Rebecca è alla finestra da ore, fuma fissando la notte, là fuori.
Ha messo il posacenere di lapislazzulo blu sul davanzale, così le basta abbassare le palpebre un istante, per far cadere la cenere. Quando la sigaretta finisce la schiaccia con una certa ostinazione, poi alza di nuovo lo sguardo e ne accende un’altra, con la testa appena inclinata.
Il viale che attraversa il giardino è illuminato e da quella finestra si vedono bene la siepe lungo il confine e il cancello. In lontananza le luci della città, piccole come la punta incandescente di una sigaretta nel buio.
Finalmente i fari di una macchina che si avvicina al cancello e si ferma. Passa qualche minuto e riparte. Rebecca fa un tiro più lungo e socchiude appena gli occhi, osservando la figura che avanza lungo il viale.
Tiene la testa alta e la schiena rigida, ma non riesce a camminare diritta, forse è perché i tacchi affondano nella ghiaia. A un certo punto si ferma, come se stesse pensando a qualcosa, o forse deve solo riprendere fiato. Rebecca soffia il fumo contro il vetro e continua a guardare fuori, anche quando non la vede più, anche quando sente il rumore delle chiavi e la porta che si apre.
– Mamma?
Schiaccia la sigaretta quasi intera e si volta.
– Ti sembra l’ora di tornare?
Mentre lo dice si avvicina, tenendo lo sguardo sul volto della ragazza. Nella penombra la feriscono quell’odore dolciastro, il profilo dei capelli spettinati, la posa scomposta. Indecente. Si stupisce mentre tutta la potenza di quella parola le vibra dentro. Strano, pensa, come certe parole ti vengano in mente così, come fiori che si aprono nella notte, e magari non sapevi neppure di possederle. La supera e va ad accendere la luce.
Giulia si volta e resta lì, immobile e muta, al centro della stanza.
Rebecca si avvicina lentamente, poi è un attimo. E’ come se volesse salutare qualcuno da molto lontano, il braccio si alza, le dita distese, i piedi quasi sulle punte. Lo schiaffo è così violento che Giulia cade sul divano, gli occhi chiusi e una mano sulla guancia, l’altra sul cuore.
La camera è a destra in fondo al corridoio, ed è lì che deve riuscire ad arrivare. Apre piano. La luce dei lampioni penetra nella stanza attraverso la grande finestra. Ora non desidera che quel silenzio azzurro e la rassicurante immobilità di oggetti e profili noti, appena rischiarati dal chiarore opalescente della strada.
Riconosce i ripiani ingombri, i riflessi delle bottigliette di smalto e profumo. Per terra, in un angolo, sagome di scarpe. Immagina le labbra rosse stampate sulla poltrona su cui sono ammucchiati strati di vestiti, e poi l’armadio aperto, e giornali sparsi ovunque.
Ma le basta alzare lo sguardo. Lassù, poco più in alto, il mondo silente dei pupazzi, ricordi di un passato che sembra lontanissimo. Balù vicino all’amica pantera, ormai accasciata su di lui, il gattino nero che s’ inceppava sempre e cadeva, l’orsetto senza un occhio, il delfino triste, Bambi, rimasto solo e senza una zampa.
Erano stati questi i giocattoli preferiti di Giulia: gli storpi, i feriti, i diversi. E quanto più lei e Alessandro le compravano giocattoli da ricchi, in scatole preziose e carte luccicanti, tanto più la figlia cercava gli esseri scartatati dagli altri bambini. Ricorda interminabili giri nel parco, alla ricerca di fantocci abbandonati e derelitti da soccorrere.
Solo con lui non avevano fallito. Giulia aveva aperto l’involucro con la solita impassibilità, ma non appena aveva visto il cavallino di pezza, lo aveva preso in braccio sorridente: “Mamma, questo è Arcobaleno, perché è felice”, aveva detto.
Rebecca aveva capito in quel momento che Giulia distingueva perfettamente la felicità dall’infelicità, e cercava a modo suo di risarcire gli esseri che secondo lei erano infelici. Era davvero strano per una bambina così piccola.
Arcobaleno fu per lei, da quel momento, il compagno cui stringersi per provare a essere felice. Il compagno di ogni gioco, e di tutte le notti.
Nella luce azzurra dei lampioni è lui che Rebecca cerca. E non le sembra affatto un gesto puerile allungare la mano, provare tenerezza per quel pupazzo ormai liso, afferrarlo e stringerlo, anzi le sembra l’unico gesto che possa riportarla in sé.
Lo abbraccia e resta così, stretta ad Arcobaleno.
La sveglia il suono del cellulare nella tasca: è Alessandro.
