Bruno se ne stava affacciato al balcone di casa sua, una serie di questioni gli abitavano nella testa mentre stringeva tra le mani una tazzina del caffè. Casa sua era la casa della sua famiglia, nei palazzi dei ferrovieri a San Lorenzo e da quando era scoppiata la pandemia si sentiva più morto che vivo. Pensava a tutta quella gente che non si vedeva più, che se ne stava chiusa dentro casa per paura di morire e per mandato governativo. Si grattò la testa come se avesse qualche creatura da ammazzare che si era infilata nella fitta boscaglia dei suoi riccioli, fece uno sbadiglio fragoroso e rientrò dentro al salone. Diede un’occhiata all’orologio a pendolo che segnava le otto meno dieci. Accese la radio senza ascoltarla e si mise a guardare tutte le foto dei morti che stavano sul mobile. I morti antichi, quelli in bianco e nero, che non aveva conosciuto, ma di cui portava qualche particolare sul corpo e poi c’erano i morti nuovi, quelli per cui aveva provato anche lui un dolore forte. La zia, i nonni, il padre. Cose normali che prima o poi ci si deve aspettare dalla vita. «La gente more Brunè», gli diceva sempre il nonno mentre sulla Tiburtina passavano i carri funebri. «Quando moro io – continuava – dovete prende una cassa de legno, fate fa la quattro spacchi agli angoli così le bestie me se magnano prima e finisce tutto». A Bruno non disturbava il pensiero di quelle parole, del corpo che scompare, ma la sua mente era concentrata nel pensare all’accadimento che ogni morte provoca ovvero la sparizione di un pezzo di città.
Gli venne in mente un verso di Alfonso Gatto, un poeta che aveva studiato all’università per via di una molesta passione del suo docente: «Ma tutto è eterno per chi passa» e pensò che in mezzo a quella pandemia, alla desolazione di strade vuote e cimiteri pieni e lui che vicino al cimitero c’era cresciuto e vissuto aveva un rapporto di quieta vicinanza con i morti. Alle otto del mattino, di un giorno che vai a ricordare quale sia esattamente perché i giorni in questi mesi sembrano tutti uguali, Bruno aveva diverse possibilità di svoltare la mattinata la prima risiedeva nell’andare al supermercato e la seconda di andare al cimitero. Virò sul Verano, dove andava spesso e si domandava spesso se un giorno sarebbe diventato un morto antico, di quelli con le lapidi coi nomi cancellati, che qualcuno guardava con commiserazione. Quelle lapidi col vellutello e qualche merda di piccione a decorazione che ispiravano sempre misericordia negli occhi di chi passa. Le guardava tutte le lapidi Bruno, come si guarda una donna negli occhi, le osservava faceva di conto tra la data di nascita e quella di morte e contava gli anni: troppo pochi, troppi, giusti, medi, ingiusti. Poi si accorse di un grande frastuono, di bestemmie e vide file e file di barre accatastate, morti di giornata, di mesata lasciati in mezzo al deposito bare.
«So’ i morti der covid», gli disse un becchino, che continuò «so’ troppi, ne arrivano ducento ar giorno. Non riuscimo a daje foco e se creano le fila. Li parenti se incazzano, come se li avessimo sfrattati, ma ar morto poco je cambia de sta in magazzino o sotto tera». Bruno non disse neanche una parola perché gli sembrava inutile parlare con quel tizio che trattava i cadaveri come nettezza urbana. Scosse la testa e continuò a camminare, arrivò verso il crocione e salì dentro una di quelle palazzine rosse con i loculi dentro, meno monumentali rispetto alle tombe a terra, una sorta di case popolari per i morti. Si fermò davanti alla tomba di una ragazzina, morta a tredici anni che sorrideva incorniciata da fiori finti e peluche impolverati. Bruno pensava al fatto che non sarebbe mai diventata madre quella ragazzina, manco moglie, amante, donna. Passo davanti a quella ragazzina e salì di un piano ancora. All’improvviso il sangue gli si fece freddo o almeno lui penso che fosse il sangue. Si trovò davanti una lapide bianca con la foto sua che sorrideva, i capelli ricci e la maglia rossa. Sopra c’era scritto il nome suo, col cognome stampato chiaro e la data del compleanno suo e quella della morte. Bruno urlò: «Aho ma che è no scherzo? Aho uscite fori, mortacci vostra che me volete fa morì d’infarto?»
«Ah Brù, non se po’ morì du volte e tu già sei morto e manco da poco», gli rispose una voce che riconosceva familiare.
«Aho ma che stai a di, ma chi sei?», disse Bruno con voce tremolante.
«A fregnó, so’ tu nonno, mica er padre eterno. Se te giri me riconosci».
Di fretta Bruno si voltò e vide il nonno dentro un completo di viscosa, gli sorrise e disse: «So’ vent’anni che sei morto e non te ne sei mai accorto. T’hanno sparato mentre tornavi a casa, i giornali scrissero che ci fu un errore di persona, poco dopo so morto pure io de crepacore. T’è c’è voluto er silenzio del coprifoco pe’ ritrova’ la via de casa, per torna’ in pace ner mondo che te compete».
«Ah No’, ma che stai a di’? Io mi ricordo che stavo a vive fino a stamattina, le foto nel salone, il sole alla finestra, il caffè che me so bevuto.»
«A Brù, ma so vent’anni che nessuno te parla! So vent’anni che tu madre piagne, che viene ogni giorno ar composanto, qua davanti. Sei morto e manco è la cosa peggiore che te potesse capita’.»
«A No’, te giuro non ce sto a capì niente. Me sento de morì, ma forse è un sogno e mo’ me sveglio. Ma che davvero?»
«Eh davero. Però mo’ non te agita cocco bello, che la vita è una questione de attimi, viè co’ me che te racconto, nel frattempo abbi la consolazione che sta’ città rimane nostra. Roma è più dei morti che dei vivi ormai.»
Bruno si grattò quel bosco che aveva in testa e prese sotto braccio il nonno, mentre a Portonaccio strillavano le ambulanze e in lontananza si sentiva un boato dal Gianicolo che annunciava che era mezzogiorno. E la città era davvero loro.
Massimiliano Coccia, romano classe 1985, vive a Torino. Lavora a L'Espresso dove scrive inchieste e reportage su corruzione, mafie ed estrema destra. É autore del podcast Amen prodotto da StorieLibere.fm e nato dalla sua inchiesta sullo scandalo che ha costretto alle dimissioni il cardinale Becciu. Ha lavorato dal 2015 al 2021 per Radio Radicale. Ha vinto il Premio giornalistico Pietro Di Donato e il Roma Best Practices Award. L’anno prossimo uscirà il suo primo romanzo.