“Dovete sapere che queste lezioni le improvviso molto poco prima che voi arriviate qui: non sono un tipo metodico, non sono un critico né un teorico, quindi via via che mi si presentano i problemi di lavoro cerco le soluzioni”.
Mi è appena arrivato “Lezioni di Letteratura” di Julio Cortázar (Einaudi, 2014), tenute a Berkley nel 1980. L’argentino autore del celebratissimo Rayuela, nato in Belgio e sepolto a Montparnasse, aveva già rifiutato una posizione da visiting professor alla Columbia come presa di posizione verso l’imperialismo Statunitense. Il Simòn Bòlivar del romanzo (secondo Fuentes) accetta di parlare nel luogo più puro dell’America di Carter – la California dove ebbe inizio la rivolta studentesca – per amicizia al professore di spagnolo che lo aveva invitato, José “Pepe” Durant.
Un punto lo guadagnano già la copertina – non ho voglia di descrivere la sua pulizia, guardatelo lo scrittore in cattedra in dolcevita bianco – e la perseveranza einaudiana di volerci insegnare qualcosa facendoci godere. L’indice, oltre istruzioni, prologhi e appendici, è diviso in otto lezioni. Sto per precipitarmi alla quarta (Il racconto realista) – quanto si può imparare dai non realisti sul realismo – poi vedo il titolo dell’ottava: Erotismo e letteratura. Se leggessi prima le altre penserei comunque a quella, meglio vedere subito di cosa si tratta.
“Vorrei chiarire una questione di natura lessicale: quando parlo di erotismo in letteratura non mi riferisco assolutamente a quello che si può definire pornografia. Tra erotismo e pornografia c’è una differenza abissale: la pornografia in letteratura è sempre negativa e disprezzabile, nel senso che si tratta di libri, o scene di libri, scritti deliberatamente per provocare nel lettore una certa eccitazione o una certa reazione; l’erotismo in letteratura, invece, significa che la vita erotica dell’uomo è importante e fondamentale come la sua vita mentale, intellettuale e sentimentale”.
L’odore dei Saggi Einaudi rimane ancora dopo venti minuti che si è tolto il cellophane aderente.
“Vi chiedo di tenerne conto quando leggete noi latinoamericani e di non scandalizzarvi dinanzi a certe scene dei romanzi; cercate, piuttosto, di vedere se queste scene sono articolate in modo legittimo rispetto al resto del libro. Se non si articolano è pornografia, ma se sono una parte vitale del libro, se sono un elemento che ha la stessa qualità ed è altrettanto necessario degli altri, è erotismo perfettamente legittimo ed è il cammino sul quale credo stiamo avanzando”.
Penso a Philip Roth.
Tra le lezioni ci sono gli estratti dei racconti che legge in classe agli studenti «Si ferma e annuncia che leggerà una delle sue pagine, a lungo, magari un racconto intero, perché non c’è modo migliore né più preciso per dire ciò che vuole dire. Ecco l’insostituibilità del narrare come modo di pensare. Il racconto letto viene così dislocato rispetto alla sua autonomia di racconto e viene ricollocato come frammento in un nuovo contesto che articola un’intera visione del mondo. In tale gesto, Julio Cortázar, legge, interpreta, se stesso» – si legge nella prefazione di Ernesto Franco (dal titolo meravigliosamente sudamericano di Istruzioni per leggere un libro non scritto).
Mi immagino le scene in bianco e nero, ma il 1980 dovrebbe già essere un mondo a colori. Vado su google images a cercare delle sue foto a colori e per la prima volta noto quanto siano acquatici i suoi occhi. Le sue sopracciglia un po’ mi spaventano e preferisco il ritratto appena tenero con aria à la George Carlin della copertina, che torno a guardare tenendo un dito tra le pagine.
Studente: Scusa se ti interrompo, ma credo che sia interessante [parlare di Heberto Padilla]. Hai scritto una poesia bellissima in risposta a Cuba, in cui parlavi di policritica, eccetera.
Cortázar: Sì, ragazzo, ma non ho qui la poesia…
Studente: Non la sai a memoria?
Cortázar: Ma figuriamoci! Io a memoria non so neanche il mio numero di telefono.
Prendendo una pausa sfoglio come d’abitudine l’Indice dei nomi ; se Armstrong, Louis non mi stupisce – Cortàzar amava il jazz – accende la lampadina un Allen, Woody (Allan Stewart Konisberg). In effetti anche il mio regista newyorkese prediletto preferisce la musica al cinema, e suonare il suo clarinetto Selmer Albert invece che dirigere film. Mi sposto a pagina 108 tenendo la mano incastrata inutilmente sulla prima pagina dell’Indice dei nomi. Mi sbaglio solo a metà, si parla di Musicalità e umorismo in letteratura.
«Jerry Lewis secondo me è un comico, e Woody Allen un umorista. La differenza sta nel fatto che un Jerry Lewis cerca semplicemente di creare situazioni che fanno ridere un attimo ma che non hanno alcuna proiezione interiore; sono come barzellette, sistemi a circuito chiuso, molto brevi, che possono essere bellissimi ed è una fortuna che esistano, ma che in letteratura non mi pare abbiano ripercussioni importanti. Invece tutti gli effetti comici che Woody Allen ottiene nei suoi momenti migliori sono pieni di un senso che va molto al di là della barzelletta o della situazione stessa: contengono una critica, una satira o un riferimento che può essere persino molto drammatico, come si inizia a vedere nei suoi ultimi film».
Corro alla fine, perché se con la narrativa non posso permettermelo, con la saggistica mi sento meno in colpa a leggermi l’ultimo paragrafo (continuo a sentirmici, chissà che non ci sia la grande verità e io mi sono perso il percorso, ma almeno non ci sono omicidi da svelare).
“Bene, ora sì voglio dirvi ciò che vi volevo dire: che non ho la sensazione di andarmene, ho l’impressione che giovedì prossimo ci rivedremo di nuovo. In un certo senso penso che sarà davvero così perché che con molti di voi ci scriveremo, so che molti di voi mi manderanno via via le cose che hanno scritto o che avranno voglia di scrivere. Quelli che stanno già scrivendo – e conosco già qualche bell’esempio – spero che resteranno in contatto con me nel loro lavoro futuro.
Per quanto mi riguarda vi manderò le uniche lettere che posso scrivere per mancanza di tempo: i miei libri. Pertanto ogni nuovo libro che uscirà consideratelo, per favore, come una lettera che indirizzo a ciascuno di voi. Voglio dirvi che vi ringrazio profondamente per la fedeltà e l’attenzione con cui avete seguito questo che non era un corso, era qualcosa di più: un dialogo, un contatto. Credo che siamo tutti molto amici ormai. Io vi voglio bene e vi ringrazio. E ora sì, ora via.”
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).