembrava ora rivolto proprio a me. Subito afferrai la gatta per il grasso eccedente della collottola e la cacciai nell’auto, dove si appiattì fra i due sedili davanti; quindi ripresi il viaggio verso Roscigno, scomparendo nel buio di quella notte da lupi.
L’ultima volta che l’avevo visto era stato al mattino, sicché il vecchio borgo mi si offrì come un’apparizione, tanto pareva incantato. Una luce di patina greco antica – non so indicare un altro luogo in cui la luce abbia mai avuto quell’effetto – colpiva i frontoni delle case mezzo crollate, le vie verso il monte franate, finanche il cimitero con una sola lapide, ridotto a pascolo di cani. I morti, che fino a una dozzina di anni prima vi erano stati sepolti, d’un tratto se ne erano andati, appesi al collo degli ultimi parenti, di modo che questi smettessero di tormentarsi cercandoli là dove non si trovavano. Ogni cosa, ogni cosa in quella valle di calcinacci si mostrava spennellata di luce prodigiosa, colpita da uno sfavillio che smagriva perfino la putredine del legno marcio, il terrificante aspetto delle finestre sfondate, le adunate dei muschi con il loro fracasso. Intorno alla grande piazza degli olmi, oltre la grande chiesa sconsacrata che le veniva dirimpetto, c’era un intrico di vicoli in progressivo ritiro, adorni di scolorate insegne di botteghe e fucine. Sopra le botteghe insistevano le case, con le enormi assi che qualche parete crollata lasciava intravedere, assieme alla povera mobilia, come le cassapanche in cui s’immaginava ancora coricato qualche panno di corredo, oppure la culla di legno che si vedeva sopra la fucina del fabbro, grossa e con le giunzioni in ferro, adatta a ospitare un bambino come anche una buona scorta di legno. Tutto ciò che restava del paese era un declivio che aveva ingaggiato una sua personale lotta contro il rodìo insistente del suolo, contro la frana che era la minaccia due volte secolare con cui avevano convissuto gli abitanti, almeno fino a quando non fu intimato l’abbandono definitivo del borgo. Del resto, il sindaco era stato chiaro: il trasferimento doveva avvenire al più presto per non incorrere in spese per il disseppellimento di cadaveri di molto superiori a quelle richieste per il trasloco. Sicché, l’uno via l’altro, quelli che nel frattempo non erano emigrati si trasferirono a monte, sopra una porzione di terra meno compromessa dai traffici sotterranei delle acque. Non tutti, in realtà. Qualcuno restò. D’altronde, la frana non era mai stata il peggio: il peggio era la miseria, invincibile e perpetua, che c’era sempre stata, come la frana. E, anzi, pareva che si muovessero insieme, che insieme mimassero una danza macabra. Il paese dirupava, e gli abitanti si indebitavano per i muri caduti e i solai sfondati da ricostruire almeno una volta all’anno. Si addestrarono, in breve, a sopravvivere fra pareti accidentate, a non far caso a un quieto stile di terremoto che fluttuava sotto i loro piedi. Quando poi anche gli ultimi resilienti se ne andarono e sulle prode dei fossi cominciò a crescere l’erba, restò colei che non volle saperne di spostarsi, che non fu mai pronta a lasciare la sua casa declinante, nemmeno quando lo scricchiolio delle travi e un clop clop continuo l’avvertirono che l’acqua era ormai dentro. Né parve interessarsi ai fossi nel pavimento, così simili a risucchi della terra che cominciava a tirare in basso ciò che forzatamente era stato spinto in alto. Dorina resisteva – dietro le faticava un vecchio cane, tutto duro dai reumi – mentre intorno le pietre si lasciavano colonizzare dai muschi, dalle violaciocche, dal cardo selvatico, come un medicamento. Restò fino all’ultimo, morendo di vecchiaia nella sua casa tremolante.
