Senz’altro eccellente l’idea della 72.a Mostra del Cinema di Venezia di festeggiare il centenario di Orson Welles con un evento speciale. Ottima anche la scelta di due reperti del suo lungo, contrastato e, per molti versi, tempestoso rapporto con l’Italia, e in particolare con la città di Venezia, Othello (1948-1952) e Il mercante di Venezia (1969; incompiuto). Forse la collocazione (1 settembre, il giorno prima dell’apertura) non ha giovato a dare risonanza all’evento. Forse l’organizzazione poteva essere un po’ meno improvvisata: il presidente Paolo Baratta, facendo gli onori di casa, ha letteralmente inventato un matrimonio tra Orson Welles e Lea Padovani. Può darsi che gli abbia giocato un brutto scherzo l’enfasi che stava mettendo nel sottolineare i saldi legami tra l’Italia e l’autore di Citizen Kane, che dopotutto una moglie italiana l’ha avuta davvero, Paola Mori. O forse è stato tratto in inganno dal matrimonio segreto tra il Moro e Desdemona, interpretata in un primo momento da Lea Padovani, alla quale nel libro intervista di Henry Jaglom appena tradotto da Adelphi, Welles dedica parole risentite e decisamente poco eleganti («ero pazzo di un cessetto di italiana che mi tirava scemo»). Ma, dopotutto, sono dettagli: quello che conta è che la Mostra ha puntato sul rapporto tra Welles e l’Italia, valorizzando il lavoro compiuto da Cinemazero di Pordenone (in collaborazione con il FilmMuseum di Monaco di Baviera) e dalla Cineteca Nazionale di Roma che oltre a conservare preziosi reperti della filmografia wellesiana hanno promosso un’opera di restauro.
Il cinema ritrovato
Negli stessi giorni in cui la Mostra del Cinema di Venezia annunciava la serata di pre-apertura dedicata a Welles, la Cineteca di Bologna annunciava la programmazione nelle sale italiane di prima visione di Il terzo uomo (The Third Man, 1952) di Carol Reed con Orson Welles, primo titolo della stagione 2015-2016 di «Il cinema ritrovato». Cos’è «Il cinema ritrovato»? È il nome di un festival che si svolge annualmente a Bologna ed è dedicato alla presentazione dei restauri delle pellicole che vengono salvate dall’oblio e dalla distruzione. Nato nella seconda metà degli anni ottanta, «Il cinema ritrovato» si è presto imposto come il più prestigioso dei festival del settore e ha favorito la nascita e lo sviluppo di un laboratorio specializzato (L’immagine ritrovata) che ha fatto di Bologna una capitale del restauro cinematografico. Ed ora «Il cinema ritrovato» è diventato un’etichetta della Cineteca di Bologna che, diventata casa di distribuzione, immette annualmente nel circuito delle sale di prima visione classici della storia del cinema.
Ricordiamo i titoli proposti nelle due prime stagioni. 2013-2014: Il delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954) di A. Hitchcock, Il Gattopardo (1963) di L. Visconti, Les Enfants du Paradis (Amanti perduti, 1945) di M. Carné, , Risate di gioia (1960) di M. Monicelli, Ninotchka (1939) di E. Lubitsch, La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925) di Ch. Chaplin, La grande illusion (La grande illusione, 1937) di J. Renoir, Roma città aperta (1945) di R. Rossellini, Hiroshima mon amour (1959) di A. Resnais, Chinatown (1974) di R. Polanski.
2014-2015: I 400 colpi (Les 400 coups, 1959) di F. Truffaut, Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955) di N. Ray, Tempi moderni (Modern Times, 1936) di Ch. Chaplin; Todo modo (1976) di E. Petri, Metropolis (1927) di F. Lang, Le mani sulla città (1963) e Salvatore Giuliano (1962) di F. Rosi, Barry Lyndon (1975) di S. Kubrick.