Dice che rientra più tardi, è stanco, ma ha trovato il pezzo che cercava, dice qualcosa a proposito di un collezionista di Firenze, parla di una scatola di Waterloo, di un intero reggimento. “Domenica andiamo, così non faccio il viaggio da solo”. Rebecca riesce appena a rispondere: “Non so, vedo cosa fa Giulia”. “ Giulia è grande e di sicuro preferisce se ce ne andiamo, e poi non ho voglia di restare a casa la domenica, lavoro tutta la settimana.” E continua dicendo che è un’occasione, che il plastico va finito, che Sergio ormai ne ha più di lui, e qualcosa d’altro.
“ Sì, va bene, ma ora devo andare, Alessandro, ne riparliamo.”
Attorno a lei immobile e silenziosa la camera illuminata ormai dalla luce del giorno. Ripercorre il corridoio in punta di piedi. Giulia dorme sul divano, scarpe per terra e calze smagliate.
Il profumo del caffè si diffonde nella cucina laccata di nero. Rebecca prende la sua tazza, mentre lo sguardo accarezza la vecchia scatola di latta, quella in cui sua madre teneva i biscotti, perché diceva che lì dentro duravano di più.
Forse solo le cose ti possono salvare. Quel gesto che ripeti da sempre, che ritorna ogni giorno indifferente a tutto quello che è successo, o a quello che non potrà accadere mai più. Un oggetto ti può salvare, e il gesto quotidiano che ti lega a lui, è come un amuleto che ti protegge, indifferente al tempo che passa e alle cose che cambiano. Come stringere la tazzina fumante e guardare fuori dalla finestra.
Quella notte avevano discusso per ore. Infine, spossata, Rebecca aveva dovuto difendersi.
– Ma tu lasceresti il tuo cane per me?
Lo sguardo di Pietro era diventato tagliente, aveva contratto le mandibole e stretto le labbra.
– Che c’entra, lui è innocente e indifeso, tua figlia no.
– Rispondi, tu lo lasceresti per me?
Lui l’aveva guardata negli occhi.
– No.
Stringe più forte la tazzina, e continua a guardare fuori.
L’aveva detto senza alcuna incertezza. No.
– Perché un cane dipende da te, un figlio no. Un cane non può scegliere, un figlio sì, e se sbaglia deve pagarne le conseguenze. Se fa delle cazzate se ne assume le responsabilità. Non puoi difenderla sempre.
Aveva detto così, immobile al centro della stanza, con le mani in tasca e il cane sdraiato ai suoi piedi. Lei si era alzata ed era andata via.
Giulia non è più sul divano. Percepisce la sua assenza e sa che se la chiamasse non risponderebbe al cellulare.
Il rumore sulla ghiaia indica invece che Alessandro sta parcheggiando. Va alla finestra e lo osserva mentre attraversa il viale: la ventiquattrore e due grandi scatole tra le mani. Entra e le deposita sul tavolo.
– Guarda che meraviglia, un ussaro francese del primo reggimento, questi con i pantaloni blu sono i più rari. E me ne hanno promesso una scatola intera.
– Be’, immagino tu sia contento. Qui invece ho avuto qualche problema con Giulia…
– Tu hai sempre problemi con Giulia. Lasciala in pace. Piuttosto, mi sono messo d’accordo con Marco, partiamo alle sette.
– Scusa, dove andiamo? Ah già, Firenze. Non posso stare a casa? Tu fai il giro dei collezionisti e tutto quello che vuoi, mi spieghi che cosa ci faccio io?
– Sempre le solite storie, io…
– Non potresti pensare per una volta di dedicare un po’ di tempo a tua figlia? Sono preoccupata, Alessandro, è in un’età difficile e stanotte era ubriaca fradicia. E non so cos’altro.
– Ci siamo ubriacati tutti da giovani, è normale, è così che si cresce. Sei la solita esagerata, te l’ho detto. Chiamo Marco per mettermi d’accordo, preferisci le sette e mezza? Ti ho già detto della scatola di Waterloo?
Rebecca non risponde, prende il cellulare e fa il numero di Giulia. Aspetta a lungo, poi cerca le sigarette. Sembra quasi che la mano accarezzi la fiamma, avvolgendola, osserva la punta della sigaretta e soffia via il fumo inarcando lievemente la schiena.
Si volta verso la finestra. Oltre i vetri il cancello chiuso e la siepe. “Mi dispiace”, mormora, “amore mio, mi dispiace”.
Sua madre era entrata all’improvviso nella stanza. Lei stava giocando con le bambole seduta sul pavimento, quando le mani grandi e ossute della madre la tirarono su, le infilarono il cappotto, e la trascinarono fuori. Faceva freddo. Camminava in fretta, in silenzio, a testa bassa, stringendo quasi con violenza la sua mano. Rebecca aveva visto spesso sua madre in quello stato, e sapeva che in quei momenti bisognava tacere e assecondarla.
