Il finale di quel sogno lo aveva svegliato con una frase che ancora gli rimbombava nelle orecchie: ti illuminerai alla prima stella. Seduto sulla sponda del letto, sapeva bene che era inutile cercare di ricordare cosa avesse appena sognato, per scoprire chi avesse pronunciato quella frase dal tono profetico. I risvegli di Ermanno cancellavano subito anche la più piccola traccia dei suoi sogni. Rassegnato, passò e ripassò le mani sulla faccia lavandosela senza né acqua né sapone, poi considerò il desolato biancore delle sue gambe nude. Non era mai riuscito a dormire con qualcosa addosso, neanche da bambino. Ancora adesso il primo sguardo della giornata era per quelle gambette sempre straniere e magre, ciondolanti alla poca luce sfuggita alla finestra. Un po’ di luce ci voleva sempre, anche di notte, per questo in vita sua aveva sempre lasciato le serrande aperte quel tanto che bastava a far penetrare una griglia luminosa che rischiarasse la sua camera. Ma ora di luce ce n’era troppa. Non aveva bisogno di nessun orologio: capiva da sé che era mattino inoltrato, troppo tardi per essere illuminato da Venere, la prima stella del mattino, che sorge poco prima dell’alba.
In ogni caso tentò di andare subito ad alzare le serrande per controllare se nel cielo ci fosse ancora, la prima stella del mattino, ma il freddo del pavimento gli fece rimbalzare le piante dei piedi ricacciandolo a letto. Si rintanò nel profondo di una matassa di lenzuola e coperte pesanti tirando l’orlo di quella morbida tana fino al viso per lasciare liberi solo occhi e pensieri.
Il giorno prima, non era ancora finito il funerale che già se n’era andato via. Niente, non era mai stato capace di aspettare che le cose seguissero il loro corso, andava via sempre prima della fine. E poi, che avrebbe potuto fare? Speronare una folla di smorfie costernate e avvicinarsi alla madre di una figlia che nemmeno era riuscita ad arrivare a vent’anni per dire: “Condoglianze… mi dispiace.” Nooo, meglio andarsene. Quando qualcuno muore in quel modo, e a quell’età, non c’è proprio nulla da dire o da fare.
Entrato in macchina aveva sbattuto lo sportello, pronto a partire neanche troppo di scatto, ma quel gatto del cavolo se ne stava lì sul cofano, fermo, a guardarlo fisso. Un gatto rosso con gli occhi azzurri. Per essere bello lo era, eccome: maestoso, fiero, eppure gentile nello sguardo, che sembrava allegro. Aveva suonato il clacson due o tre volte, ma il gatto aveva continuato a fissarlo freddamente. Aveva tentato di scacciarlo con le mani sbattendole sempre più forte contro il parabrezza. Niente, la piccola sfinge era rimasta immobile. Allora aveva messo in moto, partendo piano piano, come per darle un ultimatum, ma lei si era limitata a rigirare la coda nell’aria guardandosi intorno con aria indifferente. Ermanno, spazientito, aveva accelerato di scatto e frenato di botto due o tre volte. Solo alla fine il gatto, distendendo la sua nuvoletta di pelo rosso, era saltato giù, non prima di avergli lanciato un’occhiataccia obliqua, come per dire: “Allora proprio non capisci? Stronzo!”
E che doveva capire? Cosa c’era da capire? Nulla! Non c’è mai nulla da capire. Le cose sono come sono, vanno come vanno… pace e amen! Ermanno si inabissò ancora di più nel letto coprendosi anche gli occhi per non vedere, e la testa per non pensare. Invece, pensieri e immagini continuarono insistenti.
