Massimo Arcangeli, linguista, critico letterario, docente universitario oltre che Responsabile scientifico del Progetto Lingua Italiana per la Società Dante Alighieri, analizza criticamente uno dei momenti chiave di ogni romanzo, l’incipit, pescando nel mare magnum della letteratura i più belli e i più brutti, i più o i meno significativi, i più o i meno riusciti, le partenze più magiche e quelle che tradiscono.
Prima Puntata – Paola Mastrocola, Non so niente di te (2013)
Erano seduti al tavolino d’angolo della piccola caffetteria di Broad Street, in vetrina; lui con un giaccone grigio, il colorito pallido appena un poco arrossato dall’aria del mattino e i capelli candidi ancora folti; lei con un montone dai risvolti crema, gli occhiali cerchiati d’oro a metà del naso. Davanti a loro, oltre lo spiazzo, l’imponente costruzione del Balliol College, col suo portone di legno scuro, i muri di pietra chiara, gli archi gotici e le torrette magre a cono che forano il cielo.
Lei stava dicendo a lui quanto il vento anomalo di quei primi giorni novembrini, ancora così tiepido, le intenerisse il cuore di nostalgia.
– Nostalgia di cosa, esattamente?
– Della vita che è passata, Burt, e di che altro?
– Oh sì… – sospirò lui.
Tagliando ognuno con il coltello il proprio plain croissant, imburrandolo e farcendolo con una punta di marmellata alle fragole, contemplavano assorti il grande albero al centro dello spiazzo, dolcemente scosso dal vento.
– Eh… – continuò lui. – Proprio vero che siamo come le foglie…
Judith a quel punto sorrise. La forchettina in aria, si trovò a ripensare a quei poeti antichi che aveva studiato in gioventù e che in versi straordinari avevano già mirabilmente espresso quella similitudine ormai vieta tra la vita umana e le foglie d’autunno che il suo amato Burt, tra un sorso e l’altro di filter coffee, le aveva appena richiamato alla memoria. Quand’ecco che un compatto gregge di pecore sbucò all’angolo, invase a poco a poco la via e cominciò ordinatamente a entrare, animale dopo animale, nel portone del Balliol College.
– Sheep! – esclamò Judith.
– Oh my God! – le fece eco Burt, smettendo di sorseggiare il caffè.
A menare le danze, nell’avvio di Non so niente di te, la morbidezza del quadro e la compostezza di chi lo anima; l’indugio di due anziani coniugi sulla loro vita trascorsa e sui poeti di un passato lontano; la tenuità, la delicatezza, il sapore d’antan di alcune tinte (i «risvolti crema» del montone di lei; il grigio del giaccone di lui, dai «capelli candidi» e dal «colorito pallido» del volto, «appena un poco arrossato dall’aria del mattino»); la comparazione apparentemente trita fra la china esistenziale e la caduta delle foglie in autunno; la minutizzazione di ambienti, edifici, oggetti: il «tavolino d’angolo», la «piccola caffetteria», le «torrette magre», la «forchettina in aria». Lo stile descrittivo, serio e semplice, è fedele al copione; la lunghezza di alterati e avverbi di modo (esattamente, dolcemente, mirabilmente, ordinatamente) è un invito a far sosta un attimo in più, a tirare un bel respiro prima di proseguire. La lentezza nella lentezza: la delicatezza di un vento tiepido e quell’improvviso affacciarsi di un gregge di pecore, sbucato da chissà dove, che supera ordinatamente il portone d’ingresso di un collegio oxfordiano. Ne seguiamo il movimento, «animale dopo animale»; una scena en ralenti.
I diminutivi, i colori, le foglie che muoiono, gli alberi appena turbati dal vento, le torrette del Balliol College che bucano la volta celeste, l’intrusione di un corteo bucolico di ben centosessantotto elementi in un santuario del sapere. Prove concrete di un tracciato ben segnato fin d’ora, di un quadro che si ricomporrà in forme e presenze in parte riconfermate, in parte inedite.
I diminutivi s’acquartiereranno solidi ma per molti versi evolveranno, negli intimi raccorciamenti dell’ipocoristico: Fil e Filino per dire Filippo, e poi Guidino per Guido, Gheri per Margherita, Cami per Camilla, Nana e Giu (e Giagiù) per (zia) Giuliana, Gelsa per Gelsomina, Nisi e Nisina per Annalisa, Giro per Girolamo, Jer per Jeremy. I colori si moltiplicheranno, e in molti casi si altereranno, preciseranno, specializzeranno, contamineranno: il cinerino, il biancosporco, il bianco lanoso statico del branco di ovini; il marrone grigio dell’acqua di un fiume in piena per le piogge, il «color madreperla» di un lago, il blu scuro di un giorno terso che cede alla sera, il rosso velluto di un lampone, il verde vellutato di un prato e il verde prato di una candela, con il laghetto verdastro prodotto dallo scioglimento della sua cera; l’azzurro pervinca di una sciarpa, il verdemarcio di un soprabito, il grigiotopo o il verde pavone di un doppiopetto, il grigioferro di un completo, il giallo acido di un gilet, il verde bosco di una giacchetta; il rosso fuoco di una poltrona, del cielo, della camicia di un bambino, il «color antracite» di una cartella di cuoio, il verdepisello di una scopa; il blu cupo di una massa di nubi, una luce verdazzurra irradiante dal cielo, un mare color verderame; la «sagoma tozza e rossobruna» della Tate Modern di Londra, e la carnagione rosa pallido di un giovane residente nella City; la capigliatura rosa shocking di una ragazza, quella biondo chiaro di un’altra; una «marea grigiolucida di foche, o di leoni marini», e il «giallo intenso, color beccopinguino» di un pinguino di gomma, dal mantello nerastro e dalla pancia biancastra; il color del nulla di una «casa algida».
