L’immagine che Eurovisioni restituì era effettivamente quella di un’Europa come labirinto. Un intrigo di idee politiche, culturali ed economiche di cui era difficile individuare un centro e le vie d’uscita.
Riproponiamo alcuni testi di quel numero. Per continuare a domandarsi come già allora nell’introduzione perché “l’Europa appare sempre in potenza e mai in atto”.
Francesco Longo
QUANDO UNA PANTOFOLA VA IN CRISI
di Alessandro Aresu
1. Nella maggior parte dei casi, la pubblicità di Internet presenta un mondo ideale. Nell’attesa di caricare un filmato su Megavideo o uno dei suoi epigoni, l’avvenire è sempre radioso. Le pubblicità ci spiegano che guadagnare centinaia di dollari al giorno è facile, come è facile vincere al casinò. Basta un clic e la nostra vita può cambiare. A volte, invece, le pubblicità sono crudeli, in particolare con campagne mirate come AdChoices. Per esempio, sul sito di informazione finanziaria Credit Writedowns spesso incontro «The collapse of the euro». Ormai io e quell’annuncio siamo diventati amici: mi dice che l’euro sta per implodere ma possiamo ancora guadagnarci. Se mi iscriverò alla newsletter che mi propone il link, lavoreremo insieme per far l’implodere l’euro e arricchirci. Sarà bellissimo.
2. Un decennio fa, un genere letterario si aggirava per le librerie europee. Non era uno spettro, ma un dolce sogno, che pretendeva il marchio dell’inevitabilità: il sogno europeo. Nel 2004, Jeremy Rifkin scrisse un libro col titolo Il sogno europeo, segnalando come gli Stati Uniti stessero lavorando per perdere la competizione con il vecchio continente, pronto a ridisegnare gli equilibri del nuovo millennio grazie alle energie alternative e alla tecnologia. Un best-seller. Il lavoro ormai era morto e sepolto, come Jeremy Rifkin aveva già sapientemente spiegato in un libro precedente. Che cosa restava da fare,quindi? La storia poteva tornare a casa: dal secolo americano al secolo europeo. Dopo il secolo delle tragedie, bussava alle nostre porte il secolo dell’empatia, sulle ali della nuova economia europea, e non americana, perché gli americani erano cattivi e arretrati. Ah, nel 2004, succede anche che Mark Zuckerberg fonda Facebook.
Nel 2005, Mark Leonard pubblicò Why Europe Will Run the 21st Century. Il libro di Leonard è stato un best-seller. Uno studente di scienze politiche comprava quel libro e pensava che Leonard, classe 1974, fosse un figo. Pensava di essere un po’ figo anche lui perché, nonostante le prese in giro dei colleghi di giurisprudenza («è una facoltà ridicola, gli esami sono uguali ai nostri ma i vostri sono più facili»), nonostante l’esame di statistica, era comunque un cittadino europeo. In quanto europeo, a detta di Leonard, era inconsapevolmente impegnato a conquistare il nuovo secolo. Perciò, aveva tutto il diritto di sentirsi parte di un sogno, con un’inevitabile dimensione «globale», annunciata dal soft power delle corti di giustizia contro l’hard power degli americani. In seguito, nel 2007, il giovane Mark Leonard, coi soldi di George Soros e di altri contribuenti, imbastì lo European Council on Foreign Relations, che nel nome ricalcava il Council on Foreign Relations, il think tank da decenni collocato al crocevia delle teorie del complotto, accusato di costituire una società segreta che influenza la politica americana, e quindi la politica mondiale. Lo European Council on Foreign Relations non appare nelle teorie del complotto, ma pubblica ottimi saggi che spiegano come le cose non siano andate molto bene e – ci dispiace per lo studente di scienze politiche – con ogni probabilità questo secolo non sarà nostro. Il nuovo secolo non è interessato a noi.
