Nella memoria dell’altrove
Ci sono scrittrici che incidono la pietra, ma nonostante questo vengono dimenticate. Sono scrittrici che spesso amavano le ombre e i silenzi; e più i libri che le persone.
Donne che facevano della questione politica e letteraria una necessità di vita, e che in un profondo solco di coerenza e di autodeterminazione hanno mantenuto fede a loro stesse. Si contano sulla punta di una mano. E, sulla punta di queste ideali dita, sulle quali compaiono i nomi di Elsa Morante e di Natalia Ginzburg, di Amelia Rosselli e di Goliarda Sapienza, spicca anche lei: Fausta Cialente.
Fausta Cialente era una donna anomala, ed è stata una scrittrice anomala. Di origini triestine, ma di nascita cagliaritana, ha girovagato durante l’infanzia e l’adolescenza per tutta l’Italia seguendo i trasferimenti del padre Alfredo, abruzzese, ufficiale di carriera; poi ci fu Alessandria d’Egitto, dove visse per anni con il marito, dunque Roma, Varese e alla fine Londra.
Fausta Cialente è stata una scrittrice di confine, che pare trovare definizione in una frase messa a introdurre l’edizione del 1976 di Interno con figure. “Mi domando se d’italiano ho solo la lingua. E anche quella per caso. Mi sento straniera dappertutto”. Così scriveva, e le sue parole anche adesso appaiono solide, poco incline al sentimentalismo, perfette guide per scoprire nuovi mondi, per ispezionare i tempi, trasmettere i luoghi. Quello che Fausta Cialente custodisce è un seme che già germogliava nel suo esordio, in Natalia, terminato nel 1927 ma stampato solo nel 1930. Al centro una storia d’amore omosessuale che fece scalpore, e che attirò l’attenzione di Massimo Bontempelli, a capo della giuria del Premio dei Dieci, che la insignì del primo premio.
Le pagine di Natalia – la cui ultima edizione avvenne negli anni Ottanta, con una prefazione di Carlo Bo – portano in mondo ovattato, e in una storia d’amore morbosa e straordinariamente contemporanea; peccato che adesso il volume sia completamente introvabile, seppellito dalle novità e dalla nostra memoria breve.
La vera anima della Cialente – o, meglio, l’anima che l’ha rivelata al grande pubblico – è però quella degli scenari levantini che si sposano con narrazioni a più piani, con prospettive multiple e corali, con la scrittura che segue tempi musicali (non a caso suo nonno era un compositore di grande fama), e nella quale uomini e donne, bellissimi e affascinanti, sono tessitori e tessuti di destini e si confrontano con la grandezza dei sentimenti, con il coraggio, con la tenacia.
In questi paesaggi di miseria e di oasi si rivelano sempre i sentimenti femminili, le donne che credono in qualcosa di positivo e che trovano nella violenza sociale, sottofondo perenne a tutte le storie di Fausta Cialente, un futuro di rivoluzione e affermazione. È questa la traccia di Pamela e la bella estate (1935), di Cortile a Cleopatra (1936) e Marianna(1931), che viene pubblicata sulle pagine de La Fiera Letteraria, fondata e diretta a quell’epoca da Umberto Fracchia. Il libro nel 1932 vinse il Premio Galante chiamato così perché conferito esclusivamente alle donne; meglio astenersi dai commenti, era un’altra epoca, un’epoca in cui le donne scrivevano sempre e solo per diletto, e non venivano affatto prese sul serio.
La guerra arriva e rivela un altro aspetto di Fausta Cialente, che alla fine degli anni Trenta, come racconta anche Maria Serena Palieri in Donne della Repubblica (Il Mulino) mostra un’anima profondamente antifascista, che la porta a diventare voce attiva di Radio Cairo, emittente gestita dagli inglesi per la quale conduce un programma di propaganda antifascista.
