Lou Reed. Qualche mese fa Alvin Lee. Lou, una star perenne; Alvin una delle due chitarre di Woodstock, l’altra si sa, era Hendrix. Con i Ten Years After, Alvin Lee suonò a Woodstock le folate di quel suo prodigioso e dimenticato rock’roll, I’m goin home. Fraseggi rapidissimi, sporchi e ritmati. La voce nasale scandiva: “I’m goin’ home, goin’ home baby, oh goin’ home baby, I’m comin’ and get ya”. Vengo a casa piccola, oh vengo a casa piccola, ti vengo a prendere…”. Si girava, guardava i Ten Years After e ringhiava: one more time, un’altra volta, un altro giro di rock’n’roll ragazzi. Manciate di riff. “Goin’ home now, see my babe…”, i cuori dei settecentomila strizzati dal groove. Erano le 15 di un lunedì di marzo del ’70, quando entrai al cinema Ariston di Firenze, il primo giorno di programmazione di Woodstock, tre giorni di pace, amore e musica. In sala non c’era nessuno a parte il Liscio, uno glabro coi capelli lunghissimi, un gilet, il busto nudo anche d’inverno. Ci vedevamo ai concerti dello Space Electronic, un ex autofficina trasformata in locale per concerti rock, sotto a un paracadute spalancato che copriva il soffitto. Uscii dal cinema all’una di notte. Nove ore per rivedere Alvin che sfrecciava sul rock’n’ roll e Hendrix che suonava l’inno americano, mimando le bombe sul Vietnam.
Lou e Alvin sono pezzi di vita che la morte smonta, ragiono mentre faccio la spesa e chiedo quant’è con la faccia mogia – è la mestizia che non molla la presa. Lou e Alvin erano due familiari. Due miei gemelli diversi da me e tra loro. Gemelli fra decine di milioni di gemelli diversi, resi uguali dal rock. Chi suonava e chi ascoltava. Per la verità uno dei due, Lou, lo conosco molto meno di Alvin, il mondo invece conosce molto meno Alvin di Lou. Il fatto è che il rock-blues di quegli anni, hard blues lo chiamavano gli inglesi, è evaporato, e ora, incomprensibilmente, nessuno sa che ci fu quella chitarra rossa velocissima. E d’altra parte, se di Lou Reed ne sapete più voi, c’è il fatto balordo che sono molto triste anche per Lou che conoscevo solamente per Vicious, Take a walk on the wild side, Perfect day. Con Lou ci vedevamo in giro, sì; gli ho sorriso, sì; l’ho canticchiato – ma niente di più del fatto che mi piaceva il modo facile della sua voce che sembra ti dica: senti, facciamo due chiacchiere, e poi ti sputa in faccia una poesia. Mi dispiace Lou, che ci siamo sorrisi da lontano, ma vivevo dall’altra parte del parco, nella zona rock-blues con Alvin, Eric, Jimi Hendrix, Page e Rory Gallagher. Come mai mi dispiaccia tanto per Lou che non conoscevo a fondo, è un mistero, ma è un mistero anche che ci conoscessimo poco e ci capissimo al volo. Di sicuro mi dispiace che il palco del rock stia diventando vuoto. Intendiamoci, il tempo galoppa. Ero quasi bambino quando durante gli assolo di Jimi Hendrix saltellavo nel salotto di casa e guardandomi allo specchio del buffet mimavo di suonare la chitarra con la scopa della mamma. “Poveruomo” diceva mio padre ascoltando Hendrix con le mani prudentemente piantate sui braccioli della poltrona, “come deve soffrire”.
Il rock è stata un’immensa benedizione scesa sulla mia vita. Per l’esattezza, avevo quindici anni quando a un tratto, tutto insieme, scoprii che esisteva quel ben di Dio. Era sabato pomeriggio e misi sul piatto Wheels of fire dei Cream, lp dal vivo del ‘67. A un certo punto venne “Spoonfull”, lunga, solenne, densa. Al graffio. Pensai testualmente: “Esisteva tutto questo, e io non lo sapevo”. Il rock-blues rispondeva a ogni mia domanda. Era la pienezza che non esisteva nei Troggs e nei Rolling Stones. Ascoltare i Cream, Alvin Lee, Hendrix era come andare a un concerto di musica per bombardieri. E come è possibile che questo finisca, che ci si debba addirittura separare? Certo il lutto per la morte degli artisti è naturale. Chitarristi, scrittori, pittori, con alcuni di loro ho vissuto come se li avessi conosciuti – perché li avevo conosciuti. E sono stato in lutto anche per artisti morti molto prima che nascessi. A vent’anni tenevo sul muro una foto della poetessa Marina Cvetaeva, e davanti alla foto una candela. Era morta dieci anni prima che nascessi. Leggevo giovinezza, mia rondinella, mia rossa scarpina spaiata, va dagli altri e pensavo ai suoi giorni in ginocchio a lavare i pavimenti di Parigi, alla sua morte ignota, e che non fosse raggiungibile. Rileggevo il Revisore per sentire la voce di Gogol, ed ero triste perché il mio amico Nicolaj, che noia, se n’era andato anche lui. Così per Pavese, Shabtai, Henry Roth di Chiamalo sonno. E l’altro ieri rileggo Marcovaldo e dalla gioia passo allo sconforto perché è venuta la morte e si è ingoiata Calvino. Questo succede con gli artisti: che si stabilisca una vera e dolorosamente ingannevole consanguineità. Tutti gli artisti, di un tempo e di adesso, scardinano la porta del presente, si installano qui da noi ed offrono affinità, fedeltà, gettano luce. Godiamone. Non è vero che sono morti tra i vivi, ma vivi tra i morti. E io alzo il calice ad Alvin e a Lou: One more time. Non era moda – era fuoco. Ancora si appicca.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).