Nella stagione dei dolci sogni europei, non potevano mancare i professori. Avrebbero creato loro l’Europa, nelle università, perché l’università è nata qui, cinesi permettendo. E l’Europa, se deve essere, non può che essere un grande progetto pedagogico, uno spazio in cui alziamo la mano prima di parlare e, chiedendo se possiamo andare in bagno, impariamo ad essere cittadini. Negli anni zero ce ne fregavamo dei mercati. Con bassi tassi d’interesse, avevamo tempo per la vita contemplativa e la democrazia poteva permettersi di discutere. Filosofi e giuristi discutevano del demos europeo, dell’opinione pubblica europea. L’opinione pubblica europea sembrava pronta ad abbandonare gli acuti dell’Eurovision per reincarnarsi in un festival letterario. Si pubblicavano manifesti, si evocavano le gesta dei nostri Padri. La «vecchia Europa», davanti alle angherie degli Stati Uniti, indicava una strada di progresso, di libertà, di diritti e soprattutto di saggezza. Per dare corpo a queste prospettive, tra sogni, presentazioni, festival e manifesti, si sentiva la mancanza del demos europeo, che non era stato ancora trovato. Qualcuno giurava di aver visto il demos europeo attraversare la strada, durante una manifestazione per la pace. All’ombra delle bandiere della pace, in un angolo di una città del continente (non stiamo a parlare di quale città, i confini dell’Europa sono indefiniti, potrebbe essere ovunque, diciamo «in una città indefinita» per non dare fastidio a nessuno) esso/a, il demos (un sesso indefinito, per non dare fastidio a nessuno, siamo europei). Un demos riflessivo, sapiente, saggio, che ci interrogava sulla nostra identità e sul nostro futuro. I cittadini europei si impegnavano in dotte discussioni. Era nato un nuovo grande dibattito europeo, da fare invidia all’Illuminismo:
A: Che lingua parla, il demos? B: Non lo so.
A: E perché?
B: Non me l’ha detto.
A: Non ha lasciato appunti? B: No.
A: Ah, capisco. B: Cosa?
A: Con il suo silenzio testimonia la volontà di farci riflettere sui nostri errori, sul Novecento, sul secolo in cui ci siamo ammazzati a vicenda.
B: Già.
A: Non parla, perché è un testimone di quello che siamo stati. B: Già.
A: Non parla, perché aspetta le nostre parole. B: Che cosa gli diremo?
A: Boh. B: Ok.
A: Torniamo a non ammazzarci a vicenda. B: Sembra divertente!
Queste discussioni trovarono il loro approdo nel Grande Dibattito sulla Costituzione Europea. Ora che Atene brucia, Francoforte freme e Roma fa finta di essere ordinata, può sem- brare assurdo il tempo che abbiamo dedicato a vicende ormai sparite dalla nostra vita. Tali vicende, sette anni fa, non un secolo fa, sembravano urgentissime. Ricordate la lunga polemica sulle radici cristiane? Libri in classifica, cardinali, Papi e anti-Papi, Atene, Roma, Gerusalemme. Dovevano essere giudaico-cristiane, cristiano-giudaiche, greco-giudaico-cristiane o greco-giudaico-cristiane-illuministe? O per farla breve deve comandare il Papa, come voleva De Maistre? O deve comandare Odifreddi? E perché non citare anche la destra e la sinistra hegeliana? In realtà, discutevamo di radici, ma non ave- vamo idea di quale fosse l’oggetto delle nostre attenzioni. Non sapevamo definirlo, e, in modo idiota, pensavamo che ciò fosse un vantaggio, che annunciava la nascita di una comunità indefinita a cui l’intero pianeta si sarebbe accodato, sacrificando gli Stati. Per avere le idee chiare, bisognerebbe rispondere al dilemma di Lucio Caracciolo, che ricorda come un attore della politica internazionale possa essere uno Stato, una corporation, una ONG, una mafia e aggiunge che l’Europa non è niente di tutto questo. Con l’Europa della belle époque dell’inevitabile sogno europeo, sorpassavamo queste definizioni per entrare nel regno del boh, dove si parla una lingua che «non è sottoposta al controllo di un’accademia linguistica ma è il risultato di laboriose alchimie politiche, di bracci di ferro, di battaglie giuridiche combattute fino all’ultimo comma» (D. Marani, «Glossarietto analfabetico dell’eurolingua», «Limes» 1/2002, p. 100).