Sara, quando la incontravi per i corridoi della scuola, ti sorrideva con gli occhi, prima che con le labbra. I capelli rossi incorniciavano un volto dai tratti aristocratici, dandole l’aria di una damigella d’altri tempi. Eppure il suo tempo era quello che conoscevano tutti, insegnanti, alunni, bidelli… un tempo incerto, tormentato, forse brevissimo. Ti guardava con gli occhi specchiati di azzurro e la sua anima diceva: Vedi? Sono qui, decisa a essere viva, nonostante tutto e tutti, ma proprio viva viva, e fino all’ultimo respiro. È per questo che ficco i miei occhi in quelli degli altri, anche nei tuoi. E sorrido, perché non voglio far pesare a nessuno il mio destino. Tanto lo so che il mio sorriso e il mio sguardo raccontano di più del migliore dei film, del più vero dei libri, della più profonda delle musiche. E sai perché, professore? Perché ti sto insegnando ad amare la vita. E se non lo capisci, allora vuol dire che anche tu sei uno stronzo, e che io ho vissuto inutilmente.
Avrebbe dovuto almeno salutare i colleghi, ma tanto, per quelli continuava a essere uno straniero. Per forza, lo era per se stesso, figurarsi per gli altri… Ermanno sorrise stirando appena le labbra. Salutare quella pattuglia di naufraghi del lutto come lui…
Gli pareva di non aver dormito a sufficienza, anzi, sospettava di non averlo fatto per nulla, intrappolato in un limbo di veglia sospeso al confine del sonno, ma il finale di qualche sogno lo aveva svegliato con quella frase che ancora gli rimbombava nelle orecchie: ti illuminerai alla prima stella. Seduto sulla sponda del letto, sapeva bene che era inutile chiedersi chi avesse pronunciato quella frase profetica. Gottfried si passò le mani sulla faccia lavandosela senza né acqua né sapone, poi considerò il desolato biancore delle sue gambe nude. Non era mai riuscito a dormire con qualcosa addosso, neanche da bambino. Ancora adesso il suo primo sguardo della giornata era per quelle gambette sempre estranee e magre, ciondolanti alla poca luce sfuggita alla finestra. Il suo sguardo si soffermò sulla parrucca sciattamente poggiata sopra la spalliera della sedia accanto al letto. Anche i vestiti erano buttati a casaccio qua e là, senza né ordine né cura. Strano, era la prima volta che René, il suo segretario, non si era comportato come si doveva. Forse perché neanche a lui andava molto di andare a lavorare per il duca di Hannover. Come se fosse lui a dover diventare consigliere e bibliotecario del duca… A volte quell’ometto calvo e tondo del suo segretario dimenticava di essere poco più che il cameriere di un illustre scienziato e pensatore: membro della nobile e antica società dei Rosacroce; più volte impegnato in missioni diplomatiche anche nella Parigi del grande Luigi XIV; già al servizio del barone di Boineburg, che aveva forte ascendente sul principe elettore di Magonza; insigne matematico, inventore del calcolo infinitesimale; esperto dei segreti della fisica, nonché filosofo e perfetto gentiluomo apprezzato nei salotti dell’aristocrazia europea. Niente da fare. Le umili origini del suo segretario ne avevano minato per sempre l’educazione, così, come tutti i servi più stupidi, e quindi presuntuosi, aveva finito per persuadersi di essere uguale al suo padrone. Ma al più presto lo avrebbe licenziato, in modo che il caro René potesse comprendere, nel rimpianto, quanto fosse stato insolente e stolto a lasciare in giro i vestiti del suo padrone. Gettati così, alla rinfusa, nella già squallida stanza di una locanda di infimo ordine. Del resto non era stato possibile trovare di meglio: Gottfried aveva deciso all’improvviso di passare per l’Aja. Una sosta, solo una breve sosta. Era da molto tempo che progettava e rimandava un viaggio all’Aja per conoscere personalmente quel… quel Baruch, la cui fama di filosofo era giunta fino a lui. Aveva letto poco di quell’uomo, e quel poco non gli era piaciuto: quell’individuo era più abile a costruire lenti per microscopi e cannocchiali che non a filosofare. Di null’altro si trattava, se non delle