La stagione 2015-2016 comprende, oltre al Terzo uomo, legato alle celebrazioni wellesiane, tre film italiani, Amarcord (1973) di F. Fellini, I pugni in tasca (1965) di M. Bellocchio e Salò o Le cento giornate di Sodoma (1975) di P. P. Pasolini; e due classici del cinema muto tedesco: Nosferatu (1922) di F. W. Murnau e Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di R. Wiene. Completa l’offerta l’abituale recupero di un film di Chaplin, Il grande dittatore (1940): va ricordato che la Cineteca di Bologna cura da anni la conservazione e il restauro dell’intera opera di Chaplin. Come si vede, una certa attenzione viene riservata agli anniversari, puntando sull’effetto dell’azione combinata dei media (giornali, TV, editoria): tale è il caso del film di Pasolini del quale ricorre quest’anno il quarantennale della morte; o del film di Bellocchio del quale si celebra il cinquantennale dell’uscita.
Nella nostra società, forse per il progressivo restringimento di prospettive sul futuro, ci si rivolge sempre più frequentemente al passato. In nessuna altra epoca ci si è dedicati con tanto fervore alla celebrazione di anniversari. Certo, quello di custodire la memoria del passato rientra tra i fini istituzionali di un archivio, di una cineteca. In questo caso però assistiamo a qualcosa di nuovo: la cineteca esce dai confini della sua separatezza, di istituzione culturale specializzata con annesso festival, e affronta il mercato, la logica della domanda e dell’offerta, uscendo in campo aperto e sottoponendosi alla duplice verifica, al pari di una società distributrice di cinema corrente, dell’uscita in sala, prima, e del mercato dell’home video poi. Offre quindi la visione dei classici alle stesse condizioni del cinema contemporaneo e nelle stesse sale.
Come accade in settori analoghi, si scopre il valore economico del film come bene culturale che, sia pure collocato in un’area protetta, può affrontare la via della circolazione alla pari di altri beni. Offrire in sala Metropolis o I pugni in tasca significa sottrarre lo spettatore alla routine degli abituali consumi di spettacolo, indurlo ad affrontare un’idea di immagine, di ritmo, di narrazione lontana dalle sue abitudini percettive. Per cogliere obiettivi di questo tipo occorre una strategia precisa. Non alludo alle abituali iniziative promozionali (schede, pubblicità) per le quali sono previsti aiuti ministeriali (anche nel caso del cinema corrente). Si tratta di valorizzare queste proiezioni come eventi unici, solenni appunto nel senso letterale del termine, come si fa con le prime del teatro d’opera e come si fa con i collegamenti di un’intera rete di sale cinematografiche di diversi Paesi per la trasmissione diretta di grandi eventi teatrali.
Nonostante alcune riserve che ho avanzato sopra, nella proiezione dell’Otello di Welles alla Mostra di Venezia, c’è stato un aspetto altamente positivo: quello di consentire ad una platea di millecinquecento persone di assistere ad un evento unico: certo, collocare questo pubblico di non addetti ai lavori nel cuore stesso del Festival e non alla sua periferia, nella serata di pre-apertura, avrebbe avuto ben altro impatto e un preciso significato simbolico, ma anche così l’effetto non è stato indifferente.
Perché vedere i classici (al cinema)
Italo Calvino, nel suo aureo testo che fa da introduzione a Perché leggere i classici, sostiene che nell’età adulta bisognerebbe riservare del tempo per rivisitare le letture più importanti della gioventù. E ci assicura che, se i libri sono rimasti gli stessi, siamo noi ad essere cambiati, e l’incontro sarà un avvenimento del tutto nuovo.
