Dopo ho rimpianto, di un viaggio in Siria, persino la mancata visita alla colonna di San Simeone Stilita. Non andai con il gruppo perché quel pomeriggio mi volevo allenare. Ci sono cose che non ho visto e appuntamenti cui sono mancato per non sacrificare un’ora, un giorno di arti marziali. Valeva la pena? Probabilmente no.
Non valeva la pena. Quando ho cominciato a pensarlo mi sono pure consentito la scrittura, prima paventata come tempo tolto al Kung Fu (al più alla lettura).
Tempo perduto.
Non mi suggestionò Mishima descrivendo in Sole e acciaio il rapporto fra letteratura e arti marziali. Aveva cominciato il Kendo troppo tardi e ne risultava insopportabilmente invaghito, come chi scopre dopo il dovuto una passione e se ne lascia prendere per mania e con logorrea. Conciliai la relazione tra i due mondi per un altro libro: Quando vi ucciderete, maestro? di Antonio Franchini. Merito, o colpa sua, mi persuase delle contiguità tra penna e spada più che di un loro meccanico parallelismo. Sentii, su quelle pagine, ciò che la tradizione cinese mi aveva già enunciato ma senza l’emozione narrativa. Wen e Wu, lettere e arti marziali, concorrono a un tipo umano che può finanche diventare dio taoista. Guan Yu nella completa ipostasi è chiamato Wen Wu. Può essere raffigurato seduto che sfoglia gli Annali Primavera e Autunno (il classico più amato da Confucio) o in piedi con l’alabarda appunto battezzata Primavera e Autunno.
La scrittura e la lama. Il combattimento e le parole.
C’è un nesso che può cogliere chi frequenta i due ambiti, o almeno intuire. Il Karate e il Kung Fu, applicati a movimenti formali più che realistici, conducono sovente alla rovina dei virtuosi quando affrontano l’avversario vero. Avvertiva un maestro: Mhou hohk séi kung fu,
“non imparate il Kung Fu morto”. Alludeva a quelli che in letteratura Pontiggia definì, usando proprio una metafora sportiva, “palleggiatori da fermo”: conversatori brillanti, coltissimi però incapaci di esplicare cospicua virtù nella “partita” della scrittura.
Piaceva a un altro maestro un proverbio che suona in cantonese: Màhn Mòuh Daihyat.
Mouh Mòuh Daihyih: “Nelle lettere nessuno si proclama il migliore. Nelle arti marziali nessuno si proclama secondo”. Alla fine la pagina, un ring o il tatami maturano il verdetto. Premia generalmente più il carattere che un talento incostante.
Bruce Lee il Piccolo Drago morì quarant’anni fa, il 20 luglio ‘73, per un malore mai del tutto chiarito. Aveva trentadue anni, tempo breve ma sufficiente a diventare star del cinema, fondatore di un metodo informale di combattimento (il Jeet Kune Do) e autore di un libro di alquanta profondità filosofica. Ha influito forse più di chiunque nel rapporto fra Oriente e Occidente nel secondo Novecento.
Mettendo piede sulla sua nave per la prima volta, il capitano di Conrad in Linea d’ombra osserva l’andirivieni di marinai asiatici e si fa una curiosa, retorica domanda. Quella “congrega”, dice, “di coolies gialli e indaffarati attorno al boccaporto principale era meno concreta della materia di cui sono fatti i sogni. E in effetti, a chi mai verrebbe in mente di sognare un cinese?”.
Prima di Lee non so quanti desideravano essere cinesi. So che dopo, ancora quarant’anni dopo, molti occidentali sognano un corpo come il suo.
Sognano un cinese.
La muscolatura supponente di un culturista non seduce quanto l’abilità di esprimere se stesso con la potenza di una tigre o l’eleganza della gru. Nessun tatuaggio, nessun completo Armani competono con la molteplicità della rivelazione fisica che una mente si è spesa ad abbellire.