elucubrazioni di un eretico. Un ateo che, in un trattato teologico politico, aveva rivoltato le sacre scritture per negare la validità delle rivelazioni dei profeti, l’esistenza dei miracoli e finanche la stessa dettatura dei comandamenti di Dio a Mosè! Incredibile impudenza. Giustamente era stato scacciato dalla comunità ebraica della pur tollerante Amsterdam a causa di indubitabili eresie. Anzi, per la precisione, era stato scomunicato, esecrato, espulso e maledetto con tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge: maledetto sia di giorno che di notte; maledetto quando si corica e quando si alza; maledetto nell’uscire di casa e maledetto nel rientrare…
A Ermanno quell’interminabile vialone di palazzine rosse, tutte uguali e tozze, metteva angoscia. Meno male che tra poco il cemento avrebbe ceduto il passo alla campagna, così presto sarebbe stato a casa. A casa… non è che il pensiero lo rallegrasse più di tanto. Dovette ammettere che ultimamente non si sentiva contento da quando si svegliava a quando andava a dormire. Una sottile pena lo inseguiva per tutta la giornata senza lasciarlo mai, nemmeno un istante. Ma poi, in realtà, era sempre stato così. Fin da bambino aveva sofferto di una sottile ma micidiale inquietudine, che a volte lo stringeva in una morsa tanto stretta da fargli sanguinare il naso. Non c’era una regola fissa. Il tormento poteva presentarsi e durare mesi, oppure lasciarlo in pace anche a lungo. Ermanno ormai aveva imparato a riconoscere le avvisaglie dei periodi più duri: piccoli dettagli che annunciavano l’arrivo dei tempi cupi per la sua anima. Adesso c’erano gli occhi azzurri di quel gattaccio dal pelo rosso a perseguitarlo. Non capiva, non capiva proprio perché dovesse sentirsi sempre tanto tormentato, come se un’antica maledizione avesse aspettato paziente che lui nascesse per iniziare a seguirlo da subito, come un’ombra. Chissà, forse una di quelle maledizioni, causate da una grave colpa di qualche avo, che colpiscono una famiglia per intere generazioni. O, semplicemente, questo era l’ordine razionale e necessario delle cose, come aveva spiegato in classe un mese prima a proposito di Spinoza. Sara, proprio lei, gli aveva chiesto cosa intendesse di preciso Spinoza per ordine necessario e razionale del Tutto, in un universo nel quale solo ciò che è possibile si realizza necessariamente. E perché l’uomo, pur credendosi libero, per Spinoza in realtà era privo di libero arbitrio, con l’unico fine di autoconservarsi in vita, come qualsiasi altro essere vivente del pianeta, mentre per il resto in pratica era in balia di un destino razionale già scritto. No, non era il destino propriamente inteso, piuttosto si trattava di un ordine insito nella natura stessa, però… l’ora di lezione era stata spezzata dal suono della campanella e Ermanno aveva rimandato la risposta a un altro giorno, ma poi se n’era dimenticato…
Caricarsi una puttana? Rallentò all’altezza del manipolo di ragazze che presidiavano un lampione con la stessa aria sciatta e annoiata di soldati messi di guardia a un inutile obiettivo per la solita esercitazione. Era ancora primo pomeriggio: strano che fossero già lì con le cosce nude e i seni debordanti. Chissà, magari si erano viste in anticipo per prendere un caffè insieme prima del lavoro e fumarsi una sigaretta in silenzio sistemandosi i reggiseni come cartucciere troppo strette. In ogni caso non c’era la sua preferita, la Patty, che era sempre allegra e rideva per un nonnulla, come ogni brava puttana che si rispetti. Non a caso una volta le chiamavano “donnine allegre”. Anche sua moglie rideva per un nonnulla, ma risate lunghe, volgari, isteriche. Non era una puttana, non aveva mai avuto il coraggio di diventarlo sul serio, limitandosi a far la civetta con tutti in un estenuante allenamento mai sfociato nella pratica professionale vera e propria. Però di esercizio ne aveva fatto, eccome, anche dopo sposata. Era durato un anno quel matrimonio? Meno: otto mesi, dodici giorni più qualche ora addizionata di una manciata di minuti.
