“Fammi stare zitto, amico, fammi stare zitto. Reiterazione ossessiva di gesti privi di senso. Un livello pericoloso di luce nel sangue. Chi chiama dichiara di avere scoperto l’impronta di un trilobite incastonata nel cielo. Sono cose del genere, dice lui, che ti fanno pregare Dio. Che tu possa vivere per sempre. In questi svariati stati di shock. A che punto della conversazione ti sei reso conto che lei aveva smesso di respirare? Quando l’ho baciata. Ma non c’è tempo per questo. Gli elicotteri neri ci sono addosso, le nostre figlie scappano di casa, in lacrime, pazze di gioia.”
Quella che avete letto è una poesia in prosa di Ben Lerner, contenuta in Angolo di imbardata IV, Arcipelago Edizioni, traduzione di Damiano Abeni. Si tratta della famosa placquette scritta durante il soggiorno dell’autore in Spagna, più precisamente a Madrid, ospite di una fondazione allo scopo di scrivere un imprecisato numero di poesie sulla guerra civile spagnola. Una volta esaurito il tempo della borsa di studio e tornato a New York, Lerner decide di raccontare in un libro il suo soggiorno europeo. È così che nasce Un uomo di passaggio, pubblicato qualche anno fa nella traduzione di Laura Prandino da Neri Pozza. Il titolo originale, Leaving the Atocha Station riprende il titolo di una nota poesia di John Ashbery, vero e proprio nume tutelare di Ben Lerner.
Le poesie della silloge riflettono bene l’ansia del tempo passato in Spagna. Il romanzo si snoda accelerando tra letture di poesie, treni presi a caso, numerose pasticche di antidepressivi, vino e hashish usati come ci si sarebbe aspettato nella migliore tradizione beat. Detto così è come uno si immaginerebbe la vita qualsiasi di un giovane scrittore americano in una specie di vacanza studio in Europa.
In realtà ci si accorge subito che c’è molto più di questo: tutta la scrittura di Lerner è un esercizio teso al racconto del modo in cui il proprio io (o almeno l’io dello scrittore partito per la Spagna, che beve, fuma e si droga al contrario dello scrittore rimasto negli Stati Uniti che usa la distanza oceanica per sovvertire la realtà) riesce a conoscere e a introiettare il mondo esterno. Il più delle volte è un fallimento misero, che trova nello scoglio linguistico solo una vaga consolazione.
Il racconto di questo fallimento gnoseologico è di una potenza rara.
Anche se la distanza geografica si riflette in una differenza sostanziale di carattere dell’autore (alla fine del libro il protagonista sarà combattuto sul tornare in America, perché spera e teme allo stesso tempo la fine dei vizi sotto cui aveva sospeso il suo giudizio morale) i fallimenti sono gli stessi. Leggiamo in una poesia inedita in Italia, tradotta e gentilmente concessa da Damiano Abeni:
Dimenticati in anticipo, questi fallimenti sono tecnologici
nel senso più antico: ci permettono di vedere noi stessi immutati
e di rimanere immutati. Questi fallimenti ci concedono
una sospensione di pena non voluta
e adesso dobbiamo far festa come matti
finché non saremo in lutto.
Come in: “La Bellezza alza minacciosa la sua orribile testa”.
Come in: “Le ho rotto il braccio per poter firmare il gesso”.
C’è sofferenza, altrove,
ma qui nel Kansas le nostre conoscenze
ci violentano con tenerezza e rimangono immutate.
Questi fallimenti diverranno preziosi grazie al ripetersi
e, anche se non possiamo sperare nel perdono,
questi fallimenti diverranno preziosi grazie al ripetersi?
Il romanzo accelera nel raccontare l’esperienza dell’autore durante le manifestazioni spontanee a seguito dagli attentati alla metropolitana di Madrid l’11 marzo 2004, il giorno prima delle elezioni che videro il partito di Zapatero salire al governo. Qui la narrazione implode su se stessa, come se volesse mettere a nudo non solo le disgrazie e le paure del paese ma quelle dell’autore che le racconta. Al tempo della narrazione Lerner ha 25 anni, mente sulla morte di sua madre, sulle idee politiche del padre, e non riesce a non considerare come “virtuali” tutti gli accadimenti che gli succedono.
«Guarderemo le poesie domani» disse. «Vorrei sceglierne un paio di nuove da tradurre».
«Certo» dissi. Non mi importava niente delle poesie.
«A meno che delle poesie non ti importi» disse. Non aveva gli occhi sgranati né socchiusi e non sorrideva. Ero contento di vederla arrabbiata.
«Non mi interessa molto la poesia, in un momento come questo» dissi lasicando intendere che lei si stava preoccupando di piccinerie personali in un momento di sconvolgimenti storici. «Domani ci sono le elezioni» dissi, come se lei potesse averlo dimenticato.
Sembrò ancora più arrabbiata. «E cosa pensi di fare domani?» chiese. «Come intendi partecipare a questo momento storico?».
«Non è il mio paese» dissi, l’espressione a sottolineare i molteplici e simultanei registri di significato che quell’affermazione poteva avere. Mi sembrò di vederla che se li faceva risuonare nella mente.