Come vanno le cose nel campo del cinema? Prendiamo Othello di Orson Welles. E ipotizziamo il caso di un giovane che, al primo anno di università, abbia visto la riedizione al cinema di Othello nel 1992: in quell’anno, anche per interessamento di Beatrice Welles, figlia del regista e di Paola Mori, il film venne rieditato negli Stati Uniti e prontamente distribuito in Italia, in versione originale sottotitolata, dalla BIM di Valerio De Paolis. Supponiamo quindi di ritrovare questo giovane il primo settembre 2015 nella Sala Darsena del Lido di Venezia. Lui, certamente è cambiato: come minimo come spettatore cinematografico ha cambiato pelle. Se nel 1992 le videocassette VHS erano una (relativa) novità, oggi sono un pallido ricordo. Negli anni che lo separano da quella prima visione, il nostro spettatore si è abituato a vedere film in tutti i formati e in tutti i supporti. Non c’è film che egli trovi citato in un libro o in giornale che non possa rapidamente visualizzare via internet, in tempo reale e per lo più gratuitamente.
La novità è che anche il film che il nostro spettatore sta rivedendo è cambiato. E, quand’anche egli abbia ascoltato distrattamente i sermoni introduttivi, se ne accorge sentendo la voce di Gino Cervi che legge i titoli di testa, a partire dal primo cartello «La tragedia di Otello. Versione cinematografica dell’opera di Guglielmo [sic] Shakespeare» e prosegue con i nomi del Cast & Crew. Nella versione che aveva visto in gioventù quest’elenco non c’era. Subito dopo il titolo, era la voce di Welles che assumeva il ruolo di narratore, leggendo la lunga didascalia iniziale. In realtà la copia che sta passando sullo schermo non è né la versione che uscì doppiata sugli schermi italiani nel 1952, né quella restaurata del 1992 e nemmeno quella presentata a Cannes nel 1952, dove vinse la Palma d’oro ex-aequo con Tre soldi di speranza di Mario Castellani. Si tratta invece della copia doppiata in italiano, con i dialoghi a cura di Gian Gaspare Napolitano e la supervisione dallo stesso Welles, che doveva essere presentata a Venezia nel settembre 1951, ma che Welles ritirò all’ultimo momento dal concorso annunciando che la copia non era pronta. Si tratta quindi di una versione ripudiata e che nessuno, o quasi, ha mai visto. Ritirata da Orson Welles dalla Mostra del Cinema del 1951, è poi finita alla Cineteca Nazionale da dove è stata riesumata per quest’occasione.
Parafrasando alcune delle fulminee definizioni di Calvino in Perché leggere i classici, potremo dire:
I classici son quei film che tutti citano, che ben pochi hanno visto, che molti desiderano rivedere e molti di più desiderano vedere per la prima volta.
E, ancora:
I classici sono quei film che, quando te li fanno finalmente vedere ad un festival, hanno qualcosa di più o di diverso della copia che è stata vista originariamente e che, magari, ti è capitato di vedere in gioventù.
Questo è il punto: la competizione tra festival e tra cineteche produce una frenetica corsa verso i materiali inediti, le sequenze non montate, le varianti di tutti i tipi. C’è quindi una rincorsa al valore aggiunto, quando l’unico valore autentico dovrebbe essere quello della copia che effettivamente ha circolato ed è stata effettivamente vista dagli spettatori che ne hanno sancito il successo, o meno. Si ha invece l’impressione che la rincorsa alle varianti di tutti i tipi finisca per apparire una scimmiottatura delle procedure della filologia letteraria, senza peraltro ottenere risultati paragonabili. Il più delle volte da tali materiali si ottiene un arricchimento degli extra delle edizioni in dvd, ma raramente si hanno delle riletture autenticamente innovative delle opere “restaurate”.
F for Fake
A questa logica risponde la seconda proposta della serata di pre-apertura del mostra di Venezia: quello che possiamo chiamare, in modo approssimativo e probabilmente improprio, una saggio di ricostruzione di The Marchant of Venice, uno special sull’omonimo dramma di Shakespeare che avrebbe dovuto far parte di una serie intitolata Orson’s Bag e che rimase incompiuto. Ad essere presentata è stata innanzi tutto la partitura musicale scritta per il film dal maestro Angelo Francesco Lavagnino, che già aveva composto la colonna sonora di Othello. Il recupero di questa partitura musicale e delle note del compositore, al pari del recupero dello script di Welles conservato nel fondo speciale di Oja Kodar all’università del Michigan, è stato essenziale per poter procedere al tentativo di “ricomposizione” di un film non ultimato e in parte disperso.