Ma in Bruce non si risolse solo la vicenda di un ambizioso praticante. Nell’Ottocento la Cina patì l’ossessione del confronto con le potenze occidentali e asiatiche. Il programma politico detto ziqiang auspicò il rafforzamento bellico e ispirò il miglioramento individuale. Se i corpi dei singoli fossero diventati più forti, l’intera Cina lo sarebbe stata. Negli anni successivi si fece promotore della causa anche il maestro Huo Yuanjia, creando la scuola Jing Wu Men di arti marziali. La morte precoce, forse avvelenato dai giapponesi, ne accrebbe la fama poi profusa nella novellistica e nel cinema. Il Piccolo Drago fu protagonista della pellicola più celebre sulla vicenda: Dalla Cina con furore. L’ultima, Fearless con Jet Li, è del 2006.
Bruce Lee completò attraverso il cinema la missione del maestro, perché solo con lui si sancisce la forza di un corpo cinese dal Giappone all’Occidente, prevalendo sulla caricatura del coolie con il codino e del perfido Fu Manchu. E’ per lui che Conrad non potrebbe più farsi quella strana domanda. Mi ha detto cosa pensa Jason Y. Ng, autore del brillante libro Hong Kong State of Mind: “Bruce Lee faceva Kung Fu, parlava inglese accentato e vestiva un’attillata tuta gialla. Non infranse gli stereotipi razziali. Li rafforzò. Ma lo fece in modo che gli asiatici apparissero dei tipi tosti, terribili e incredibilmente fighi. Anziché pretendere di essere qualcuno che non era – come molti sinoamericani di quel tempo – accettò la sua identità e così facendo legittimò noi tutti. Perciò Lee è stato un’icona culturale”.
La sua morte, prematura come quella di Yunjia, ne ha confermato il corpo invece di smentirlo, consegnando le sembianze al mito di un’eterna forza come Marylin fu congelata nell’infrangibile bellezza. Si traduce d’altra parte Perenne primavera il nome Wing Chun, stile su cui Bruce si formò da ragazzo per farne a meno dopo.
A Hong Kong, con centinaia che ce ne sono, io e Jeffrey capitiamo un’altra volta in uno stesso albergo. Vengo da Roma, lui dalle Hawaii, per i funerali del nostro Sigung. Il gran maestro Lam Jo è morto a 102 anni, o 103, perché i cinesi d’una volta contavano l’età dal concepimento. Fu Jeffrey, conosciuto molti anni prima nella hall di un altro albergo, a presentarmelo e a introdurmi in casa sua. Ora si chiude il cerchio. Cantonese di passaporto americano, Jeffrey mi spiega che “è il nostro yuanfen”. Provo a tradurre. Yuanfen è un circolo tracciato dal Fato su cui è scritto che due persone s’incontrino per diventare amici o amanti, e su cui per quanto camminino distanti si ritroveranno in una stessa vita o nella successiva. Chi sorride chiuda qui, sul punto e a capo. Sto per scrivere di peggio.
Nella Universal Funeral Parlour, vestiti di nero, passiamo il pomeriggio prima delle esequie per accogliere chi viene a porgere omaggio. La sala dedicata alla funzione è molto grande, decine le corone floreali appoggiate alle pareti. La fotografia del maestro campeggia sul fondo tra le calligrafie celebrative. Lui, che fu “leggenda vivente” del Kung Fu, aveva formalmente abbracciato la fede cattolica e secondo questo rito sarà commemorato. L’edificio è però aperto a tutti i culti e incrociamo un bianco gruppo taoista che prende l’ascensore per un piano superiore. Caricano case e automobili di carta colorata, mazzetti di “banconote dell’inferno” e tutti gli accessori che adesso bruceranno per approvvigionare chi ha appena passato il confine. E’ puerile la superstizione laica, quando irride qualunque atto di sacra tenerezza che allevia le ferite da coltello del dolore.
