Alla lettura di Fuochi in novembre nel 1934, Montale intuì subito che A. B. rappresentava già, nella poesia italiana del tempo, una novità, e qualcosa di più di una novità.
Bertolucci era al suo secondo libro di versi. Nel 1929, lo stesso anno degli Indifferenti di Moravia, aveva pubblicato il suo primo, Sirio: età, diciotto anni. I versi in apertura del volume dicono: “Divina misteriosa / Chiarezza / Sfolgora il sole / Sulla strada dritta / Non vi sono siepi intorno / E non si sente il profumo / Dei biancospini / E pure è primavera…” Bertolucci v’è già tutto: v’è intera la sua novità di dettato, l’italiano tiepido di voci vive, il desiderio di bere la luminosità dell’aria aperta, i profumi delle stagioni di mezzo che ha amato tanto.
A leggere un poco in controluce, si capisce che quel ragazzo poeta ha assorbito le scansioni dell’“Allegria” di Ungaretti, ma non si inarca in verticale; sembrerebbe scartare verso Pascoli, e non è neppure vero. Un velo d’allarme, scende su quella “chiarezza”. Dicono ancora quei versi: “Grigi sono i gran pali / Del telefono / In cui s’ode quello strano rumore / E l’erba stanca e triste / Mio giovane compagno / Io non credevo più / D’averti allato…”
Certo, ha assaporato anche “Alcyone”: ma si libera di D’Annunzio sotto “i pali del telefono”.
Letto, dunque, il secondo libro, Montale si chiedeva: “Se a lui fosse riservato di disincagliare certa lirica recente dalla fissazione di pochi schemi o poche parole, magari rifacendosi un po’ addietro per poter spiccare poi il salto in avanti?”
Montale aveva capito tutto: ma lo voleva aver capito a modo proprio. Proseguiva con il suo stile riduttivo: “Voce piccola la sua, di tenor comico, ma di bel suono”.
Per niente. La voce non era “piccola”: proprio perché non era voce di “pochi schemi” e di “poche parole”. La cristallizzazione ermetica – schemi appunto fissi, vocabolario altrettanto fisso – non era per niente in dote a Bertolucci; e lui, fin da subito, non le si è messo per niente accanto. Il corsivo, la ferialità deliberata della sua ispirazione – lo sfondo della campagna parmigiana, il pittorico color violetto del suo Appennino – e quella lingua media che tirava verso il basso, potevano far scommettere gli altri che egli fosse iscritto in un ordine linguistico vezzeggiativo. Giuseppe De Robertis non a caso, pure stimandolo, parlò di “fantasiuccia”: lo accasava, così, di striscio, nell’ambito di una lirica che aveva a cuore, quasi sfiorasse il pianeta fiorentino, sede augusta del neopetrarchismo italiano. Ma Bertolucci non ebbe mai niente a che vedere con quell’ambito. Lui se ne stava a Parma, e casomai poté ospitare a Parma sul finire degli anni Trenta un po’ di fiorentini, Luzi, Macrì, Leone Traverso, lo stesso Carlo Bo.
Il segreto della sua poesia era annidato in una vertigine psichica, nell’attrazione per il baratro, da cui era possibile forse distrarsi, senza dimenticarsene mai. Bertolucci aveva letto poco più che adolescente Baudelaire, e Proust: sapeva che nelle viscere di ogni uomo c’è un nodo di tragedia, di colpevole e incolpevole rimosso, che è destino di un poeta afferrare se non sciogliere.
In una bellissima poesia della maturità, “La crescita di una bambina”, la cosa è detta negli ultimi versi con dolce e insieme terribile nettezza: “Eppure / se il mattino ti svegli piangendo non tutto / è perduto, Freud ha ragione / ma torto, la nevrosi è sì la condizione / della salute: la salute esiste / però, accontentiamoci che / passate l’estate e l’età / anche tu sia ‘abbastanza sana, / non troppo malata’”.
Bertolucci è stato il poeta di questa doppia, ambigua certezza che inchioda la salute e la malattia dell’anima allo specchio reciproco; e tutto il suo respiro di voce sta in quell’“accontentiamoci”, che deve suonare non come indizio di un impoverimento morale, ma come segno del limite cui l’uomo è legato e da cui l’uomo non può scantonare. C’è più titanismo in quell’“accontentiamoci” che non in qualsiasi esclamativo di significato opposto.