Era quasi mezzanotte quando giunsi al piazzale del paese dove era possibile fermare l’auto, ma mi ci volle un po’ prima di decidermi a uscire. La gatta, ridestatasi di colpo, sembrava avere tutta l’intenzione di seguirmi fino alla piazza degli olmi, nella cui fontana speravo di ritrovare il chiavistello. Una volta scese dall’auto, per l’incalzare del buio che era assai opprimente urtammo l’una con l’altra, con la stessa malagrazia di due fiacconi gonfi d’acquavite. Per fortuna, la piazza distava da noi sì e no cento passi, sicché preparai la torcia a inquadrare quello scorcio splendido, sopra il quale sapevo che si affacciava la casa che era stata di Dorina.
Dovevo in qualche modo ammettere che, per quanto mi ammazzassi di rivolte contro il presentimento di trovarmi a casa, erano già casa quelle vie scassate e rimaste uguali, la pazzia sorda della notte, tutta quella placida esposizione di morte. Come al grido di una vedetta, ero accorsa con tanta precipitazione, e ora il vuoto che avevo portato con me si congelava un’altra volta nell’immobilità di ciò che mi circondava.
Illuminai la piazza e scorsi la fontana che continuava a gettare acqua. Degli olmi uno era sopravvissuto, intatto: era una macchia di verde smisurata che moltiplicava la sua linfa, era una furia capelluta e scarmigliata nelle vesti di un luogotenente del tempo. Gli altri olmi erano poco più di un cencio, con i rovi ai loro piedi che quasi li inghiottivano. Puntai la torcia sulla casa di Dorina, e per poco non mi prese un colpo: ecco l’eterna dimora che si faceva vedere sgraziata, eccola in mostra come una bocca spalancata e sdentata. Il tetto, che evidentemente non aveva retto a un’altra stagione di piogge, si era consegnato al suolo, alla sua fiorente collezione di morte. Con il crollo del solaio la casa s’era sventrata tutta, esibendo senza ritegno le quattro masserizie restate al suo interno. Mi venne addosso una specie di sfinimento: la notte penetrava in quell’antro umido, senza più bisogno di cercarsi aperture. Sui resti vulnerabili della casa sarebbe venuto l’inverno e poi di nuovo la buona stagione, sarebbero venuti i venti e di nuovo le scrosce di pioggia, ma la luce no, non li avrebbe toccati, lasciandoli bocconi sul pastone della terra.
Guardai l’ora, era appena mezzanotte. Di lontano venne il gracidare nevrotico di una rospa. Mi sedetti a terra e portai le gambe al petto, per poggiarvi la testa. Faceva freddo, come può far freddo in questi luoghi quando vuole, anche d’estate. Mi raccolsi nel maglione e decisi che sarei restata là, a struggermi in un torbido rimescolio di sentimenti. Fu in quel momento che la gatta cacciò un nuovo lamento, questa volta così acuto che non potei fare a meno di alzare la testa e, seguendo il suo sguardo, di voltarmi verso la piazza che, deserta e buia fino a poco prima, si era ora popolata, rischiarandosi come a una festa di paese. Mi tirai su e mi feci avanti. Sotto l’olmo c’era gran fermento, qua un venditore di fiori di campo, là un chioschetto con le cedrate fresche. Nei pressi di un portale di pietra c’erano due sedie con delle cassette di ortaglie adagiate sopra; un donnone con un fazzoletto nero stretto intorno alla testa gridava Verzura fresca! Erbe mediche!
Riuscii appena a farmi di lato quando un lungo corteo si formò proprio sotto i miei occhi e fece ala al passaggio di due uomini. Domandai chi fossero i due che avanzavano in un tempestoso baccano che induceva molti alla fuga; Briganti! Briganti! mi venne risposto. Subito si udirono mormorii, poi arrivò il fragore di uno scontro e l’eco degli evviva si contrappose alle imprecazioni. Qualcuno alzò la voce e inneggiò ai liberatori, qualcun altro invece tirò fuori una forca. Gli animi si scaldarono, le ragioni degli uni e degli altri offrirono una dimostrazione di persuasiva imponenza.
A questo punto la gatta, seduta ai miei piedi, emise uno sbuffo e sbadigliò mostrando la cinta perfetta dei denti. Nella piazza continuarono a sovrapporsi le voci, qua Banditi! Cani! Malfattori Venduti!, là Liberatori! Paladini dei contadini! Veri Ribelli! Poi d’un tratto si fece silenzio, mentre una vaga oscurità si posò sui volti degli uomini e delle donne che un istante prima si accaloravano nella contesa. Sotto i miei occhi stupefatti, il corteo si sciolse e ciascuno si ritirò per dove era venuto, come se non importasse più a nessuno della battaglia e delle ragioni di questi o di quelli.