Mi voglio ricordare questa strada nel distretto di Hung Hom, che forma con altre circostanti una stazione di smistamento per la morte nell’alternanza di funeral home, negozi di fiori, feretri e ogni mercanzia necessaria a chi – disteso o all’impiedi – arriva qui. Mi voglio ricordare con oggettività: perciò con la Nikon Coolpix prendo le foto della sala e dell’esterno. Voglio ricordare anche il nome della via, così faccio uno scatto all’insegna toponomastica. Quando controllo sul display, la targa bianca di Cheong Hang Road risulta completamente avvolta da una tenebra fuligginosa e inspiegabile nella luce pomeridiana del 25 aprile. Gli scatti prima e dopo sono invece perfetti. La macchina ha registrato i pixel della morte, sfuggiti agli occhi ma catturati in digitale.
Bruce Leung mi crederebbe.
Fu il migliore tra i cloni del Piccolo Drago, quelli impiegati dopo la sua morte nella cinematografia hongkonghese per produrre decine di film che sfruttavano il successo dell’originale. Passata la moda, la fama di Leung si offuscò. Riapparve nel 2004 per fare il cattivo nel parodistico Kung Fu Hustle di Stephen Chow. Lo incontro una sera sul rooftop di un palazzo a Kowloon. Gira un combattimento per il film tratto dal cupo manga Sasori. L’attrice giapponese Miki Mizuno attacca con una katana (di balsa) e Leung Siu-lung (questo il suo vero nome) la fronteggia a mani nude con una grottesca pelliccia e un colbacco in testa. Finito di lavorare, mentre chiacchieriamo è afferrato da un impulso: “Ora ti faccio vedere una cosa…”. Mi mostra nella fotocamera un giardino notturno illuminato dai lampioni: “Guarda lo scatto successivo!”. Una nube grigiastra condensata al centro della scena s’alza improvvisa. Nella terza immagine assume ipotizzabili sembianze umane: “E’ un gwai, un fantasma! Guardalo!”. Ha preso la sequenza durante la lavorazione di un altro film in Cina.
Non sa giustificarla se non con un evento paranormale. Penso: ho trovato un altro come me. Uno che ci può credere.
Gli fecero interpretare il fantasma di Lee nel demenziale The Dragon lives again. Esorcizzava in trash la comune convinzione che il Piccolo Drago non riposasse in pace. A Hong Kong lo supposero da quando la sua bara si spaccò nella traslazione a Seattle. Il figlio Brandon, che ora gli riposa accanto, rifiutò d’impersonare il padre nel film biografico Dragon, in cui s’immagina un demone che vuol ghermire anche lui per una maledizione perpetuata attraverso le generazioni. Nel ’93, due mesi prima che Dragon arrivi nelle sale, Brandon resta ucciso by accident dal proiettile di una pistola di scena sul set di Il corvo.
Alla Universal Funeral Parlour, l’indomani mattina, introducono da una porta posteriore il carrello con la bara del maestro. E’ sistemata nel mezzo della sala con il coperchio alzato per l’ultimo saluto. Ciascuno passando depone una rosa nella cassa. Al mio turno guardo il suo volto pesantemente preparato – la morte risale a un mese prima – ma neanche per un attimo voglio identificarlo con la persona che a cent’anni, stringendoti la mano, la faceva dolorare. Penso a quanti uommene scicche e ffemmene pittate aspettano immobili, nei locali retrostanti, il proprio turno per l’esposizione finale.
Penso per analogia all’immagine del Piccolo Drago nella bara, vista nei documentari e che riguardo adesso su Youtube. Mi chiedo quale sia il momento in cui il corpo di chi abbiamo conosciuto vada dissociato dal cadavere. E in che misura è possibile. Credo meglio farlo prima che finisca tutto. Credo all’esempio di Anita Mui.
