C’è una leggerezza tutta infantile e inebriante nel giocare con le figurine degli scrittori del passato, tappezzare la stanza con l’effige di uno, tagliuzzare e buttare al cesso quell’altro. Liquidare Moravia con una battuta, sbandierare ovunque Pasolini fino a non poterne più. Ai due è stato augurato ben di peggio. Oggi, al confronto, gli va di lusso. Scartare il primo per manifesta antipatia salottiera, cravatta rossa e lingua di plastica, auspicare eclissi quinquennali del “corsaro”, legislazioni che stabiliscano modiche quantità nella sua assunzione, moratoria cinematografica e teatrale… anche in questo modo l’album del Novecento continua a svolgersi nel presente. Anzi i lettori, gli scrittori e i registi che si divertono a smontarlo e rimontarlo hanno la sensazione di parteciparvi, e restano in genere soddisfatti dalla sua maneggevolezza, dalla fungibilità al gusto goliardico e postmoderno, grazie alla rassicurante presenza di caselle già barrate per figli e nipotini di remote scorribande avanguardiste. Moravia c’è scritto che bisogna vituperarlo senza leggerlo. Pasolini va citato, ripetendosi che è l’ultima volta, ma sempre leggendolo il meno possibile; se proprio si deve ci sono gli articoli e i film brevi, che sono brevi. Così il sospetto di essere già planati oltre invano, intimiditi e abbagliati da quella loro vitalità d’altri tempi, rinnova ancora e sempre la tentazione di voltargli le spalle e trascurare, senza neppure provare a frequentarne la testimonianza, un intero sistema di relazioni intellettuali, di cui proprio il sodalizio Moravia Pasolini è stato l’asse costituzionale. La cifra di una vitalità che include anche “la distanza”, come dirà Moravia in un’intervista a Renzo Paris: “credo che Pasolini apprezzasse soprattutto la mia vitalità… e nella vitalità era inclusa anche la distanza”. Ho usato l’aggettivo “costituzionale” perché alla nostra Carta, testo di sintesi e compromesso di tante coloriture e vessilli, punto di equilibrio tra diversi, è riservata da anni una simile parziale insofferenza, ma soprattutto perché come la Costituzione raccoglieva il vissuto di una comunità che dopo lungo cammino si era divisa e insieme ritrovata durante gli ultimi mesi di guerra civile, venti anni di amicizia tra Moravia e Pasolini sono un modo di raccontare l’esito di quello stesso sogno. Si dirà che alla politica sta il ruolo della sintesi e del compromesso, mentre a una cultura “sana” quello del confronto sopra e al di là degli affetti, ma proprio per questo può tornare utile guardare alla concretezza dei rapporti tra uomini opere e storia del paese; che nel caso di Pasolini e Moravia è stato di amicizia fraterna, stima costante, condivisione del pubblico e del quotidiano, un’intesa che nonostante la grande differenza di temperamento e formazione sapeva scavalcare i termini delle polemiche contingenti per incontrare il mondo sull’onda di una comune passione per “il primitivo e il barbarico culturale”, come si diceva allora nelle osterie romane o sulla duna di Sabaudia (dove infine acquistarono una casa metà per uno: viaggi ripetuti e villeggiatura sono fondamentali indicatori nell’autenticità di una amicizia). Già, ma cosa conta l’amicizia tra due artisti nella percezione che possiamo avere oggi della loro opera, a decenni di distanza? Romanzi, film e poesie vanno in ordine sparso per le strade dell’oblio o dell’immortalità, anzi proprio il successo e il suo rovescio sembrano fatti apposta per separare ciò che gli uomini credevano comune, in particolare quando questa credenza è basata sul legame “più forte di una preghiera”, come scrive Bianciardi a proposito dell’amicizia tra uomini nella Vita agra. Se quindi non si è vergato un testo costituzionale insieme, e Moravia e Pasolini tecnicamente non lo hanno fatto, cioè non hanno negoziato parola per parola il medesimo racconto nazionale ad uso delle generazioni future, sotto lo stesso titolo, se ne son guardati bene, capita così adesso di ritrovarli su pianeti diversi, spediti a distanze siderali l’uno dall’altro, tanto da rendere persino difficile la rappresentazione della loro complicità, il fatto di essersi liberamente scelti come pari all’interno della stessa galassia-paese che tributava il massimo ruolo di intellettuale pubblico ad entrambi, come mai più è successo. Caso unico e irripetibile non solo in Italia (pensare alle botte da orbi tra Sartre e Camus). Eppure a guardare bene Moravia e Pasolini scrissero “insieme” più e meglio di come avrebbero potuto fare a quattro mani, non solo a cominciare dal viaggio indiano, che dà due libri speculari come ali di una farfalla, l’odore e l’idea dello stesso corpo impuro e imprendibile quanto può essere la più grande democrazia della terra, trattenuta dai due uomini curiosi in uno specchio di istinto e ragione, appena il tempo di intuirne l’essenza (con loro nel ’61, e