Per uscire dall’impasse in cui si era cacciata l’Unione Europea, e di cui Bruxelles accusò l’imperizia degli stupidi popoli europei, era necessario spararla grossa. Fu in quel momento che i sogni europei generarono un impero. Un impero! Parag Khanna ha descritto veramente l’Europa come un impero, nel 2008, in un altro libro di grande successo intitolato The Second World, e tradotto in italiano da Fazi proprio con il titolo I tre imperi. Non è un’invenzione dei traduttori, perché il libro contiene veramente tre imperi. Gli altri imperi erano Cina e Stati Uniti. Poi c’era l’Europa, naturalmente.
Il termine «impero», nelle nostre menti empatiche, dapprima generò una certa preoccupazione. Ma, diciamo la verità, almeno così si capiva che l’Europa contava qualcosa e che stavamo andando verso un obiettivo degno di nota. Non saremmo spariti. Decidendo di stare insieme, anche se non per costruire uno Stato, ma per costruire un boh, le altre nazioni ci avrebbero guardato come un faro di civiltà e di cultura, avrebbero chinato il capo davanti agli errori del Novecento, avrebbero ponderato tutte le pagine di Braudel sul Mediterraneo invece di pensare ai loro mari, ai loro golfi, ai loro stretti, ai loro container. Si sarebbero entusiasmate per la nostra capacità di influenzare la periferia e gli Stati confinanti e per i nostri avanzati e inesauribili provvedimenti giuridici, secondo le meraviglie di un moto perpetuo della legislazione. Insomma, il sogno aveva un contenuto ben preciso: avevamo comandato il mondo, avremmo continuato a comandare. Un impero comanda. Ma con cosa? Qual era l’arma dell’Unione Europea, lo strumento con cui realizzare il destino imperiale? La nostra spada, che non avrebbe offeso le permalose bandiere della pace, era l’allargamento: l’Unione Europea era «l’impero dell’allargamento». Gli Stati Uniti avevano regalato al mondo l’idea della «more perfect union», invece noi avremmo predicato in eterno l’idea di un’unione sempre più larga. Potevamo conquistare la Kamchatka.
3. Non ho descritto questi sogni europei per autolesionismo, ma perché non si finisce mai di imparare dai propri errori. Ciò, però, può realmente avvenire se e solo se essi vengono riconosciuti come tali e non ci si rifugia in scuse come «non abbiamo sbagliato nulla, il nostro obiettivo era allargarci sempre di più» o «se non fosse stata colpa dei governi cattivi [inserisci «socialisti» o «conservatori» a piacere] saremmo diventati la prima economia al mondo per conoscenza e innovazione, perché così recitavano le nostre direttive e, se una cosa è scritta in una direttiva o in una norma e non avviene, beh, tanto peggio per la realtà».
Quando è arrivata la crisi, il pensiero europeo all’inizio l’ha presa benissimo, partendo dalle seguenti premesse:
a) Avete visto quanto sono cattivi gli americani? Noi siamo i buoni, eh.
b) Ci stavamo annoiando, ma finalmente si fa sul serio. Final- mente è arrivata la crisi!
Il pensiero europeo, riflettendo con attenzione sulla memoria del Novecento e sulla nostra storia plurimillenaria, ricordando la corsa di Europa verso Oriente (i cinesi sono mai sta- ti in groppa a Zeus?), partorì i seguenti corollari:
a) La crisi è stata creata dagli americani e saranno loro a soffrirne, coi loro consumi eccessivi, col sistema bacato della finanza. Invece, in Europa siamo diversi. Siamo stati più responsabili e più seri: meno finanza, più eterna memoria del Novecento, anche se sono saliti pure i prezzi degli immobili che conservano l’eterna immagine del passato. Grazie alla crisi, dimostreremo che il nostro modello economico è più valido. L’economia sociale di mercato trionferà. Jeremy Rifkin non si è ancora trasferito da noi, ma è questione di giorni.