Stella dell’arte.
La morte fa un curioso giro tra le stelle vent’anni dopo la fine di Bruce. Vent’anni fa. La sua parabola punisce Hong Kong passando per il North Carolina, dove il 31 marzo si prende Brandon Lee. Il giorno seguente Leslie Cheung, il più famoso artista hongkonghese, si getta dal ventiquattresimo piano del Mandarin Oriental, nel cuore dell’isola, esasperato da una depressione che non riesce a vincere. Era il migliore amico della “regina del pop” Anita Mui, con cui aveva diviso successi musicali e cinematografici. Legati da yuanfen, titolano Yuanfen una canzone a due voci. Il vincolo non si completa nella vita. Lui è omosessuale. Si compie forse nella morte.
Poco dopo il suicidio di Leslie, Anita si scopre un cancro all’utero. Tiene segreta la notizia ma già gira la voce e i paparazzi la pedinano da casa agli ospedali. Convoca allora una conferenza stampa in cui racconta tutto assicurando che vincerà la lotta. Più tardi, quando intuisce che non ce la fa, tiene una serie di concerti. Veste nell’ultimo, del 15 novembre, un abito da sposa. Non è costume di scena: l’ha fatto cucire apposta anche se lo indosserà solo stasera. Ha compiuto quarant’anni e confida al microfono il rammarico di essere stata prossima più volte al matrimonio e di avere rinunciato. Ormai è tardi. Ma se lei, cantante, è “sposata” al pubblico, esorta le ragazze a non esitare troppo: “Aspettando che vi arrivi Beckham, verrà il giorno che accanto non troverete nessuno”. Song of Sunset (Jihk yèung jì Gò), che esegue subito dopo, è un suo classico. Splendida – dice – è la luce del sole al tramonto però dura una manciata d’istanti prima che scenda il buio su irrimediabili rimpianti.
Saluta il pubblico dalla sommità della scala percorsa cantando. Le stoffe, il maquillage, il timbro espressivo e profondo della voce celano gli effetti del male e la durezza delle terapie. Anita si congeda all’apparenza intatta. Muore quarantacinque giorni dopo, il 30 dicembre del ‘93.
(Con Leslie la prova più brillante fu Rouge di Stanley Kwan, che trionfò all’Hong Kong Film Award. Due giovani amanti decidono il suicidio ma lui all’ultimo non se la sente. Invano lei attende nell’al di là per cinquant’anni, finché torna a cercarlo sulla terra. La sua apparenza di fantasma è intatta perché ferma all’istante in cui morì, mentre il corpo dell’uomo ancora vivo risulta devastato da vecchiaia, rimorsi e povertà. Come accade a chi da un grattacielo si schianti).
Quanto cambia il corpo. Come cambiò quello di Lee. E’ evidente la progressiva trasformazione dagli anni della prima giovinezza ai mesi che precedono la fine. Appare maturata per effetto di insistito allenamento e febbrili aspirazioni. Sempre più definito ogni muscolo, la pelle come scurita, il volto fatto magro. Borges, nel racconto L’altro, dovette diventare anziano per non riconoscere se stesso ragazzo. Bruce già a trentadue anni avrebbe giudicato estraneo l’adolescente che s’accingeva a lasciare Hong Kong per l’America dopo aver vinto un campionato di Cha cha cha e fatto così spesso a botte. Quando conobbi l’attore Stephen Au, assomigliava in modo impressionante al Piccolo Drago prima maniera, solo più alto. Fece di tutto per accentuare l’affinità, dallo studio delle arti marziali al modo di parlare perseguiva l’ideale di una replica. Nella certezza che Bruce lo avesse frequentato, bevemmo assieme al Mido Cafè, miracolosamente conservato intatto dagli anni Cinquanta all’angolo col tempio di Tin Hau. Imprese notevoli di Stephen furono il film What you gonna do, Sai Fung – in cui impersona il nostro eroe nel periodo hongkonghese – e l’apertura di un negozio dedicato al merchandising di Lee. Aspirava a essere un mini-museo, con memorabilia (tipo un giaccone di pelle), curiosità e videocassette da tutto il mondo. Regalai Il furore della Cina colpisce ancora, che gli mancava in italiano. L’attività fallì perché gli stessi prodotti venivano venduti, a metà prezzo, nel mercato notturno a Temple Street e perché il Governo non volle sostenere mai le sue iniziative.
