Se l’occhio è lo specchio dell’anima, nel mondo di Julian Opie ogni anima può avere il medesimo specchio, indistinguibile dagli altri: un semplice punto, un tondino nero con al suo interno, là dove l’occhio brilla, un piccolo foro bianco. Ci può essere rappresentazione più anonima e sintetica per questo centro di gravità permanente dello sguardo? Probabilmente no, e nondimeno a essa sempre si attiene l’artista nei suoi ritratti. E da sempre l’effetto è sorprendente. Malgrado si sforzi di ridurre i tratti somatici ai minimi termini, le sue facce non soltanto sono diversissime una dall’altra, hanno anche una loro precisa personalità, un’anima. Il lato sorprendente non consiste nella diversità. Nella logica formale di Opie, non è l’interno delle cose, il volume, a determinare la forma, bensì il contorno, il confine, tutto astratto, che separa una cosa da ciò che la circonda. Questi ritratti si reggono dunque sulla linea che disegna l’ovale di un volto e sul taglio dei capelli. Quel che dovrebbe determinare il carattere di un viso – l’insieme di occhi, naso e bocca; un insieme restituito con parsimonia di punti e linee – diventa quasi superfluo una volta definito l’ovale. E in effetti, se provassimo a eliminare dalla vista quell’insieme, magari soltanto coprendolo con una mano, se provassimo a guardare i volti di Opie soltanto per il loro ovale, vedremmo che mantengono intatta la loro personalità, la loro sorprendente unicità. Sono piatti, eppure vivono. E non soltanto ci paiono vivi e li distinguiamo uno dall’altro; ci sembra anche di indovinarne l’età e persino l’indole, l’umore. Tutti quei misteri che solitamente ci inducono a scrutare il volto di una persona e che si manifestano nelle espressioni, nel mutare di occhi naso e bocca, vengono d’improvviso dirottati ai margini, al contorno dell’ovale. Sul sito della Lisson Gallery, che rappresenta Opie sin dagli inizi, egli viene descritto come uno dei più significativi artisti della sua generazione. Quanto alle sue preoccupazioni, allo scopo della sua opera, si parla invece di investigazione dell’idea di rappresentazione e dei mezzi attraverso cui le immagini vengono percepite e comprese. Ora, che un artista sia, se non preoccupato, perlomeno interessato al concetto di rappresentazione è eventualità per nulla remota. Così come è altamente improbabile che un artista non si soffermi a riflettere sullo stato delle immagini. E tuttavia la sensazione è che Opie sia più attratto dal contrario, ossia da come si possa rappresentare un’idea d’immagine. Se guardiamo un volto o un ritratto convenzionale, sappiamo bene cosa guardiamo e su quali dettagli focalizzare la nostra attenzione. Di fronte ai ritratti di Opie, invece, il nostro sguardo, pur seguitando a lasciarsi calamitare dagli occhi, è disorientato. Si sposta dall’interno dell’ovale al suo esterno senza trovare la chiave d’accesso all’immagine. O meglio: non capisce come abbia potuto accedervi senza aver prima trovato la chiave. Questa sua umanità consegnataci per crude linee e piatte campiture di colore, priva di sfumature, di ombreggiature, di chiaroscuri, di tutto quel campionario che simula un’idea di fisica tridimensionalità, non pone né presuppone distanze. Avvicinarsi e allontanarsi dall’opera, questo movimento a elastico che spesso consente di penetrare i segreti dell’arte, con Opie non ha senso. Le sue facce e i suoi passanti potrebbero essere osservati a decine di metri di distanza e se ne godrebbe comunque l’essenza. Non è anzi escluso che la si godrebbe anche meglio, giacché è un’essenza affine alla segnaletica. L’umanità di Opie è abbastanza anonima e universale da integrarsi nel paesaggio urbano alla maniera di un segnale stradale o di un’indicazione all’interno di un edificio pubblico. Le