Uscirono dal paese, presero la provinciale, poi una strada secondaria. Vide i campi, gli alberi sparsi e poi il terrapieno. Oltre, c’era la gora. Sentì il rumore dell’acqua mentre si avvicinavano. La madre le strinse più forte la mano e proseguì. Salirono sull’argine, rallentarono appena e presero il sentiero che costeggiava l’acqua. Fissava i suoi piedi, le scarpe infangate della madre, la terra, l’acqua che scorreva. In alcuni punti c’erano dei vortici, onde che giravano su se stesse, e un rumore assordante. E poi quella mano, come una tenaglia. Non alzò mai il capo, sapeva quel che avrebbe visto sul volto della madre e non voleva.
Camminarono in silenzio tra il fragore e i vortici scuri, finché calò il buio e l’umidità penetrò in ogni cosa. Ogni tanto la madre rallentava e osservava la gora. Infine arrivarono in un punto in cui il rumore era più forte e l’acqua spumeggiava. La madre si fermò e strinse più forte la mano della bambina. Lei restò a capo chino, immobile e muta.
Poi lentamente si voltarono, e ripresero la strada di casa.
“Mi accompagni in centro? Magari vediamo qualcosa, tvb, mamma“.
“ Lo sai che odio girare per negozi.”
Fa il numero.
– Giulia, ascolta. Pensavo di andare da quella tua amica che vende bigiotteria, non è il compleanno di Sarah domenica? Hai detto che vai alla sua festa, tanto io e papà andiamo a Firenze. Le prendiamo qualcosa e poi mangiamo un panino insieme.
– Mamma, lascia stare. Comunque a Sarah non prendo niente, siamo già d’accordo. Lo sai che odio i regali.
– Ma…
– Senti, ma’, sono da Luca. Ci vediamo a casa.
– Sì, certo. Certo.
Manda un sms a Alessandro. “Sei in centro? Ci vediamo?”
“Non posso. Vedo Sergio per uno scambio. Stasera a casa”.
Fino a poche settimane prima avrebbe chiamato Pietro.
Una passeggiata con il cane, o un pezzo di pizza su una panchina, l’amore in macchina o un cappuccino stringendosi le mani.
Momenti in cui non esisteva nient’altro. Non aveva mai pensato che la felicità potesse essere così vicina, così reale. Che fosse possibile. Il pensiero che si potesse essere felici fu uno squarcio nel suo cielo di convenzioni. Lui le aveva dato una felicità a poco prezzo, comprata sul mercato o all’angolo di una strada. E le aveva insegnato l’amore. Così Rebecca aveva capito, aveva capito quello che sua figlia le rimproverava da sempre.
Infine era sparito, senza neppure darle una spiegazione. Non aveva avuto il coraggio di dirle che anche lui aveva dato un prezzo all’amore, ed era quello che lei amava di più: Giulia.
La corsa in macchina. I fari nella notte, le luci dell’autostrada come fuochi fatui. Freddo e silenzio di piombo nell’abitacolo.
Giulia, aspettami.
Lo svincolo, macchine in coda. Vai più in fretta, ti prego. Il buio fuori è meno di quello dentro, il cielo meno vuoto del vuoto in gola. Poi l’edificio illuminato, la corsa per le scale. Giulia. Un atrio, facce che la guardano. E quella mano sulla spalla, “Signora…” Rebecca chiude gli occhi, non vuole sentire. Li guarda disgustata.
“Non voglio nessuno“, dice.
Entra nella stanza, si schiude improvviso il pensiero di Arcobaleno, quasi sorride.
Giulia è sul letto, le hanno messo una tunica azzurrina, un lenzuolo sulle gambe, le braccia lungo il corpo. Le dita sono leggermente piegate, ancora rosee. Le hanno diviso i capelli sulla fronte, ma Giulia odia quella riga diritta che mostra il cuoio cappelluto. Rebecca si avvicina e li scompiglia, Giulia vuole che coprano quasi del tutto gli occhi. Altra barriera tra lei e il mondo. Poi piega una ciocca ai lati del viso.
Rebecca è alla finestra da ore, fuma fissando la notte, là fuori. Tiene in mano il posacenere di lapislazzulo blu, così le basta abbassare appena lo sguardo per far cadere la cenere, indugia un po’ di più quando la sigaretta finisce. Il viale è illuminato, da quella finestra si vedono bene la siepe del confine e il cancello.
In lontananza le luci della città, piccole come la punta incandescente di una sigaretta nel buio.
Finalmente i fari di una macchina che si avvicina al cancello. Rebecca fa un tiro più lungo e socchiude appena gli occhi, mentre l’auto avanza lentamente sulla ghiaia.
Osserva la figura che scende e poi si china a prendere qualcosa nel bagagliaio. Si ferma un attimo, forse per non far cadere quello che trasporta. Un uomo, che stringe tra le braccia delle scatole.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).