La ricostruzione presentata con passione e competenza da Luca Giuliani, responsabile dei progetti culturali della Cineteca del Friuli, ha dato conto del lavoro compiuto per dare una forma fruibile a quanto è rimasto di quello sfortunato progetto: ed ecco la musica di Lavagnino che a Venezia è stata eseguita dal vivo dall’Orchestra Classica di Alessandria; ed ecco la messa in sequenza, a partire dallo script di Welles, del materiale superstite ed ecco infine la sonorizzazione della parte pervenutaci muta per la perdita irrimediabile della colonna sonora, ottenuta recuperando una registrazione sonora del Mercante di Venezia realizzata da Welles e dal Mercury Theatre nel settembre del 1938, comprendente il celebre monologo di Shylock.
Si tratta senz’altro di un’operazione spericolata nell’uso del missaggio e nel modo di intendere la ricostruzione del testo: una parte sonora, registrata nel 1969 e andata perduta, viene reintegrata recuperando una registrazione effettuata nel 1938, nella quale un giovanissimo Welles (all’epoca aveva 23 anni) simulava la voce di un vecchio. Forse sarebbe stato più appropriato recuperare una registrazione del monologo di Shylock registrato da Welles in Arizona in un periodo sicuramente successivo al 1969 che abbiamo potuto vedere in Orson Welles: The One-Man Band (1995), il documentario di Vassili Silovic e Oja Kodar sui materiali inediti dell’archivio Welles.
E tuttavia è da ritenere che questa operazione, per quanto spericolata, sarebbe piaciuta al Welles che, in F for Fake, a Oja Kodar che gli obietta «Il solito vecchio trucco», risponde tranquillo: «Perché no? Una volta facevo il mago di professione. E sono ancora nel ramo». Se in F for Fake il «solito vecchio trucco» era un innocente gioco di prestidigitazione, il contesto ci permette di estenderne la portata e riferirci a quanto Welles dice a proposito dei prodigi del montaggio e dei poteri magici della moviola all’inizio di Filming Othello:
“Jago passa dal portico di una chiesa di Torcello, un’isola della laguna veneziana, a una cisterna portoghese al largo della costa africana. Ha attraversato il mondo trasferendosi da un continente all’altro nel bel mezzo di una sola frase. Nel mio Othello è una cosa che capita in continuazione. Uno scalone toscano e un parapetto moresco fanno entrambi parte di quello che nel film è un unico ambiente. Rodrigo sferra un calcio a Cassio a Mazagan e riceve in risposta un pugno a Orvieto, a mille miglia di distanza. Le tessere del puzzle erano separate nel tempo e da numerosi viaggi in aereo. Non c’era alcuna continuità”.
Con motivazioni del tutto personali Welles attribuisce al montaggio una funzione del tutto omologa a quella dei trucchi (e il montaggio, nei primissimi manuali di cinema, era trattato appunto come il principale dei trucchi). D’altra parte Truffaut non aveva esitato a definire Citizen Kane «un film di manipolazione» che presenta un tal numero di inquadrature truccate da farlo sembrare «un film d’animazione a forza di manipolazione della pellicola». E anche le famose inquadrature in profondità di campo appaiono a Truffaut il risultato di un uso spericolato del trucco del mascherino/contro-mascherino che «è l’equivalente cinematografico del foto-montaggio nei giornali scandalistici».
Proprio in apertura di F for Fake, Welles mette in guardia gli spettatori con queste parole: «Questo è un film che parla di raggiri, di frodi e anche di bugie. Raccontate davanti a un caminetto, in una grande piazza o in un film, quasi tutti le storie più o meno celano una qualche menzogna».
