Anche noi al liceo avevamo una specie di società segreta di poeti. Dentro c’era gente che aveva preso troppo sul serio L’attimo fuggente, studenti modello avvezzi all’hashish, avvinazzati, ex rappresentanti di istituto in disgrazia, ragazzi che già cominciavano a venire a scuola con le borse di tela con le stampe di Kafka in bianco e nero comprate a Praga in gita di quarto, e poi c’era soprattutto Claudia, una tizia da cui ero stato orribilmente rifiutato a una festa di Halloween, l’anno prima, con le parole: no guarda forse è meglio di no.
Il palo più generico e immeritato che avessi mai preso.
Allora, funzionava così.
Per prima cosa ti sceglievi un poeta, e gli altri riuniti in assemblea decidevano se eri degno di entrare nella loro piccola e nemmeno tanto segreta società. Lo sapevano un po’ tutti, ma allo stesso modo si faceva finta di niente, forse per quella specie di pudore che tiene nascosti i segreti che tutti sanno sotto un sottile velo di allusività.
Guarda che Baudelaire e Verlaine sono già stati presi.
E pure Rimbaud, e Eliot, e Whitman.
Io mi giro, gli occhi a fessura e dico, guardando quello che doveva essere il capetto arrogante di quel piccolo gruppo di disadattati, come se fossi un supereroe sfigato dai poteri mediocri che alla fine è però chiamato a riscattarsi e a salvare il mondo intero, ovviamente sacrificando sé stesso e tutto ciò che ama, nell’ultima pagina di un fumetto della Marvel e dico:
Io scelgo Campana.
Si guardano, qualcuno annuisce, probabilmente non lo conoscono, l’hanno sentito solo nominare.
Campana, dico allargando gli occhi, il poeta pazzo.
Ah, allora ok.
Fingevo di conoscerlo da anni, anche se in verità io Campana l’avevo scoperto pochi mesi prima, quando Stefano Accorsi aveva urlato le sue poesie dalla trasposizione cinematografica di Michele Placido a una Laura Morante antica, da cartolina. Era il settembre del 2002, io avevo quindici anni, i capelli corti, e orbo alla mia stessa ridicolaggine, avevo cominciato, in un eccesso emulativo che i miei amici avrebbero dovuto contribuire a moderare, a fumare la pipa. Cominciai a imparare a memoria le sue poesie e molti dei suoi pezzi di prosa. Avevo per lui una fascinazione esagerata, che negli anni successivi ho provato, con la stessa intensità, solo per Montezuma, Casanova, Giordano Bruno, Tutankhamon, Ermete Trismegisto e Stefania Sandrelli. Qualche anno dopo, quando venne il tempo dell’esame per la maturità orale e la società segreta scomparve definitivamente (e il cui solo atto pubblico fu attaccare alle porte delle aule una specie di manifesto programmatico dalla dubbia ortografia), mi presentai davanti a quella commissione recitando un pezzo di Giornata di un nevrastenico, che nella parte più accorata grida Oh Satana, abbia pietà della mia lunga miseria! Pensavo di essere molto fico nel pronunciare ad alta voce la parola Satana (non lo ero: un tizio che era stato bocciato più di una volta uscì bestemmiando dall’aula, ridimensionandomi all’istante).
Dieci anni dopo, mi toccò scegliere Campana un’altra volta, quando con l’avvento prepotente di facebook cambiò la gestione dei rapporti umani con i propri idoli.
Mi rendevo conto che c’era una specie di corsa all’oro dei domini più importanti, un po’ come fanno quelli che registrano siti tipo galaxy.com o iphone6.org e poi decenni dopo li rivendono al prezzo di milioni di dollari. È un modo intelligente, per fare i soldi, perfino onesto, ma l’attributo principale che devi avere è la lungimiranza e quella ormai ce l’hanno solo i musicisti con le maglie a righe, lo scollo a barchetta e un debole per l’elettronica. In un’aula studio della facoltà di filosofia, un pomeriggio che fuori c’erano le lauree, mi accorsi che nessuno aveva fatto il profilo di Campana. Eppure Tutankhamon c’era. E pure Montezuma.
Non era possibile.
