E insomma, no, non esageriamo. Si fa per dire. Se piove importa eccome. Sciamare di strada in strada non si può. Restarsene a non far nulla davanti ai bar neppure. Eppoi figuriamoci seguire le celebri processioni o andare ai tori. “Si el tiempo no lo impide” è la formula stranota. Se il tempo non lo impedisce? E perché mai dovrebbe impedirlo? Come potrebbe impedirlo, se si aspettano quasi dodici mesi per vedere uscire il primo palio dalla chiesa di San Sebastián, dietro il Parco María Luisa? La confraternita si chiama La Paz. La seguono altre otto, durante la prima giornata. Ne verranno altre cinquantuno fino alla domenica successiva. Non può impedirlo, il tempo, non può mettersi di traverso. Lo ripetono tutti. Non che sia una legge. Meteo e santi non s’intendono. E succede, sì, può piovere eccome. Eppure non può succedere. Come potrebbe, se per quasi un anno non si aspetta altro? Se si passano serate intere a dividersi i compiti, immaginare le novità, studiare ogni minimo dettaglio. Non può impedirlo, tutto questo, il tempo. E così a mezzogiorno del Domingo de Ramos, su Sevilla splende un sole abbacinante. Calle Rio de la Plata è già piena di gente stipata sui lati della via in attesa. I bar dei dintorni sembra siano già a fine giornata. Vecchi, ragazzi, ragazzini sbocconcellano, fumano, bevono. Giacca e cravatta gli uomini. Vestiti lunghi e décolleté vertiginosi le donne. Seggiolette piegabili, seggiole di legno, panche. Bicchieri vuoti giá ovunque, noccioli di olive, bustine di bruscolini, piatti vuoti ancora unti di maiale fritto, piattini che passano di mano in mano zeppi di pata negra appena tagliato, coppe in cui galleggiano cubetti di ghiaccio, pezzi di limone rosicchiati. Manca un’ora all’una e sembra già che la festa abbia superato il suo culmine. E invece la grande porta in fondo alla via è ben chiusa.
Ma cosa deve uscire da quella porta? Ecco il primo dei mille misteri per chi arriva qui immaginando il rito noto ovunque al mondo della processione. Se si ha la fortuna di trovare qualcuno disposto a ospitarvi, spiegarvi, accompagnarvi, non esitate, non fate complimenti. Le case all’improvviso si aprono, i balconi vi accolgono, le famiglie sono pronte a introdurvi nei più magnifici segreti che i secoli custodiscono. Piano piano, però. Non tutto insieme. Non lasciatevi offrire troppi dettagli. Cominciate dal “paso”. Che cos’è un “paso”? Una specie di altare, forse, o una specie di carro, ma senza ruote e senza cavalli. Un grande palco di legno rifinito in oro o argento, bordato di velluti, tessuti, ricami, su cui le figure preziose che raccontano la Pasqua vengono trasportate in giro per la città. Ogni confraternita ne porta in giro almeno uno, generalmente due, in casi rari tre. Il primo a uscire racconta scene di morte: Cristo spinto a portare la croce, Cristo crocifisso, Cristo morente o morto. Il secondo racconta la bellezza dolorosa o beata della Vergine. L’uscita di questi immensi altari sostenuti da decine di uomini invisibili che lavorano nel buio, nell’ombra, diretti dai comandi di un uomo che li invita a muoversi sotto i duemila chili circa di peso, quest’uscita trionfale è il primo grande mistero di Sevilla. Non si può che aspettarlo come se fosse il soprannaturale, davvero, che torna in vita. E infatti quando arriva l’una succede che la gente pianga e che io stesso pianga. Le porte si aprono. La folla si ammutolisce. L’incenso si diffonde ovunque. Compare una croce, poi l’immenso altare, il primo “paso” dell’anno. Le dimensioni richiedono uno sforzo mostruoso, attenzioni che nessuno immaginerebbe. Piccoli movimenti, movimenti sempre più impercettibili, poi il sole brilla sulle rifiniture in oro, il sole scintilla sul legno dipinto del Cristo, un urlo lacera il silenzio e da un piccolo balcone il canto flamenco di un uomo accoglie Cristo. È l’inizio perfetto.
Non poteva venire pioggia, ripetono qua e lá, mentre un senso di liberazione si riversa in bicchieri colmi di whisky e si comincia a aspettare anche l’uscita della Vergine. Passano di mano in mano vassoi, formaggi, torte, insalate, bicchieri. Passano uomini, donne, vestiti che frusciano, allegria e brindisi. Il sole è il miglior torero. Vale per qualsiasi grande cerimonia di Spagna. E che cos’è allora, quel cielo nero, lá dietro? Niente, niente, non guardarlo – dicono alzando le spalle, un po’ tutti. E intanto arriva il momento supremo, perché la Vergine vale molto più di Cristo: non compare nella nudità di un corpo lacerato nelle carni ma vestita di ricchezza inarrivabile. E, diversamente dal figlio, viene accolta da petali bianchi che volano giù dai tetti dei palazzi attorno. Suona la musica. Sfilano torme di seguaci del rito. Risuona di nuovo un magnifico canto flamenco. La festa è davvero cominciata. Possiamo star tranquilli. Possiamo cominciare a pensare dove andare, altrove in città, a vedere quel che le altre confraternite previste per la giornata hanno preparato. Così, quando un cielo plumbeo copre la città e un acquazzone interminabile bagna ogni cosa, quando le confraternite bloccano i loro pasos dentro le chiese e quelli già in giro vanno a rifugiarsi dove possono, perché il legno delle figure antiche, preziose, sacre non sia rovinato irreparabilmente dall’acqua, che dire? Di chi è la colpa? Sta piovendo o no? Non c’è risposta. Festeggiamo, dai, festeggiamo lo stesso. Festeggiamo, sì. Non fermiamoci. A tarda notte, nel freddo che invade le vie di Sevilla, la confraternita dell’Estrella sarà l’unica delle nove, assieme a La Paz, a compiere il suo cammino per intero. Ma di questo parleranno i giornali, le tv che trasmettono l’evento, i commentatori e semmai i vigili urbani. Chi è in giro, ancora all’alba a seguire la sua Vergine, sembra abbia gli occhi dominati da uno scintillio assolutamente antimoderno, qualcosa che noi umani non sapremmo spiegare. Ma che dobbiamo capire. A tutti i costi.
La prima parte del reportage di Matteo Nucci è qui.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).