Scrive di avere ventisette anni non dimostrandone nemmeno venti, quando inizia i suoi Taccuini, Marina Cvetaeva – è una giovane donna e come una giovane donna parla, racconta, si innamora di quello che le sta intorno.
È il 1919 quando, in una Mosca nel pieno della guerra civile, nella casa al numero 6 di Borisoglebskij pereulok, il marito di Marina, Sergej, decide di unirsi all’Armata Bianca. Marina scende le scale della stanza del marito – la sua preferita, simile alla cabina di una nave – e si rintana con le figlie Alja e Irina, sei e due anni, al piano di sotto, dove, alla prima pagina del taccuino dono della sorella minore Asja, comincerà a raccontare la «storia» delle sue giornate. Storie che riempiranno le pagine di 12 taccuini, dei quali possiamo leggere oggi, per la prima volta pubblicati in Italia da Voland a cura di Pina Napolitano, il settimo e l’ottavo, consultando tra una pagina e l’altra la cartina di Mosca nel 1917, dove sono indicati due posti cari a alla poetessa: la mensa del Praga e la chiesa dei santi Boris e Gleb. Con stivali di due misure più grandi della sua, tra amici poeti che la vengono a trovare offrendole una pipa che dicono «richieda molta attenzione», consigliandole di non chiacchierare, regalando ciò che non mangia perché non può soffire le scorte, senza un orologio che funzioni in casa – tanto da dover uscire per andare a chiedere l’ora a un passante, Marina dice di aver preso «l’anno 1919 in modo un po’ esagerato: così come lo prenderà la gente tra cento anni», come lo descriverebbe un romanziere con più fantasia che gusto, ma di non poter vivere che in quell’anno lì.
Marina è una mamma che di notte sta sveglia a fare le righe ai quaderni bianchi delle figlie, che dice loro di vivere con «la lettera maiuscola!», che le vede giocare giochi semplici – ricoprirsi l’un l’altra con una coperta a mimare piramidi furiose -, che ha un legame con la primogenita, Ariadna, affettuosamente Alja, totale, esclusivo – che a tratti non ci fa capire chi sia la mamma, chi la figlia, se siano quasi due sorelle che stanno crescendo insieme, due innamorati – un legame che sfiora l’identificazione di una bambina di sei anni che scrive «versi strani e bellissimi» con una ragazza di venti. Se Marina chiede ad Alja come si sente, lei risponde: «Mi sento come se Voi aveste la febbre»; è con Alja che Marina fantastica su quando avrà finalmente un figlio maschio, è ad Alja che Marina lascerà, prima di portarla con Irina in orfanotrofio, infilata di nascosto nel libro Lanterna magica, una sua foto in cui assomiglia a Charlotte Corday, la rivoluzionaria russa che pugnalò Marat; è Alja, che, rasata dalle bambinaie, lascerà nelle stesse pagine alla mamma l’ultima sua ciocca dorata; è, prima di lasciare la loro casa, Alja a lasciare a Marina sul suo tavolino una lettera scritta con l’inchiostro rosso: «Mamma, mandami un fiorellino… e nel fiorellino Voi!», un lunghissimo biglietto d’addio che la poetessa leggerà senza essersi nemmeno tolta la pelliccia di dosso, ed è una pelliccia che avrà, azzurra, fino alle ginocchia, pure Alja, quando, andandosene di casa, passeggiando tra la mamma e la sorella incontrerà dei passanti che diranno: «Gli occhi sono come la pelliccia, la pelliccia come gli occhi».
Marina è una poetessa che dice che le brave domestiche, quando piene di disprezzo, sono meglio di tutte le eroine di Hamsun e Dostoevskij, che non sopporta Čechov e rilegge Corinna, che posticipa la sua traduzione di de Musset perché l’anticipo non arriva, che all’amico che la esorterà a scrivere un vero grande Romanzo risponderà di dover diventare più vecchia.
Marina è una ragazza miope che scambia una casa rosata per il tramonto, che quando è casa degli altri si decuplica per non disturbare, che dice che finché cammina tirando calci ai sassolini starà bene, che ha un giorno preferito e quello è il sabato, che sulla sua croce voleva venisse scritto «Non ride più», che fa innamorare i «ragazzi che hanno amato follemente madre».
Marina ha degli amanti per Romanticismo e un marito per Amore. Dei primi ricopia le lettere per non dimenticare in seguito come li amava: sono il poeta Ivanov col quale cammina per strada facendo incantesimi, il più anziano Milioti, del quale ha a cuore il suo «curarsi d’inezie», il pittore N.N. dalla voce sommessa, Blok, di cui ha nostalgia come di uno che non si è riusciti ad amare in sogno, il diciottenne Bessarabov per il quale prova tenerezza nel vederlo adorare quattro cose: l’albero di Natale, la messa, le fiere e il suo cappotto militare. Del secondo, il lontano Sergej, un «angelo», scrive un poco che è tutto. «L’unico miracolo della mia vita è stato l’incontro con S. […], l’unico miracolo della mia vita è stato il mio matrimonio. E così trova giustificazione il mio detto scherzoso: – “Amo i miracoli – proprio a casa mia”»; ma soprattutto tre righe, dove si riuniscono la Marina ragazza, poetessa e moglie: «Ogni poeta, avesse pure un miliardo di lettori, scrive per uno solo, così come ogni donna – avesse pure mille amanti – ama uno solo.»
Natalia La Terza è nata a Orbetello nel 1990 e vive a Roma. Scrive su Harper's Bazaar Italia, Esquire, Rolling Stone e minima&moralia.