Nemmeno Stefano Accorsi ci aveva pensato.
Il mio poeta preferito (che modo brutto per dirlo) non aveva un degno rappresentate virtuale su internet. Quello che io consideravo, e per certi versi considero, il più grande poeta del 900 italiano era muto, inesistente, semplicemente l’inconscio collettivo se ne era dimenticato. C’erano vari profili di Stefania Sandrelli, però. Naturalmente, dato che la mia indole non mi permette neppure per un minuto di farmi i cazzi miei, era evidente che toccava a me ovviare a tale incomprensibile delitto letterario.
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Dino Campana, Marradi, 1885 – 1932.
Da allora sono il felice gestore del suo profilo (e di quello di Ermete Trismegisto, ma con meno soddisfazione) e anche se mi limito semplicemente a pubblicare i suoi versi c’è da dire che la sua poesia più famosa (ma forse quella meno indicativa del suo stile), In un momento, ogni volta raggiunge trecento like e un centinaio di condivisioni. Forse è la sola poesia che viene letta, che viene riconosciuta. Le altre sono intrise di simbolismo, di orfismo, sono versi oscuri che hanno per tema la notte, o il viaggio, meccanismi allucinatori all’interno dei quali il senso, se non si perde, viene diluito dalla purezza del suo intento. In una parola sono meno immediate. Non credo che ci sia nulla di scientifico, nell’amore che provo per Campana, nessuna motivazione pratica. É necessario che il significato della visceralità rimanga celato, e che nessuno sia aruspice abbastanza da trarre conclusioni troppo nette, da una poesia che è fatta di dolore e incomprensione e solitudine, ma che è anche veicolata da una voce potente, cristallina, pura: E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola / ma c’è / Nel cuore della sera c’è, / Sempre una piaga rossa languente.
Lessi tutto quello che c’era da leggere su Campana e sulla sua storia. Le introduzioni ai libri, il carteggio con la Aleramo e le lettere a Cecchi, in qualche modo mi innamorai di questo poeta sfortunato e terribile, che aveva inviato l’unica copia del suo manoscritto a Soffici e questi l’aveva perduto, costringendo Dino, già provato dal male oscuro che non lo abbandonerà mai, a ricompilare daccapo i versi che aveva scritto. Nascono così I Canti Orfici. Lo sforzo mnemonico eccessivo gli sarà fatale. Nel 1918 varcherà per l’ultima volta i cancelli dell’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci: ci rimarrà fino alla morte, avvenuta quattordici anni dopo. La leggenda vuole che di tanto in tanto Sibilla vada a trovarlo e che lui non riesca a riconoscerla. Io a questa storia non ci ho mai creduto, penso che Dino avesse già sofferto abbastanza per dover anche sottoporsi alla pena di dover vedere e riconoscere l’unica donna che avesse mai realmente amato. Come se le manovre elettro-terapiche per calmargli i nervi tesi non fossero abbastanza (Cara, se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia vita).
Inizio a sapere delle cose che lo riguardano. A conoscere quest’uomo da un solo libro. Mi faccio regalare il cofanetto dei suoi canti recitati da Carmelo Bene, che si chiude con un nastrino di raso.
Ma non avevo ancora visto Marradi.
Uno di quegli orrendi giorni dopo esserti fatto lasciare una tizia carina che pure non meriteresti, in cui ti dici che devi fare qualcosa della tua vita, Cristo, devi muoverti e fare cose nella speranza che una qualsiasi cosa significativa ti esploda in faccia e cambi tutto quello che ti viene da pensare della tua esistenza, avevo rubato nella qualità di diciannovenne in lacrime la macchina di mio padre e, forte della benedizione del telepass incollato sul cruscotto, avevo preso l’A14 a San Benedetto del Tronto, direzione Bologna. Da lì in qualche modo avrei raggiunto Marradi. Non sapevo bene che cosa mi aspettassi di trovare, forse era semplicemente perché mi ero sentito solo e credevo che magari avrei trovato lì, a casa di Dino, qualcosa che mi facesse pensare che tanto solo non ero (non lo ero veramente: il mio era il classico vezzo adolescenziale di una depressione facilmente risolvibile con la tequila arancia e cannella).