«Bueno» disse lei, che può voler dire tutto o niente, e se ne andò.
Se le poesie risentono effettivamente di quell’obnubilamento dei sensi, di quell’appercezione involontaria nei soggetti che soffrono di attacchi di panico e che hanno un felicissimo talento nella scrittura del sé, un Uomo di passaggio è un’autofiction, perfettamente riuscita e controllata (o post-fiction, come direbbe Cristiano de Majo che ne ha parlato splendidamente qui). L’impressione che me ne sono fatto rileggendolo è che volendo l’autore avrebbe anche potuto osare di più, cavalcare quella sottile onda di onnipotenza e di euforia che ti pervade quando decidi per una volta per tutte di dire le cose come stanno, cercando di accordare ogni sua diversa anima, ogni sua diversa possibilità.
Lerner sceglie di non essere sfacciato, il nome del protagonista è un altro (Adam Gordon) e le vicende potrebbero anche essere lette decontestualizzandole dalla vita dell’autore. Ovviamente nessuno ci fa caso, perché è assolutamente chiaro che si tratti di cose realmente accadute.
Questa cosa dell’onestà riempie a cadenze bimestrali le bacheche di facebook e i tavoli dove cenano insieme gli scrittori, e non sempre si riesce a trovare una via d’uscita. Mi sembra però aver capito una cosa: l’onestà va bene fin tanto che non viene usata come modello qualitativo di scelta, è solo un modo di dire le cose che, per esempio a me, piace più di altri.
Poi sono per l’onestà radicale pure io. Ma mica solo nella letteratura.
In ogni caso, Un uomo di passaggio ha consacrato Lerner come uno degli scrittori più rappresentativi di una generazione che tenta disperatamente di ergersi sulle spalle postmoderne dei giganti che lo hanno preceduto. Ci riesce benissimo.
Dentro c’è più o meno tutto quello che a uno come me (e anche se non sono rappresentativo di nessuna categoria – leggi in tono sarcastico: mi piacerebbe – qualche volta è spaventosamente raccapricciante notare come i gusti letterari siano simili tra le persone che si frequentano) cerca in un romanzo: descrizioni accurate, fotografie e didascalie à la Sebald (anche se meno felici), un contatto e uno sguardo verso la propria interiorità che ti sforza ad allenare perfino il tuo, e uno sguardo esotico che inserisce Ben Lerner a buon diritto in una delle categorie più densamente frequentate di wikipedia: scrittori di religione ebraica.
C’è solo un attimo di sospensione del dubbio a dirla tutta, che ti fa storcere il naso. A un certo punto, davanti a una di quelle foto, ti viene il dubbio che non sia vero niente e che lo scrittore ti stia prendendo per il culo da cento pagine buone. Dura un attimo, un attimo solo, il tempo di visualizzare una foto in bianco e nero e la sua didascalia e girare pagina cercando di non sentire ormai minato nel profondo il potere creativo che avevi concesso all’autore. Non riuscivo a capire se fosse bellissimo o paraculo, un po’ come mi capita con i grossi tatuaggi di simboli esoterici su pelli bianchissime vestite di nero, barbe e occhiali da sole vintage. Poi ho capito che era entrambe le cose: era bellissimo & paraculo e finito il romanzo avevo fatto pace con l’idea che la letteratura possa essere entrambe le cose, perfino nelle sue pagine meno forti.
Se decidete di leggerlo vi consiglio di non fare come me. Partite dalle sue poesie (anche se ne hanno stampate solo 500 copie), poi Un uomo di passaggio e infine il libro che mi ha fatto innamorare della sua scrittura, Nel mondo a venire. Credo che in quest’ordine si riesca veramente a percepire la costruzione in fieri di un’idea di letteratura. Dev’essere una bella esperienza. Quella che a me è sembrata la pars destruens delle cose deve lasciare il posto a un processo creativo molto più profondo e complesso di quanto possa aver percepito io.
In effetti troppe persone che stimo mi hanno consigliato di leggere Ben Lerner perché potessi esimermi. Quando me ne hanno parlato per la prima volta Nel mondo a venire era appena uscito per Sellerio, nella traduzione di Martina Testa.
Avevano ragione, ho letto quel libro tutto d’un fiato in una domenica pomeriggio appoggiato al bancone di una friggitoria che aveva appena scoperto di poter fare gin tonic a quattro euro. Era un avvenimento maieutico perfettamente connesso con quello che mi stava succedendo dentro. Continuavo a ripetermi che erano anni che non leggevo un libro con la stessa urgenza. Di solito i libri belli li riconosco perché mi fanno venire voglia di scrivere, agiscono a quel livello dentro di me, ma Nel mondo a venire stava facendo qualcosa in più, non era la meccanica emulazione di un prodotto, no, mi stava insegnando qualcosa, era questo quello che faceva sgomento: avrei voluto saper scrivere un libro identico a quello.