“Sopravvivenza, la nostra terra? Ma durano a lungo / questi crepuscoli, come d’estate che mai, mai // viene l’ora della lampada accesa, di quelle / falene irragionevoli che vi sbattono contro, // attratte e respinte dal chiarore che è vita / (eppure vita era anche il giorno che muore)…”
Bertolucci lo scrive di verso in verso, che non c’è da scegliere nella vita: la luce della sera, del giorno che precipita, è la stessa della giornata che prende quota. In lui si afferma via via una disarmata e innamorata accettazione dello stare al mondo, ma anche lo spavento conseguente, la paura lancinante della morte – luce di tramonto e luce d’alba vanno a confondersi. La salvezza si profila nel riflettersi ogni possibilità di racconto e poesia nel disegno che la natura istruisce intorno a noi.
L’io che vede e vive prende respiro da ciò che vede e vive: con questo si difende da ogni sperpero, se ne fa uno scudo. Il sogno baudelairiano della disfatta sembra accanitamente capovolto nell’amore per la famiglia, per la casa, per la piccola patria, resa grande dal proprio amore: ma perciò non se ne dissolve il peso di disperazione, e di ossessivo, religioso terrore.
Parrebbe Bertolucci aver trovato scampo nella chiarezza di un mondo dove il flusso tempestoso, disordinato della contemporaneità è respinto fuori confine. Invece, quanta malattia, quanto insorgere di extrasistoli c’è nelle sue parole, nel germe delle sue immagini. “Lasciami sanguinare sulla strada / sulla polvere sull’antipolvere sull’erba, / il cuore palpitando nel suo ritmo feriale / maschere verdi sulle case i rami // di castagno, i freschi rami, due uccelli / il maschio e la femmina volati via, / la pupilla duole se tenta / di seguirne la fuga d’amore…”
È un mondo che ricorda quello di Monet, di Bonnard, dove il comporsi della visione, nello splendere immacolato della luce, è sempre un crollo, è sempre un passare di là dalle forme, che pure si tengono vive come ombre nell’aria – e sono felici, ma insieme straziate.
Il “salto in avanti” di cui parlava Montale – un oroscopo da veggente, – Bertolucci lo ha spiccato proprio per via di tanto accanimento a non abbandonare mai le certezze quotidiane, di affetti e tradizione, facendone un’epica. Naturalmente, un’epica del tutto originale, slogando ritmi e sintassi, dilatando un dettaglio nelle clausole ripetitive di una summa metafisica, avvolgendo il mondo in una rete di fibrillanti sensazioni, di parole altrettanto fibrillanti.
La camera da letto, romanzo in versi, autobiografia e biografia di una famiglia – ha il sapore di un’opera incompiuta perché solo se fosse stata osservata e risolta al di là della vita poteva dirsi ultimata – il libro via via composto dai primi anni Sessanta in poi, se non da prima, – è l’edificio complesso in cui quest’idea si è realizzata.
Un romanzo non può essere che un viaggio. Questo viaggio Bertolucci l’ha compiuto a modo suo, appunto in versi, intatte le sue ossessioni, paure ed estasi; e ha trasformato un vecchio libro mastro in cartapecora, di quelli che gli agrari del passato tenevano sullo scrittoio per appuntarci notule di ricavi e perdite accanto a nascite e morti, lo ha trasformato, dicevo, in una legatura dove è testimoniata una vicenda certo esemplare del grande mutamento italiano che attraversa due secoli della nostra storia. Ne La camera da letto c’è il progressivo depauperarsi del mondo agricolo fino alla propria estinzione, o alla incapacità di trasformarsi se non subendo malattie e tragedie, pur lasciando libera una fiamma di speranza – e c’è il rimettere a chi verrà dopo l’unico senso possibile del sentirsi uomo, “accontentarsi” di una salute messa sempre a repentaglio dal male.
Non si può negare che in Bertolucci trovi spazio una disperata, latente affermazione di cristianesimo, una fede sommessa nella resurrezione della carne, quale unica prospettiva umana di riscatto all’obbligata soggezione al destino. Il mondo umano sparisce e si rinnova: la natura si rinnova altrettanto e dà prova che tutto rinasce senza sosta, sempre.
Anche per questo, il poeta de La camera da letto va a situarsi in un altro Novecento da quello più noto, neoilluminista, integralista nel proprio laicismo, di stile attico, levigato, anche composto di eleganze manufatte, giuste per lo snobismo dei creduli.