b) Ora che c’è una crisi, finalmente diventeremo una cosa sola, anzi due cose, anzi tre, anzi chissà.La «crisi come ordalia» è stato il mito fondamentale dell’Europa, il vessillo costantemente agitato dalla sue élite, il segno della trasformazione alchemica dell’unione monetaria in unione politica e civile. Si tratta di un mito che viene tuttora presentato con squilli di trombe, come se fosse una benedizione. La crisi diventa l’ultima, bella speranza dell’umanità. Mentre ci strappiamo le vesti per la nostra condizione presente, la crisi viene accolta con accenti di ottimismo: non bisogna sprecare le crisi, le crisi sono grandi opportunità, eccetera. A ben vedere, il dogma della bontà della crisi ha sostituito il «dopoguerra», il vero mito europeo che vale sempre la pena di raccontare, e che si può leggere nella celebre versione dello storico Tony Judt o nell’umanissima narrazione economica dell’Europa meridionale di Giulio Sapelli. Si è così cristallizzata la convinzione che le crisi abbiano, per necessità, un potere taumaturgico: guariscono le ferite e ci rendono tutti migliori. Quando durante una crisi ci buttiamo nel fuoco, allora possiamo riemergere intatti, giovani e pronti a spiccare il volo, come una piccola fenice. Ne consegue che abbiamo bisogno delle crisi e dobbiamo festeggiare il loro arrivo, mentre perdiamo il lavoro e mentre la gente muore perché vengono tagliate le cure per il cancro. Come è prevedibile, ogni tanto qualcuno si sveglia e dice che forse vivere sperando di finire in crisi non è una grande idea. Nemmeno gli ultimi padri dell’Europa ci credono più. Jacques Delors ha osservato in una recente intervista: «Jean Monnet diceva che quando l’Europa ha una crisi ne esce più forte. Ci sono alcuni, come me, che pensano che Monnet fosse troppo ottimista. Bisogna essere molto attenti in modo da far sì che si esca da una crisi meglio di come vi si è entrati. Io sono più come Gramsci, con il pessimismo dell’intelletto e l’ottimismo della volontà».
4. Quali sono i confini dell’Europa? Come abbiamo imparato dai grandi dibattiti attorno al sogno europeo, questa domanda non si può porre soltanto dall’alto, ma va riportata alla base della società, per costruire un’Europa dei cittadini e non soltanto dei burocrati, magari in grado di dare emozioni. È il caso di trarre le estreme conseguenze di quest’approccio: dopo aver appiccicato l’adesivo «Ryanair» al demos europeo, ormai dobbiamo riconoscere che per costruire l’Europa bisogna recarsi nei pub e nei bar dove si seguono le partite della Champions League. In Gaming the World (Princeton University Press, 2010), Andrei Markovits e Lars Rensmann riprendono le ricerche di Anthony King sull’europeizzazione dello spazio pubblico attraverso il calcio e attraverso il coinvolgimento dei tifosi nelle vicende di altre squadre (come quando si seleziona il Barcellona o il Chelsea nei videogiochi). Così si supera il nazionalismo, prima di riprendere a polemizzare per gli Europei. La Champions League, secondo Anthony King, è il rito che mette insieme un’audience virtuale impegnata nel- la visione dello stesso spettacolo. La cultura popolare crea popoli potenziali: anche il demos, nelle pause in cui non si corruccia per gli orrori del Novecento, si emoziona per alcune azioni, per esempio il celebre gol di Zidane contro il Bayer Leverkusen. Perciò la Champions League è un’illustrazione adeguata delle «trasformazioni economiche e politiche decisive che hanno avuto luogo nella Nuova Europa».
Anche in questo caso, abbiamo un problema: l’egoismo delle nazioni che abitano l’Europa difficilmente può essere domato. Per esempio, io tifo Cagliari, quindi cosa me ne importa della Champions League? Per me la Coppa dei Campioni, perfino con Gigi Riva, vuol dire una squallida eliminazione agli ottavi di finale. Per entrare in Europa, allora cosa posso fare? Potrei ridurmi come quei sardi che tifano Juventus. Forse in Europa questo problema non è abbastanza noto, ma in Sardegna – e in particolare al Nord – molti tifano per la Juventus e non per il Cagliari. Sul serio. Non so esattamente co- sa pensi Mario Monti di chi vuole un deficit al 10% e un rapporto tra debito pubblico e Pil al 200%, ma credo che i suoi pensieri lambiscano la considerazione calcistica che ho io per quei sardi che, durante i quarti di finale della Coppa Uefa 1993/1994, tifavano Juventus e non Cagliari. Io e loro facciamo parte della stessa nazione, ma nondimeno vi sono tra noi differenze inconciliabili.