Marradi è un paesino disteso sul Lamone (le cui sorgenti Dino conosce bene e che ora sono diventate una frequentata meta turistico/poetica), ci si arriva dopo molti tornanti, sulle note di un album di Guccini. Quando arrivi nella piazza principale del paese, parcheggi, ti accorgi che il cielo è terso, e se ti siedi su una panchina e guardi il campanile della chiesa che si staglia davanti a un blu molto intenso ti tornano in mente le poesie meno conosciute. Pensi che abbia dovuto descrivere quello stesso cielo, in un certo senso ti senti a casa, c’è qualcosa che accomuna, in quell’autencità e in quell’atmosfera che speri non debba essere cambiata molto. Pensi a un ragazzino sveglio, curioso, che a poco a poco sostituisce il suo carattere eccentrico con un nervosismo da curare, pensi ai manicomi, ai fogli di via, al non riuscire a dare un nome alla voce che ti parla dentro, a un viaggio di poche settimane in Argentina, alla sifilide, al volto dolce di Sibilla Aleramo. Alla poesia che diventa prima il balsamo di una salvezza in cui nessuno crede, che dovrebbe salvare un’esistenza senza soddisfazioni, e poi il veleno fatale che fa il suo lavoro dall’interno senza che te ne accorgi.
Ti alzi, chiedi nell’unico bar aperto, gestito da una signora bionda con una piccola cicatrice sulla guancia destra che però le dona, dov’è che si trova il centro di studi campaniani e te lo indicano, è poco più sotto, procedendo per la strada, dieci minuti a piedi. Ringrazi e cammini con le mani in tasca, potresti toglierti il cappotto ma non lo fai anche se comincia a fare più caldo di quello che pensavi. Le porte dell’istituto sono chiuse, è domenica, dovevi pensarci prima. Ti siedi lo stesso un attimo, fuori dall’istituto c’è una seduta di legno, sforzandoti nel cercare di sentire una qualche specie di spirito poetico, con la paura di non coglierlo, di non sentirlo.
Ora sei calmo, il viaggio ti ha rilassato. Non è che ti senti meno solo ma inspiegabilmente ora pensi di potercela fare, in tutta la generica banalità della frase. Ma quello che sai è che qui ti piace, che dev’essere un bel posto per impazzire, per diventare un poeta.
Torni al bar, deluso ma nemmeno tanto. Ordini qualcosa da mangiare ed è lì che la signora di prima si incuriosisce, vi chiede che cosa ci fai lì, che non ne vedono molti di turisti, in questa stagione. Rispondi sorridendo, anche con un po’ di vergogna che non sai bene da dove viene, che sei lì per Dino, e che ci avresti dovuto pensare prima, ché la domenica sono aperte solo le chiese.
La signora ti guarda qualche secondo di troppo, ti dice di aspettare un attimo.
Prende il cellulare, fa una telefonata. Da dietro al bancone del bar riesci ad afferrare le parole ragazzo, campana, domenica.
Si dà il caso che lei conosca il direttore del centro, utilizza il registro vocale che si usa tra i parenti, che ti dice che lo fa volentieri uno strappo alla regola. Ti apre l’istituto, lasciandoti un’ora buona tra le fotografie dell’epoca e le prime edizioni. La passi leggendo le didascalie, e facendoti autoscatti dal cellulare con le gigantografie del volto di Dino sullo sfondo. Te ne vai con una busta piena di cartoline, due adattamenti teatrali della vita di Campana e la promessa di tornare prestissimo.
Ancora non ci sono mai tornato, a Marradi.
Per tornare a casa sbaglio autostrada e passo per un paese che si chiama come il cognome di quella ragazza che mi aveva lasciato il giorno prima. Fa meno male e lo farà sempre di meno, ogni giorno che passa, senza il bisogno di dimenticare nulla.
Ogni volta che penso a lui, o che rileggo una sua poesia, penso invece a una vita che è quasi un sacrificio obliato, a una colpa ecumenica che lo dissangua, e alle parole, “le uniche importanti di tutto il libro”, che suonano come una specie di giudizio vendicativo: they were all torn and covered with the boy’s blood.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).