“Dal 1940 al 1943 – scrive Dacia Maraini sempre in Donne della Repubblica – attraverso Radio Cairo, Fausta Cialente tiene una rubrica quotidiana che, di sera, effettua controinformazione e duella con la propaganda delle voci di regime. Da quel momento la voce di Fausta Cialente sarà bandita: ascoltarla per gli italiani è un crimine, come per Radio Londra”.
La distanza fisica dall’Italia aiuta Cialente a comprendere il tempo. “Quel che di meglio, o di più prezioso, – ricorderà – m’è stato concesso dal vivere così a lungo in quello straordinario Paese, l’Egitto, è stata la possibilità di trascorrervi tutto il vergognoso periodo fascista. Ne ho serbato un ottimo ricordo: era allora un paese tranquillo nonostante la terribile miseria del popolo, del fellah particolarmente, cioè il contadino, una miseria tanto grande quanto antica”.
Grazie ai microfoni di Radio Cairo, Fausta Cialente ha modo di entrare in contatto con numerosi fuorusciti italiani, compreso Palmiro Togliatti. Ma il suo impegno non si ferma qui. Nel 1943 fonda e dirige il giornale per i prigionieri italiani “Fronte Unito”, che nel 1946 diventerà “Il Mattino della Domenica”.
Con la liberazione, Cialente torna in Italia e cominciare a scrivere su vari giornali, da Rinascita a Italia Nuova, a Noi Donne. Fa inchieste sulle più deboli, non si perita di battersi in prima persona, e poi lavora nel cinema (suo fratello era il celebre attore Renato), scrive sceneggiature insieme a Sergio Amidei, nel 1966 dopo il terzo posto allo Strega con Ballata Levantina, pubblica Un inverno freddissimo. Una storia non di cortili ma di sottotetti, che racconta il periodo post-bellico a Milano e da cui la Rai trae uno sceneggiato con Giulietta Masina che prende il nome di Camilla. A guardarlo ora è di una noia mortale, ma ci rivela un’epoca. E ci rivela l’attenzione di Fausta Cialente per i più deboli. Per quelli che vivono condizioni di difficoltà, e di miseria.
“I bambini sono senza passato ed è questo tutto il mistero dell’innocenza magica del loro sorriso” diceva Milan Kundera, ma dietro i bambini di Fausta Cialente c’è sempre una profonda comprensione della debolezza, della miseria e della disperazione umana come svelano i bei racconti de I bambini (Es. Studio Tesi, 1996), in particolare Canzonetta e Le Statue.
E anche gli incontri, nella storia di Fausta Cialente, non sono mai definitivi. Non ci si dice mai addio per sempre, o per davvero. Perché le cose accadono, come nella vita. Come ne Le quattro ragazze Wieselberger, pubblicato nel 1976, nel quale Fausta Cialente ricostruisce le atmosfere triestine della sua infanzia e della sua cultura, e con il quale vince il Premio Strega. Si tratta di un libro di interni, dove il punto di vista di Cialente è limpido fin dalle prime pagine, e accompagna il lettore nella vita di quattro giovani donne e in riferimenti letterari sovente così sottili da non essere sempre di facile interpretazione.
Quadro perfetto di una prosa che non cerca di essere semplice né moderna, eppure si rivela moderna ma complicata; al pari della vita dell’autrice, che dopo essersi separata dal marito decise di andare a Roma, dalla madre, per cercare una riconciliazione prima della morte. Come Fausta Cialente che finì la sua vita in compagnia della figlia – in una sorta di ideale passaggio di testimone fra tre generazioni, esattamente come si intuisce ne Le quattro ragazze Wieselberger – in una Londra marzolina, ventidue anni fa. Prima del buio totale, sulle parole e sulla sua storia.
Fausta Cialente – insieme a Luisa Spagnoli, Lina Merlin e Gertrude Stein – è una delle protagoniste di “Divine – Donne del Novecento”, che andrà in onda questo fine settimana, e il prossimo, su Radio3 Rai nel corso del programma Passioni a cura di Cettina Flaccavento.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.