Quello del falso, della falsificazione quale componente ineliminabile della narrazione, di ogni narrazione, è un’idea chiave dell’opera di Welles e non è un caso che egli abbia voluto dedicare a questo tema la sua opera testamento, F for Fake, ovvero F come Falso (1973): nel libro-intervista di Henry Jaglom, Welles esprime tutta la sua amarezza per il fatto che sia andato così male, soprattutto negli USA («La tragedia della mia vita è di non essere riuscito a farlo piacere agli americani»), ma ne rivendica con orgoglio il valore («penso che F for Fake sia l’unico film veramente originale che ho fatto dopo Quarto potere»).
«Come vedi sto mangiando»
Restando sul versante italiano, posso concludere ricordando alcune iniziative editoriali dedicate al centenario wellesiano. Per primo va ricordato il volume Otello senz’acca, curato da Alberto Anile, che è il nostro maggiore studioso di Welles. Una decina d’anni fa (2006), Anile aveva pubblicato un accuratissimo studio su Orson Welles in Italia. Quel lavoro viene oggi completato e integrato da questo volume sulle vicende produttive di Othello, che ha il merito di riesumare la copia in un certo senso originaria del film (L’Otello senz’acca) che è quella doppiata in italiano che Welles aveva approntato per la presentazione alla Mostra di Venezia nel settembre del 1951 e che fu invece ritirata all’ultimo momento. È stato grazie al contributo di Anile che è nata l’idea di presentare a Venezia questa copia, praticamente inedita, di cui ho ampiamente riferito sopra. Questo ottimo esempio di critica delle varianti offerto da Anile ci fa nascere l’idea che nella quantità di film non finiti, dispersi, mutilati che Welles ha disseminato ovunque nel corso della sua vita stia il segreto del non finito wellesiano. Che va cercato non negli archivi dove giacciono le copie non finite, disperse, ma nel film che stiamo vedendo, magari nella copia migliore delle copie possibili: il senso dell’opera non può racchiudersi in quello che stiamo vedendo perché ad ogni sequenza siamo inevitabilmente sospinti verso l’infinito gioco di varianti che resta necessariamente assente dal visibile ma che nel suo insieme costituisce l’idea di cinema che Welles ha perseguito lungo tutta la sua vita e che sopravvive nell’infinitezza dei materiali dispersi ovunque.
Un altro libro edito dalla Cineteca Nazionale-CSC (questa volta in associazione con le Edizioni Sabinae) è I mille volti di Orson Welles, con gli scatti, per lo più in bianco e nero, del fotografo Maurizio Maggi. Di particolare interesse quelli relativi alle riprese, effettuate in Croazia, di Il mercante di Venezia. Nel volume si trovano però anche vari contributi critici: di Alberto Anile (I primi favolosi anni Kodar), Mariapaola Pierini (Crescere e nascondersi; le maschere di Orson Welles) e Paolo Mereghetti (Welles e la critica italiana). Completano il volume un’introduzione appassionata di Giuseppe Tornatore e una conversazione di Luca Pallanch con il fotografo Maurizio Maggi.
E arriviamo infine alla autentica sorpresa del volume mandato in libreria da Adelphi, A pranzo con Orson. Conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles, a cura di Peter Biskind. Chi ha amato e apprezzato il libro-intervista di Peter Bogdanovich Io, Orson Welles o la densissima raccolta di interviste curata da Mark W. Estrin, It’s All True, troverà qui un altro Welles: provocatorio, politicamente scorrettissimo, esibizionista e tormentato, deciso a regolare i conti con il mondo intero. Spesso si ha l’impressione di un profluvio di parole in libertà, dove però nel bel mezzo di una serie di gossip perfidi o improbabili, appare un’illuminazione, un’idea critica di un’esattezza e originalità assolute.