Torniamo quindi ai confini dell’Europa e al problema dell’allargamento. La Coppa Uefa ha avuto il merito storico di farmi scoprire la Turchia, grazie al Trabzonspor, avversario ai sedicesimi del Cagliari di Bruno Giorgi, che giungeva allo scontro con noi dopo aver eliminato il Valletta Football Club. Ero bambino e mi appassionai a Trebisonda grazie alle pagine sportive dei giornali sardi. Nel momento in cui il Trabzonspor si confrontò col Cagliari nel 1993, la Turchia era già da decenni impegnata nell’eterna discussione per il suo ingresso in Europa. Anche il Cagliari affrontava una situazione delicata, tra i problemi di organico e l’instabilità generata dalla decisione di Massimo Cellino di vendere la squadra. Dalla nostra sfida con la Turchia dipendevano tante cose, ma senz’altro non un impero, perché i sardi non hanno mai avuto un impero. Nell’avventura ottomana dei sardi, il Trabzonspor conduceva 1 a 0 e stava per scoccare il quarantacinquesimo. Massimiliano Allegri vide Dely Valdes e provò a servirlo, la palla venne respinta ma Allegri insistette con lo stesso passaggio, e con un tocco Dely Valdes ci portò sul pareggio. Così mi ritrovai allo stadio Sant’Elia, a sperare sullo zero a zero per passare il turno. Che cosa hanno provato i giocatori del Trabzonspor scendendo dall’aereo? Non è dato saperlo. Sotto una pioggia torrenziale, nella curva sud del nostro orribile stadio, eredità degli obbrobri di Italia ’90, incitavo il mio idolo, Dely Valdes, ma la partita faceva schifo. I turchi colpirono un palo e poi fecero anche gol. Annullato. Era fuorigioco? Chissà: pensare che un arbitro possa provare sudditanza psicologica nei confronti del Cagliari è assurdo. Il Cagliari conservò lo zero e zero e così Bruno Giorgi poté guidarci in una cavalcata indimenticabile, fino a essere estromessi dalla coloniale Inter in semifinale, dopo aver raggiunto il momento di massimo giubilo con l’eliminazione della Juventus, con tanti saluti ai sassaresi e ai loro due presidenti della Repubblica. Molti anni dopo, Allegri allena il Milan dopo aver allenato il Cagliari, che non è mai stato venduto da Cellino. La Turchia è diventata una potenza economica, il suo ministro degli esteri ha elaborato la dottrina geopolitica della profondità strategica, mentre l’Europa ha «una sorta di ministro degli esteri che non sa co- sa sia la politica estera» (G. Sapelli, L’inverno di Monti, Guerini e Associati, Milano 2012, p. 64). Con tutti i casini della globalizzazione, non so che fine abbia fatto Dely Valdes, ma Lulù Oliveira è diventato sardo. Ha perfino allenato il Muravera.
5. Alla fine, che cos’è stata per noi l’Europa? Un’immagine, a mio avviso, descrive alla perfezione la sua parabola nelle nostre coscienze e nella nostra esperienza. Nel 1993 l’allora ministro degli esteri Beniamino Andreatta sintetizzava la disillusione del dopo Maastricht e del conflitto jugoslavo con una frase per- fetta: «Circola l’idea di un’Europa confortevole come una vecchia pantofola» («Limes» 4/1993, p. 13). Un documento della Spd del 2001 recitava: «Nessuno sapeva dieci anni fa che immagine avrebbe avuto oggi l’Europa. Nessuno sa oggi che immagine avrà l’Europa fra dieci anni». Conosciamo oggi la risposta a entrambe le domande della Spd (l’immagine dell’Europa del 2001 e del 2011): una pantofola. Si tratta della risposta più ragionevole dal punto di vista italiano. Ci siamo abituati all’Europa come mezzo per evitare di pensare a noi stessi e alle nostre responsabilità. Pensiamo che la definizione del nostro presente e del nostro futuro spetti ad altri, e non a noi, perché in mezzo agli altri speriamo di poterci annullare. I confusi sogni europei sono come pantofole: sono lì, pronti per l’uso, sono vuoti, e sono apparentemente comodi, come i bassi tassi d’interesse a cui ci eravamo abituati. Peccato che l’abitudine ai sogni indefiniti sia inadatta a bruschi risvegli.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.