Bertolucci è stato, come davvero fu, un allievo di Roberto Longhi, Bassani e Pasolini con lui. Furono avviati ad amare la realtà, cioè i talloni sporchi di fango dei contadini inginocchiati davanti alla “Madonna dei pellegrini” di Caravaggio; e da lì passarono ad amare la stratificazione informe, congestionata dei contenuti psicologici, a soffrire, ciascuno a modo suo, l’inevitabilità della tragedia. Ciascuno a modo suo seppe guadagnarsi uno stile per esprimerla. E ciascuno a modo suo portò alla crisi le forme solide della poesia, del romanzo, e non le spedì al macero. Piuttosto, tutti e tre vollero che la vita corresse dentro il romanzo e la poesia col proprio tumulto inalterato. Tutti e tre sapevano che non c’è inizio se non affrontando il mistero del male. È stata questa la loro forza – anche nel resistere al centro di una cultura con gli occhi voltata altrove, e voltata volentieri a fare a meno di loro. Hanno rappresentato un’eccezione.
Dico: suono personalissimo della voce di Bertolucci sotto l’apparenza cauta.
Il trapasso dell’Italia nel concetto del moderno, la sua metamorfosi, e la sua sconfitta o i suoi difficili guadagni, stanno al centro del Romanzo di Ferrara, di Petrolio, e, l’ho detto, de La camera da letto. Ma in Bertolucci c’è il suono di una corda segreta, il suono di un male che non si confessa e si fa più tremendo nel destare il sospetto di non potersi mai confessare, di non poter pronunciare il proprio nome – ma sa additarlo. Nonostante questo, la luce vera delle cose sta in quei versi: la bellissima luce del Correggio tanto amato, la luce che scende sul camiciotto azzurro che Giovanni Evangelista, maniche rimboccate, indossa, stilo in mano, carta bianca davanti, sotto la cupola di San Giovanni a Parma, pregando Dio che lo salvi per quel che sta scrivendo.
Ricordarmi di Attilio – anzitutto le Church’s, la flanella e il tweed d’inverno.
Ricordarmi di Attilio visto la prima volta ai Lagoni, agosto 1958, sopra Casarola – Bernardo pescava insieme a Maurizio A. al lago più in alto. Attilio, il panama in testa, il golf blu sulla camicia bianca.
Ricordarmi di Attilio che parla di Roberto Longhi, e con Pier Paolo va disegnando Scrittori della realtà, una sera in una trattoria di Monteverde (l’Antico Scarpone?); e Bernardo che vuole parlare di cinema.
Ricordarmi di Attilio che dice a memoria qualche verso di Robert Frost una mattina a Parma, in piazza Garibaldi, mentre Mario Lavagetto ha una crisi allergica – ed è autunno.
Ricordarmi di Attilio al Regio di Parma durante un intervallo della Luisa Miller, e ride di felicità, prendendo per mano Ninetta: – “Verdi non smentisce mai la verità dell’amore”.
Ricordarmi di A. a Ongina la sera di un ottobre nebbioso – mangiamo anguille del Po fritte, e sulla sua testa, alla parete, è appeso, come uno stemma araldico, un grande ritratto del sempre meraviglioso don Peppino Verdi.
Ricordarmi degli occhi socchiusi di Attilio, mentre ascolta Roberto Tassi parlare di Morlotti. Siamo su un prato a Trefiumi e andiamo a caccia di granchi. Attilio porta il panama in testa ma una sciarpa di lana annodata al collo – e fa caldo.
Ricordarmi di Attilio che lascia raccontare storie a Ubaldo Bertoli, siamo a Roma, mangiamo all’Antica Pesa, storie di Goliardo Padova e chiede che vengano raccontate di nuovo, e ride con felice leggerezza.
Ricordarmi di A. che si arrabbia divertito alle esose richieste d’aiuto di Ponzini (diceva Ponzini: “Mi si deve moltissimo: non sono un grande poeta?”), ecc.
Insomma, ricordarmi di Attilio. Ricordarmi anche della impossibilità di ricordare la concretezza di Attilio ecc. “Più acuta presenza” oltre la cenere della vita – come l’incrinatura della sua voce nel pronunciare la “r”.
Questo testo è apparso sul numero 11, luglio-settembre 2000, della quinta serie di Nuovi Argomenti.
Immagine: Dino Ignani, Ritratto di Attilio Bertolucci.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).