Nel mondo a venire ha una struttura complessa, abbandona il parecchio visitato mondo del romanzo di autofiction in cui l’autore appare e scompare giocando a rimpiattino con una versione meno autoriale di sé, per raccontare essenzialmente di un grande problemi: il tempo e la sua identità. Perfino il titolo della versione italiana (l’originale è 10:24, che rimanda a un progetto artistico che consta della proeizione di un film che dura 24 ore) e l’esergo rimandano al Mondo a Venire della religione ebraica: il mondo e il tempo che vengono dopo di questi.
In un gioco di incastri in cui trova parte la realtà vissuta e il racconto falsato di questa Ben Lerner (autore) ripercorre Ben Lerner (protagonista) nei mesi che ha impiegato nello scrivere il suo secondo libro, dopo che il primo (Un uomo di passaggio) pubblicato in America per una piccola casa editrice aveva riscosso un buon successo di critica.
Almeno nelle intenzioni, il secondo libro dovrebbe essere la versione allungata e riarrangiata di un racconto breve uscito per il «New Yorker» che compare al posto del secondo capitolo del libro dal titolo The Golden Vanity. La prima parte racconta questa genesi, in cui il gioco metanarrativo sta nell’indovinare la sostanzialità della kora platonica, il vissuto reale, e la progressiva edulcorazione delle sue copie, la trasposizione letteraria.
All’inizio del libro il protagonista si trova a fare i conti con la scoperta di un difetto congenito cardiaco che potrebbe ucciderlo in ogni momento, a questo si aggiunge la richiesta da parte della sua migliore amica, di fare un figlio insieme a lui. L’anticipo per il secondo libro sarebbe stato di 270000 dollari (tolte le spese).
(Grant Snider, Conflict in Literature, immagine originale qui.)
Chiesi alla mia agente di spiegarmi ancora una volta come mai qualcuno fosse disposto a pagare una somma del genere per un mio libro, specie se ancora non scritto, dato che il mio precedente romanzo, malgrado un livello preoccupante di successo critico, aveva venduto solo diecimila copie o giù di lì. Dal momento che il mio primo era stato pubblicato da una piccola casa editrice, disse la mia agente, gli editori più grossi confidavano nel fatto che la loro migliore distribuzione e promozione potesse aiutare il secondo libro ad avere molto più successo del primo. E poi, mi spiegò, gli editori pagano per il prestigio. Anche se avessi scritto un libro che non vendeva, quegli editori vendevano un potenziale beniamino della critica o un autore in grado di vincere premi: era un capitale simbolico che contribuiva a mantenere la reputazione della casa editrice anche se il grosso dei soldi li faceva grazie alla saghe di vampiri adolescenti o a uno dei pochissimi “autori letterari” di grande popolarità che vendevano davvero valanghe di libri.
Negli ultimi capitoli il racconto si sposta in Texas dove per sei settimane, ospite della Chinati Foundation, l’autore è fermamente intenzionato a lavorare intensamente sul libro. Ma lo sconvolgimento dei ritmi circadiani e un festino a base di ketamina non gli permetteranno di lavorare come vorrebbe. Cioè, lavora molto in realtà, ma non al libro che dovrebbe scrivere, per il quale ha firmato un contratto. Scrive una specie di poemetto ashberiano, in compagnia dei suoi Selected Poems. Alla fine l’autore decide di lasciar perdere la versione allungata del suo racconto: il libro che consegnerà alla sua agente sarà quello che stiamo leggendo, in un’ovvia e riduttiva rievocazione della Recherche. Nel mondo a venire è un libro molto denso, che porta a compimento la sperimentazione di Un uomo di passaggio e in cui passato e futuro si celebrano a vicenda in un continuo di rimandi proustiani.
Ma Ben Lerner è essenzialmente un poeta, è così che si vede agli occhi del pubblico. Almeno da quando, all’età di sette anni, venendo a parte del disastro del Challenger vide l’America stringersi davanti al discorso alla nazione di Reagan in televisione e si rese conto del potere della poesia sul mondo: «Il fatto che usarono il linguaggio poetica per reinserire un evento terribile e la sua immagine in un contesto dotato di senso, il fatto che la transpersonalità della prosodia costruì una comunità: mi sembrò davvero che i poeti fossero i non riconosciuti legislatori del mondo».
Quando abbiamo capito come andava, abbiamo ritirato i bambini da scuola. Abbiamo stappato l’acqua delle grandi occasioni. Due chiese unite da un vicolo imprevisto nel granturco. Come profetizza il mito hopi. Un’ingente perdita di tecnologia. Un ragno lascia un filo tra due punti. Pensaci su. Dallo spolverino sembra una cosa sontuosa. Ti fa riconsiderare completamente l’idea di proprietà. Alcuni steli interni alle formazioni hanno fatto saltare i nodi. Spiegamelo un po’, signor TV. Parte della confusione ha a che fare con le parole. Ci svegliamo con i piedi coperti di fango. L’altra parte è solo come siamo. Con la paura del nuovo anche quando ha già migliaia di anni. Se non hai mai visto un bimbo di meno di un anno che dorme e gattona oltre l’orlo della luce in veranda, chiudi il becco. Se ciò che intendo è chiaro, è già troppo tardi. Ma santo cielo, gente. Aprite i vostri cuori.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.