Verso le otto e mezza di sera, al Bar Buenaventura dell’Alfalfa, scende un uomo che tutti devono conoscere bene. Lo salutano in fretta, senza cerimonie, per quante cerimonie possano concederti mai i veri camerieri di Spagna. Ma lui – enorme, stazza micidiale, rubizzo, ben vestito – lo salutano davvero quasi con sgarbo, come se fosse un gioco ormai abituale. Si siede alla barra, ordina un gin tonic e chiede al cameriere di liberare il bancone da bicchieri sporchi, piatti, piattini, fazzoletti appallottolati. Il ragazzo nemmeno si gira: “Perché non te ne vai a sedere da un’altra parte, invece” gli dice. E lui fa “no, voglio stare proprio in fronte a te, qui, in questo spazio, voglio fare tutto quello che mi pare e voglio bermi bene questo gin tonic come se fossi alla Maestranza perché adesso c’è Morante che sta dando lezione e io non ho voglia di pensare alle magie col capote che mi sto perdendo”. Il ragazzo non si gira, tutti tacciono, lui sorseggia eppoi mi chiede perché lo stia guardando. La rabbia gli passa in un attimo, raccontando. Mi spiega che no, la corrida non va in tv quest’anno. Non ha sentito la radio e non ha visto internet che manco sa cosa sia. Di Morante ha capito tutto dal terrazzo. Di quel che solo Morante può fare a Sevilla, al pubblico della Maestranza, lui ha capito benissimo, dal terrazzo condominiale. Stava lì a farsi un sigaro all’ombra della pagliarella, dice. E quel che ha sentito, gli olé lunghissimi, eterni, magici, tutta roba che può aver creato solo Morante, solo col capote, sicuramente qualche veronica lunghissima, eterna, infinita, che pare allungarsi oltre ogni tempo. O forse una chicuelina di quelle che lasciano storditi, o una media veronica a piedi uniti. Chissà. Non può dirlo, questo. Non si può capire addirittura il passo ma che fosse la cappa e che fosse Morante si può dire eccome. “Solo Morante ha eguagliato nei sivigliani la magia che produceva Curro Romero” dice ancora, poi mi saluta.
Me ne vado giù per le vie pedonali fino a San Salvador, semivuota. Ridacchio, chiedendomi quanto ci sia di vero in quel che raccontava il tipo. In cinque minuti sono alla Plaza. La gente sciama, i bar si riempiono, e i racconti sono tutti per lui, Morante, per la sua cappa che ha frusciato nell’aria, per quei pochi minuti di magia eterna che ora tutti vogliono raccontare, che tutti vogliono fissare nella memoria per sempre e che fin dall’Alfalfa hanno sentito nella sua purezza. Mi pare un sogno. Mi viene da ridere. Chi sa poco di tori ignora un aspetto fondamentale della passione che accomuna qualsiasi tipo di aficionados. Perché si può dare più importanza al toro o al torero, si può preferire un allevamento, si può avere un idolo, si può vivere il toreo nel modo che più piace, ma una cosa accomuna tutti quanti: la volatilità dell’arte, il suo intrinseco essere effimera costringe a tentativi di ogni genere per fissare un momento, trattenerlo, farlo proprio, renderlo immortale. E questo sforzo si manifesta in maniera paradigmatica nell’immediato post-corrida, quando la folla abbandona gli spalti e si raduna negli infiniti bar in cui deve sopravvivere quel che inesorabilmente muore. Lì tutto è chiaro. Vedrete chi tenta di replicare il movimento, chi lo descrive a parole, chi scuote il capo e guarda in cielo e vi spiega che mai prima, per almeno tre decenni, mai prima si era visto quello che è capitato in una frazione di secondo. “Non mi credi? A piedi uniti e facendo passare il toro… La mano sinistra che teneva il panno… Quel cambio di mano dopo l’altro cambio di mano…” Termini tecnici, conoscenze storiche, ricorso alle statistiche, ai numeri. “Ma lo avevi mai visto un toro così? Quel carattere, come caricava col corno destro, come galoppava al cavallo, come si è fermato all’improvviso quando ha capito…” Per ore, fuori da qualsiasi plaza de toros del mondo, gli appassionati descrivono, mimano, fissano per sempre un passaggio aereo che nell’aria è scomparso, che nel tempo è caduto e che non tornerà mai più, non ci saranno repliche televisive capaci di ridargli vita, non ci saranno registrazioni, né null’altro, perché l’arte del toreo, come poche altre arti, è assolutamente unica, non replicabile, contingente, fragile, volatile e eternamente effimera.
E questo succede fuori dalla Maestranza. A ogni bar, da San José fino alla fine di Adriano, da San José fino alla fine di Diaz, in ogni bar non c’è chi non stia cercando di fermare l’eternità della cappa di Morante. Il severo critico taurino del Pais, Antonio Lorca, si è allontanato per cercare di spiegare al mondo come i movimenti di Morante abbiano sovvertito i canoni classici della scansione temporale (“chi non esagera dice che l’olé per la sua media veronica è cominciato alle otto e alle otto e un quarto il toro ancora non era passato. Eterna, senza dubbio; almeno così è parsa alla plaza“), e io guardo la cappella del Baratillo, proprio lì davanti alla Bodega San José. Ripenso alla notte fredda in cui l’Estrella ha spinto il suo Cristo a inchinarsi, a avanzare e ritrarsi, mentre la banda suonava musiche di Passione. Calessi ora chiamano gli aficionados a venir via dai bar per recarsi trionfalmente alla Feria. Gli altri si avviano a piedi. Improvvisamente aggiungo un tassello alla formazione del vuoto che si nasconde nella mano della flamenchista o della danzatrice di Sevillanas. Quel vuoto completamente volatile che una mano non può stringere mai, che sfugge via inesorabilmente, che scivola altrove in un attimo e uno si chiede se lo abbia mai vissuto o meno, se non sia stato soltanto un sogno. Si tratta dei movimenti artistici, perfetti, pieni di una vita misteriosa, compiuti dal paso che rappresenta il Mistero del Cristo che muore, quei movimenti lunghi e profondi, unici, irripetibili, danzanti, che il paso dell’Estrella ha stampato dentro di me per sempre proprio qui, in una notte gelida e piovosa, davanti al Baratillo aperto. Gli attimi di Morante nella plaza, attimi immensi che non ho visto e che non potrò vedere mai più, che troverò in qualche video su internet, forse, ma che tanto non saranno mai pieni, immensi, lunghissimi come si sono stampati negli occhi di chi era sugli spalti. Eppure già li vivo, già vivono un po’ dentro me, già si stanno creando un insolito spazio. E allora mi chiedo come funzioni, in noi, il meccanismo misterioso di questa ineffabile immortalità delle cose più mortali, capaci di attraversare i tempi, di passare di mano in mano, dalla mano di Morante fino alla mano dell’enorme uomo sulla sua terrazza condominiale a fumare il sigaro, dalla Maestranza all’Alfalfa, eppoi giù, nel bar, nelle mie mani che reggono il bicchiere, eppoi con me indietro ai bar della plaza, dove altre mani stanno provando lo stesso movimento, il solito movimento di questa festa infinita: rendere immortale, eterno, infinito ciò che per sua natura è inesorabilmente mortale, finito, effimero.
La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
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Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).