Rivisto anni dopo, in un programma della Tvb, resta un bell’uomo ma imbolsito e non sembra più il giovane Bruce. Davvero, come cambia il corpo.
Su un punto Stephen aveva ragione. Hong Kong ha ignorato per anni la memoria del celebre figlio. Più che dimenticanza, quasi per un imbarazzo a bassa intensità (dicono “non scordo ma non ci penso mai”).
Per trovare traccia del Piccolo Drago bisognava salire al quartiere bene di Mid-Levels, dove John T. Benn, gangster di L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, aprì il Bruce Lee Cafè. Ho tra le mani il menù che mi donai lasciando l’ormai defunto ristorante: un Fish of fury costava 78 dollari locali; altrettanto la Jkd Yin/Yang Pizza; il Flying Kick Chicken 98 dollari.
Bisognava, per trovare traccia del Piccolo Drago, affidarsi alle parole dei maestri della sua generazione. Non mancava quasi mai chi conosceva qualcuno che lo aveva sconfitto da giovane. È come i pentiti di mafia che accusano i morti (perciò le loro chiacchiere ho dimenticato per principio). Nel 2005 gli hanno eretto una statua sul waterfront di Kowloon, fra le più gettonate cartoline ove s’accalcano, per immancabili fotografie, i turisti della Repubblica Popolare. A quarant’anni dalla morte il Governo s’è svegliato con un’esposizione di alcune centinaia di pezzi. Manca il museo dove metterli. Si pensava all’ultima casa di Bruce, poi diventata albergo a ore, ma è saltato l’accordo con il proprietario.
Il suo corpo, nell’ultima trasformazione, è stato ricostruito al computer. Il volto, i gesti, la voce sono quasi perfetti per la pubblicità del Johnnie Walker Blue Label. La beffa è che lui aborrì il whisky e non parlava mandarino (la lingua dello spot) ma cantonese.
Il filmato sconcerta molto più degli ingenui cloni umani di una volta: è di ciascuno possibile una replica virtuale per fingere quel che si vuole. Dal mondo di ieri guardo certi spezzoni rovinati dellla pellicola incompiuta The Game of Death. Bruce prova un calcio laterale volante al viso di Jabbar, il mitico campione di Basket mezzo metro più alto. Prova a ripetizione per la migliore esecuzione e impressiona l’assenza di trucchi, cioè l’imprescindibilità da un corpo vero e allenato. E’ la ragione per cui, nel mondo di ieri, m’affaticai con dedizione rinunciando a appuntamenti o a pagine da scrivere. Preferii lavorare sull’acqua di un’arte più effimera, di cui labili memorie saranno inutile testimonianza. In una sequenza prestabilita tiravo un calcio all’inguine al mio partner, che doveva bloccarlo incrociando gli avambracci. Per due volte, durante pubbliche dimostrazioni, sfondai la parata e lo toccai al mento. Nessuno se n’accorse, tranne lui che lo sentì, né si capiva dalle riprese filmate. Bisognò applicare la funzione slow motion. Avevo conseguito anch’io il Calcio senz’ombra, antica tecnica tramandata nella Scuola. E’ fra le cose migliori che abbia fatto nella vita – e naturalmente nessuno l’ha vista. Come quelle immagini sulla Nikon e sulla macchinetta di Bruce Leung.
Fantasmi. Però vi chiedo: credeteci.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).