sue facce non stonerebbero affatto, al posto di omini e donnine in silhouette, sulla porta di una toilette. E non vi è alcunché d’offensivo nell’ipotizzare una simile funzione. Da Duchamp in poi, l’arte si è scoperta frequentatrice assidua dei luoghi deputati all’escrezione, forse perché il biancore gelido dei sanitari che fa da porta agli inferi fetidi delle fogne è un luogo straniato e auspicabilmente pulito, dimora ideale del bello assoluto, un bello che non aspetta altro che di essere sporcato e profanato. In verità, Opie non ha mai varcato quella soglia. La sua è un’arte di gran lunga meno escatologica. Per alcuni versi la si potrebbe definire realista. Proviene dal mondo circostante e al mondo circostante sempre ritorna, seppure dopo averlo ridotto a sagome e superfici. Si accennava all’importanza di Opie nel contesto della sua generazione. Ebbene, di quale generazione stiamo parlando? Opie è nato a Londra nel 1958 da una madre insegnante e un padre economista. L’arte gli si presentò come un’ossessione. Già a quattordici anni trascorreva nottate a dipingere, eppure l’idea di frequentare una scuola d’arte lo repelleva: la considerava un’opzione da sfigati. Ciò nonostante si iscrisse al Chelsea College of Art and Design e ne uscì diplomato nei primi anni 80, in uno scenario culturale non poco inaridito dalla meticolosa azione distruttiva di Margaret Thatcher. Non molto tempo dopo sarebbe fiorita una nuova Swinging London, quella di Damien Hirst e Sarah Lucas. Ma adesso era tutta un’altra storia, e non sorprende che Opie abbia guardato alle strade nude e crude, alla gente che passava, alle facce delle persone. Non c’era molto altro cui guardare. Soprattutto non c’erano più spazi immacolati da devastare; le toilette erano temporaneamente fuori servizio. Un ruolo nel suo immaginario può averlo avuto il ricordo delle olimpiadi del 1972, quelle del tragico massacro di Monaco. Opie aveva giustappunto i quattordici anni di cui si diceva ed è tutt’altro che improbabile che sia rimasto colpito, oltre che dall’insensato bagno di sangue, dai pittogrammi disegnati per quella edizione. I vari sport erano rappresentati da atleti estremamente stilizzati: un tondino nero fungeva da testa, una linea per ciascun arto. Un fulgido esempio di fredda geometria tedesca, li definì qualcuno. E freddi erano. Ma soltanto freddi. Disegnati (o pensati, come forse sarebbe più corretto dire) da un certo Otl Aicher, denotavano un’eleganza, una loro speciale grazia che li rendeva unici e inconfondibili malgrado fossero oltremodo astratti e minimali. Avevano insomma una loro personalità, non dissimile dai volti e dai passanti apparentemente anonimi di Opie. Piace dunque pensare, anche se non vi sono prove al riguardo (e senza nulla togliere ad altre suggestioni pure presenti, come per esempio l’equilibrio di certe antiche stampe giapponesi), che l’artista si sia ispirato a quegli atleti di tedesca memoria, alla loro geometrica eleganza punto-linea subito impostasi nel mondo (a cominciare dalle porte delle toilette ovviamente), diventando il prototipo ideale dell’essere umano fatto segnale, indicazione, icona da ambiente urbano. Non segno ma segnale: così pare proporsi anche l’umanità di Julian Opie, anticipatrice delle icone digitali. Gente che passa. Facce che ti guardano, quasi che l’anima è lì, in un punto nero, e non in fondo a destra, dove, da sempre, si trova il bagno.
Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980. Ha pubblicato le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod, 2008 – Premio Mondello per l'Opera Prima), Canti dell'abbandono (Mondadori 2011 – Premio Carducci e Premio Palmi) e il memoir Come un giovane uomo (Marsilio 2018 – selezionato al Premio Strega). Lavora nell'editoria.