Non è detto che le macchine ti ubbidiscano sempre. Quella di Ermanno si rifiutò di rallentare e proseguì per la sua strada. Non sarebbe servito a molto caricarsi una prostituta per cancellare la morte di quella sua alunna. Era passata una settimana, eppure qualcosa di pesante e appuntito come un’incudine di ferro continuava a gravargli nello stomaco affrettando il respiro. Qualcosa da espellere dall’anima. Ma come? Forse con il tempo e la pazienza quella massa avrebbe finito per dissolversi da sola. Del resto le cose vanno come vanno, e nessuno può farci nulla. La Terra era o non era rotonda? Prima o poi tutto scivola via da quella gigantesca palla sospesa e spersa nell’universo che tutti si ostinano a chiamare, pomposamente, mondo.
Quello era l’unico e il migliore dei mondi possibili semplicemente perché Dio non era riuscito a crearne uno migliore. Del resto, se Dio avesse creato un mondo perfetto, non avrebbe fatto altro che replicare se stesso. Per Gottfried questo era tutto. Quella specie di spettro di Baruch aveva sollevato gli occhi sconsolato e perplesso, riuscendo anche a placare per un attimo la tosse che lo squassava per dire che il mondo dove loro vivevano non era il migliore o l’unico possibile, ma semplicemente il frutto inevitabile dell’ordine necessario della natura, che non ha altro fine se non se stesso. Dio, quindi, avrebbe creato l’universo solo perché non avrebbe potuto fare diversamente. Per amore, d’accordo, ma così poteva sembrare una costrizione autoimposta, una specie di capriccio. Assurdo! Eretico, e tanto! Come, un Dio che ha per fine solo se stesso! Una bestemmia, ma una bestemmia di capra, non di filosofo!
Nella foga dell’indignazione Gottfried si liberò di colpo degli strati di coperte e lenzuola per scendere dal letto, ma faceva troppo freddo. Si rinfilò nella tana che il suo sonno inquieto, come al solito, gli aveva fabbricato al centro del letto.
Era davvero valsa la pena fermarsi in quella gelida città dalle fontane ghiacciate e scendere in una squallida locanda per andare a far visita a quel mentecatto di Baruch… Emerito filosofo cialtrone e capra, questo era quella larva d’uomo consumato dalla febbre e dalla tosse, vestito di nero come un corvo rinsecchito dall’inverno. Pallido in volto, fragile nell’espressione, con i lunghi capelli neri a fasciare uno sguardo da cervo ferito.
Gottfried, invece, si era presentato con il capo adornato dalla più sontuosa delle sue parrucche, pettinata per tutta la sera precedente da quel somaro di René, che, però, in queste cose sapeva il fatto suo. Anche i merletti della camicia erano stirati a dovere e i bottoni dorati della giacca color crema lucidati ad arte. Tutto sommato non era un cattivo uomo, René: aveva soccorso l’eretico quando un colpo di tosse più forte degli altri lo aveva piegato a metà cercando di spezzarlo in due. Lo aveva sorretto con sollecitudine, con un fare amorevole che mai aveva avuto verso il padrone. E quella voce supplichevole e devota che Gottfried non gli aveva mai sentito:
“Signoria, la prego, si riposi un po’… così… no, no, non si sforzi a parlare. Riprenda prima il respiro, si riposi almeno un minuto.” E il cialtrone aveva acconsentito facendo sì sì con la testa, ringraziandolo con gli occhi mentre tastava convulsamente con le dita ossute il braccio di René. Bello spettacolo, e bell’affare davvero quella visita. Gottfried difficilmente avrebbe dimenticato il freddo giorno di autunno del 1676 in cui si era recato a far visita a quell’eretico consumato dalla tosse probabilmente persuaso di riuscire a leggere, con tutte quelle sue lenti, il libro dei misteri della natura. Ma se nemmeno riusciva a reggersi in piedi! Deus sive natura! Dio come natura! Che impareggiabile cialtrone! Sì, quel suo concetto panteistico di sostanza avrebbe potuto anche andare bene, se solo ci avesse messo le monadi come base, ma l’ebreuccio scomunicato non poteva provare neanche a immaginarselo, il vero valore e significato delle monadi, atomi spirituali, specchi viventi dell’universo che formano la sostanza tutta del cosmo e che lui, Gottfried Wilhelm Leibniz, era riuscito a scoprire e definire con geniale compiutezza.
Nella triste e impolverata botteguccia nemmeno la luce del giorno osava entrare. