Le ricordanze funebri scandiscono in maniera inesorabile pubblicazioni, altrimenti impossibili. All’anniversario di morte di ogni venerato maestro, accanto al dolore della perdita per un altro essere umano, cerimonie, memoir, pubblicazioni della propria opera misteriosamente scomparsa e di lì a poco cestinata e sempre da ordinare sono contentino, tributo e ghiotta occasione per i lettori.
La più sontuosa messa da requiem italiana quest’anno è certamente stata dedicata al Boccaccio, in questo caso a 700 anni dalla nascita, ma accanto all’obeso fiorentino, spunta, questa volta per data di morte, l’esile corpo di Jean Nicholas Arthur Rimbaud, Charleville, 20 ottobre 1854 – Marsiglia, 10 novembre 1891.
La mia generazione, noi forse saremo gli ultimi, si è innamorata di lui grazie a Leonardo di Caprio.
Era il 1995, la carriera del biondino d’America si trovava ancora nella fascia A.T., ante Titanic.
In quegli anni è un adolescente spigoloso e lunare: sarà prima Rimbaud, poi un Romeo pop tragico e, infine, l’immortale Jack.
Col poeta c’è un’ identificazione perfetta fra esigenze hollywoodiane e filologie fisiognomiche: in “Total Eclipse”, tradotto dai distributori italiani, a quanto sembra con gusto fortemente simbolista, “I poeti dall’Inferno”, Leonardo Di Caprio corrisponde all’immagine di Rimbaud, scattata da Etienne Cajart nel 1871, in tutto e per tutto.
Quasi ne fosse un gemello americano. E, beat.
Dopo la visione del film – ovviamente in vhs, di nascosto dai miei genitori e già negli anni P.T, post Titanic – ho comprato l’intera opera di Rimbaud in un’edizione Garzanti, con una traduzione di un altro poeta, che avrei scoperto per la prima volta, proprio nella veste di traduttore malinconico e innamorato: Dario Bellezza, il quale pubblicò il proprio lavoro in anni ovviamente precedenti all’uscita del film, precisamente nel 1989.
Si ricordi che, oggi, è impossibile, se non grazie alla casualità che accompagna ogni colpo di fortuna di bibliofili e lettori, leggere un’edizione completa, e magari critica delle poesie di Dario Bellezza, un altro dei poeti dimenticati da questo paese.
Ma, ritornando a Rimabaud, c’è una situazione opposta. Rimbaud è così conosciuto da poter essere dolorosamente ascritto nella categoria degli Illustrissimi, i quali sono letti e talvolta persino conosciuti, senza una reale esperienza da parte dei lettori.
Credo, fermamente, che l’Italia dimostrerà di aver fatto passi in avanti nell’abbattimento dei pregiudizi, quando dalle antologie di fratelli minori, cuginetti, figli e/o nipoti Leopardi, Pascoli e D’Annunzio non saranno più accompagnati da concetti quali “pessimismo”, “fanciullino” e “superomismo”.
Per adesso, a proposito del nostro, sono usciti tra la Francia e l’Italia, ben tre testi differenti: un romanzo di Franz Bartelt, “Le fémur de Rimbaud”, Gallimard, Collection Blanche, in cui uno “cahusette” appartenuto al poeta diventa feticcio per una storia d’amore e comunismo, un recit di Frank Charpentier, “La dernière lettre de Rimbaud”, in cui si indaga il misterioso finale della sua esistenza e, infine, “Una sconosciuta moralità” di Giuseppe Marcenaro, uscito quest’estate presso Bompiani, con una recensione, apparsa su Repubblica, entusiasta di Aldo Busi, il quale si dice così coinvolto dalle lettura del romanzo da sentirsi prossimo a risolvere non solo l’enigma Arthur, ma anche quello, del tutto personale, rivolto a personaggi collaterali, come Frédéric Rimbaud, il fratello.
Ora, credo sia giusto ricordare anche un testo teatrale, che ha visto la pubblicazione solo quest’anno presso Bompiani, nel terzo volume delle opere complete del suo autore. Sino a oggi queste pagine erano rimaste vergate a mano sul quaderno 69 dell’Archivio Mondadori.
Ne è autore Giovanni Testori e il testo ha il seducente titolo di “Verbò”. Una crasi fra i cognomi di Verlaine e Rimbaud, personaggi della piece che, al Piccolo di Milano, nel 1989, scandalizzò per il racconto di un rapporto poetico e amoroso fra un uomo adulto, ovviamente Verlaine, interpretato da Testori stesso, e un ragazzo, il Rimbaud tragico e lombardo di F. Branciaroli, attore amatissimo, al quale il dolente lombardo ha dedicato due trilogie, dette appunto “Brianciatrilogie”.
Ecco, fra tutte le nuove uscite, vorrei, senza fare torto agli autori contemporanei, che si tenesse a mente con particolare affezione proprio questa, che sino ad oggi, come molta parte della drammaturgia, un genere, troppo spesso sottovalutato, ha potuto vivere esclusivamente nella memoria oramai lontana di 24 anni dei milanesi accorsi ad applaudire e contestare una delle ultime stagioni infernali di questo scrittore contaminato per lingua e stile, cattolico per fede, peccatore per sua definizione, severissimo per i tratti furenti del volto, ma con due occhi così azzurri da apparire sempre disponibili al pianto e all’abbraccio.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).