Sbalordita e forse anche impaurita, decisi di cercare riparo nell’antro della chiesa che era senz’altro aperta, dato che era sconsacrata e con i santi tutti consunti. Come fui sotto al sagrato, scorsi una donna dai capelli biondissimi intenta a parlare con una vecchia che aveva una gerla issata sopra la schiena. Mi avvicinai lentamente, con la gatta che mi strisciava dietro.
– Mi scusi – chiesi alla donna, non appena posò gli occhi su di me – potrebbe dirmi cosa sta succedendo nel paese?
– C’è gran fermento – rispose lei alla svelta, come se avesse fretta.
– Lo vedo, – feci io – ma non era un paese abbandonato?
– Si guardi intorno – disse, indicandomi con un dito la piazza e subito dopo stringendosi in uno scialle color gola di piccione – le sembra forse un paese abbandonato?
– Ma andiamo! – replicai, visibilmente contrariata – Fino a un minuto fa vedevo solo case mezzo crollate, erbacce che si moltiplicavano rigogliose, ovunque solo abbandono. Non vorrà farmi credere che, in queste case esplose, in un attimo è tornato ad abitarci qualcuno?
– Il paese non è mai stato più abitato di ora – concluse grave la donna, riportando lo sguardo sulla vecchia, che intanto aveva levato i suoi vecchi occhi al cielo, come scocciata.
– Ma non è possibile – ripresi io – In questo posto non vive più nessuno da chi lo sa quanto tempo. Se tornassi domattina, troverei solo rovine e capelli rimasti fra i sassi, o lacci di scarpe confusi con le nervature delle foglie, e sedie e tavoli schiantati…
– Mia cara, la sua ingenuità mi commuove. Il gagliardo forestiero che per caso giunge al borgo da subito lo crede disabitato, e può darsi che tale si mostri ai suoi occhi sensati e rigorosi, ma le assicuro che la vita e il movimento continuano a svolgersi tranquilli. Se lo faccia dire dalla polvere che il tempo ha maniacalmente sparpagliato. Tenda una mano, non le tornerà vuota.
– Lei è pazza o si fa beffe di me!
– Ah, può darsi che sia così. Però mi dica, non le ho forse gridato di andarsene quando era ancora sul sentiero?
– Sicché era lei. Dove si era nascosta? E, soprattutto, come ha fatto a precipitarsi quaggiù dal quel buio pesto?
– Che dirle? Io non mi sono mossa di qua.
– Mi stia a sentire: fino a un istante fa qui non c’era proprio nessuno, tantomeno lei.
– È una menzogna, mia cara, una menzogna. Sospetti pure di ciò che vede ma non lo faccia con ciò che non vede.
– Ma dico, cos’è tutto questo? Un circolo di matti, un raduno mistico? Fra poco dalla chiesa verrà fuori un santone che, agitando le mani, ci esorcizzerà tutti?
– Vada via, mia cara. Non ci insolentisca.
– Sono venuta per il chiavistello. Appena l’avrò trovato me ne andrò, non resterò un minuto di più.
– Oh sì, certo, il chiavistello – fece la donna, portandosi una mano al petto e traendone un laccio di cretonne sotto il quale stava appesa la mia chiave – Tenga. E ora faccia il favore: vada vada vada – e, guardandomi un’ultima volta, accompagnò ognuno dei quei ‘vada’ con un gesto molto simile alla mossa con cui nei cortili si ricacciano bruscamente le più sciocche fra le galline.
“Gite d’autore” è un progetto curato da Andrea Cirolla.
Il primo racconto, di Francesca Serafini, è qui.
Quello di Roberto Amato qui.
Quello di Massimo Raffaeli qui.
Seguiranno testi di Valentino Ronchi, Emmanuela Carbé (con la collaborazione di Francesco Pecoraro) e Francesca D’Aloja.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).