l’ultima volta con Moravia dal quale andava separandosi di fatto, c’era anche Elsa Morante che non scrisse il terzo libro su quel viaggio ma ne distillò il colore persino nella plebe romana della Storia). Poi fecero insieme Nuovi Argomenti, “una rivista che serve a preparare una rivista. E come tale non ha un programma”, scrive Pasolini nel numero del gennaio ’66, quando inizia la sua codirezione con Moravia. Fare riviste è l’espressione naturale e “politica” dell’amicizia tra scrittori. A Moravia era già successo con Pannunzio: “eravamo inseparabili. Finimmo per fondare una rivista, anzi due: prima Caratteri e poi Oggi” (dice a Enzo Siciliano nella biografia Alberto Moravia, vita, parole e idee di un romanziere). Pasolini veniva dall’esperienza di Officina con Leonetti e Roversi: “Il sogno, quasi un lucido delirio, di considerare la poesia come un’arma bianca possibile contro l’Italia degli anni Cinquanta”. E proprio lungo questa improbabile rotta avviene l’incontro tra Pasolini e Moravia, propiziato dalla pubblicazione de Le ceneri di Gramsci su Nuovi Argomenti; portato forse dalla Morante che già conosceva il poeta friulano, forse da Alberto Carocci che aveva fondato la rivista e la dirigeva con Moravia. Fatto sta che per la prima volta Nuovi Argomenti decide di pubblicare versi. Moravia è colpito dalla potenza del poemetto civile di Pasolini, che appare sul n. 17-18 del ’56, accanto ad alcuni capitoli inediti de La ciociara, L’uva puttanella di Scotellaro, Pagine di un’inchiesta a Palermo di Danilo Dolci. Da allora, la tenuta ventennale dell’amicizia Moravia Pasolini sta come una spina nel mezzo dei tempi migliori, disperati e fallimentari della nostra Costituzione. Perché nasce dove le energie resistenziali vanno ingrigendo, mentre ancora porta nelle ossa i lutti del fascismo – Moravia il trauma della perdita dei cugini Rosselli, trucidati in Francia nel ’37; Pasolini l’ombra del fratello Guido, partigiano osovano ucciso a Porzus non ancora ventenne dai partigiani comunisti – e deve confrontarsi con l’avvento del neocapitalismo, degli scandali e del terrorismo, fino all’assassinio di Ostia nel ’75: la mano che accompagna battendo l’orazione funebre a Campo de’ Fiori, ricorda agli italiani che è morto un poeta, che ne nascono pochi in un secolo. Come poeta lo ha conosciuto e come poeta lo saluta, che voce Moravia! E che voce aveva Pasolini. Immaginarli intonare una conversazione stridula e dolcissima è un’altra maniera di rappresentare la traccia biologica della nostra intesa costituzionale. Così come vederli insieme in fotografia.
L’altro giorno tenevo sulla scrivania una vecchia copia di Nuovi Argomenti, pubblicata in occasione dei 50 anni della rivista nel 2003, dove i due sono ritratti in un bianco e nero lugubre però in atteggiamento giocoso, Pasolini fa capolino con gli occhiali scuri dietro Moravia impettito in una smorfia, a braccia conserte, l’orologio al polso segna le 10,10. Mia figlia di sette anni Rosa ha chiesto conferma del fatto che i due signori in copertina fossero dei ladri. Bombe e ladri sono tra le sue maggiori preoccupazioni. Era molto felice di essere stata in grado di riconoscere due di quei famigerati e misteriosi “ladri”. Mi ha fatto tornare in mente la scena di Bernardo Bertolucci tredicenne che apre la porta di casa a Pier Paolo Pasolini. Un racconto che il regista ha eseguito più volte come uno standard jazzistico, sempre in maniera magistrale. È la controra, il padre Attilio cui il giovane poeta è venuto a rendere visita sta riposando. Bernardo richiude la porta in faccia a Pasolini mentre va ad avvertire il padre, sospetta che quell’uomo sia un poco di buono, un ladruncolo, meglio lasciarlo fuori di casa. Del racconto di Bertolucci colpisce il dettaglio del vestito della domenica indossato da Pasolini, quell’aria ripulita l’aveva messo sul chi va là, e lo stupore del padre Attilio che si leva bruscamente dal suo pisolino: ma come!? È un poeta non un ladro! Anche a me il fraintendimento di mia figlia all’inizio mi ha disorientato come palese, poi, ho ricordato che in alcune versioni del suo racconto Bertolucci aggiunge la svisata del ladro che ti prende qualcosa dentro, ruba l’anima, pezzettini di innocenza, ecco chi era Pasolini il poeta. Curioso fino al furto. Con Moravia formava in questa prospettiva una banda perfetta, capace di sgominare il più intimo segreto della realtà, in complicità, come il palo e lo scassinatore, il maestrino di campagna e il borghese di città, il laico e il paleocristiano, il cosmopolita e il rurale, lo scandalo di contraddirsi e chi non si scandalizza di niente, l’identificazione e l’accettazione, la forza del passato e il passato come una minestra riscaldata… una vitalità culturale che include la distanza.
(Questo articolo è già apparso su “Pagina 99”)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).