Le trascrizioni delle conversazioni (svoltesi in un ristorante di Los Angeles nel 1983-84) comprendono anche le interruzioni dovute a qualche intervento di un cameriere (se quello chiede «È tutto di vostro gradimento?», ecco la risposta di Orson: «Scusi, ma stiamo parlando. […] Se mai avrò un ristorante, proibirò ai camerieri di fare questa domanda ai clienti»). Oppure di qualche personaggio di rilievo che si ferma a salutare: a Richard Burton che gli dice «Ti trovo bene. C’è Elizabeth con me. Vorrebbe tanto conoscerti. Posso portarla qui?» risponde secco «No. Come vedi sto mangiando». Non c’è dubbio: è un teatrino ben congegnato, dove Welles, da perfetto istrione, recita la sua parte.
Sicuramente è divertente spiluccare qua e là in cerca delle boutade più clamorose, le dichiarazioni più politicamente scorrette. Qualche esempio: «Io non credo all’uguaglianza tra le razze, tra i popoli. Secondo me le differenze ci sono eccome. I sardi, per esempio, hanno le dita corte e tozze. I bosniaci sono senza collo». «Woody Allen mi ripugna fisicamente; detesto gli uomini fatti in quel modo». «Thalberg fu il più grande malfattore della storia di Hollywood». Più interessante tuttavia è cogliere gli spunti di grande intelligenza e originalità.
Cito qualche esempio. A proposito di Sartre e della sua famosa stroncatura di Citizen Kane, Welles, butta là questo giudizio: «Secondo me lo fece fuori perché è una commedia», affermazione che non è da prendere come una boutade, ma che pone, con una certa nonchalance, la questione del rapporto di Citizen Kane con i generi classici di Hollywood. Parlando dell’attività di recensore cinematografico di Graham Green, Welles osserva che non basta scrivere recensioni intelligenti: occorre del mordente: «Siamo tutti dello stesso settore, facciamo spettacolo». Il tono rilassato e libero della conversazione permette a Welles di inserire anche notazioni tecniche molto precise, riferite prendendo magari spunto da giudizi altrui, di gente comune. Personalmente trovo molto bella la leggerezza con la quale dà questo giudizio sulla tecnica interpretativa di Erich Von Stroheim: «Lo adoravo. Era una persona magnifica. Una segretaria di edizione francese che aveva lavorato nella Grande illusione mi disse che non aveva mai visto nessuno bravo come lui a recitare con gli oggetti. Perché aveva il giornale, il bastone da passeggio, il monocolo, la sigaretta – tante carabattole. E c’erano scene dove le posava e le raccoglieva a seconda della battuta».
Vorrei concludere citando quanto Welles dice a proposito di Il terzo uomo. Innanzi tutto ridimensiona il luogo comune che gli attribuisce nell’esito del film meriti che non gli competono. Egli ammette solo di aver scritto personalmente la propria parte, perché questa era la direttiva di Carol Reed, «compresa la battuta sull’orologio a cucù». A questo punto Jaglom si sente in dovere di mostrargli che la sa a memoria: «In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù». Welles, però, non esita a definirla «La battuta più mendace che sia mai stata messa in un film per strappare la risata»: «Ammetto che è inesatta perché l’orologio a cucù viene dalla Foresta Nera, che non è per niente in Svizzera. E lo sapevo quando scrissi la battuta!».
Riferimenti bibliografici
A pranzo con Orson. Conversazione tra Henry Jaglom e Orson Welles, a cura di Peter Biskind, Adelphi, Milano 2015.
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995.
François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 1978.
Alberto Anile, Otello senz’acca. Orson Welles nel fondo Oberdan Troiani, Rubbettino-Cineteca Nazionale/CSC, Soveria Mannelli-Roma 2015.
Alberto Anile, Orson Welles in Italia, Il Castoro, Milano 2006.
Orson Welles e Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, a cura di Jonathan Rosenbaum, Baldini&Castoldi, Milano 1993.
Orson Welles, It’s All True. Interviste sull’arte del cinema, a cura di Mark W. Estrin, Minimum Fax, Roma 2010
Emiliano Morreale (a cura di), I mille volti di Orson Welles, fotografie di Maurizio Maggi, Edizioni Sabinae-Cineteca Nazionale/CSC, Roma 2015.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.