Le foglie ingiallite (non muoiono: diventano) e gli alberi scossi dal vento saranno occasioni per prestare attenzione, per auscultare il mondo e osservarlo con occhi nuovi, con uno «sguardo lungo». Acquattati sotto un albero con una canna da pesca, attenti al moto ventoso (la carezza di un alito o un soffio, lo schiaffo di una folata), si lancia per aria la lenza e si arpiona una foglia un momento prima che si stacchi dal ramo. Ci si accorge della sua caduta prima che avvenga, per ridare valore alla ricerca di sé e al tempo; non soltanto al tempo di fare quel che non s’è mai fatto, di leggere quel che non s’è mai letto, di studiare come non s’è mai studiato (liberamente e disinteressatamente, per vederlo passare), ma anche al tempo di tornare a scrivere qualcosa su un bloc-notes che accompagni la riscoperta del piacere di lasciarlo trascorrere in pace:
Cercare in una spiaggia di chilometri il sassolino giusto, quell’unico che ha quella forma e quelle dimensioni, e quel colore e quelle striature… Perché mi fate fretta? Datemi tempo! Magari lo trovo al fondo della vita, quel sassolino, da vecchio… Che ne so? Lasciatemi studiare! Lasciatemi invecchiare!
Filippo Cantirami, il giovane protagonista, il suo tempo a un certo punto se lo riprende. Ha appreso dalle sue pecore che «non si perdono mai (o quasi mai)», perché si muovono poco. Decide così di sottrarsi alla prospettiva della vita competitiva e frenetica che altri hanno programmato per lui; di rinunciare per sempre a montare su quegli aerei sui quali è stato fatto imbarcare a forza e cominciare a prendere treni, autobus, battelli; di abbandonare le connessioni perpetue del global world e sposare la riflessione, la speculazione, la concentrazione appartata e nemica di ogni disturbante contatto; di prendere un traghetto diretto in Norvegia per realizzare il suo sogno d’amore con Frine, una ragazza incontrata una sola volta e mai più dimenticata.
Quelle torrette del Balliol College che foravano la calotta celeste subiscono uno smacco. Il sapere condizionato dallo svettante progresso cede il passo alla conoscenza libera e un po’ rétro dell’esistenza di una elementarissima soglia, di un cielo economico «che abiti stabilmente sopra di noi e ci faccia un po’ da tetto, sotto il quale provare a vivere, e a progredire, in modo nuovo». Che si maturi quest’idea ottocentesca «leggendo nuovi economisti o i classici che nessuno legge più, o guardando pascolare pecore, o pensando ai tonni e alle acciughe, o consultando i dati dell’archivio britannico, importa poco». Importa di più che quell’idea partorisca un libro importante sui limiti posti a una crescita economica che si vorrebbe invece inarrestabile, e che quel libro sia stato scritto da un economista per caso, andato a stare per sempre in uno sperduto paesino norvegese, con l’amata Frine al suo fianco, a far prima il pescatore e poi l’impiegato (un «lavoro quieto, normale, che gli lasciava la libertà di inseguire i suoi pensieri»).
Lì il cielo s’inchina e prende Filippo con sé, specchiandosi in un mare che, durante il giorno, cambia numerose volte colore e «fa diventare tutto doppio, e lo capovolge: e lui lì sopra con suo figlio, lenti, sospesi, a solcare come niente tutto quel mondo capovolto». A invecchiare finalmente in pace.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo è nato a Bologna nel 1977, è cresciuto a Martina Franca e vive a Roma. Ha esordito nel 2007 con il romanzo Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod), finalista al premio Viareggio. Nel 2008, con il racconto Ustica, il silenzio e il Segreto ha partecipato all'antologia La Storia siamo noi (Neri Pozza), che ha aperto il Festival delle Letterature di Roma. Nel 2011 ha pubblicato il reportage narrativo Le Ceneri di Mike (Fandango Libri, Premio Croce 2012, Premio Sandro Onofri 2012). È studioso di mass media e scrive di cultura per il quotidiano “l’Unità”.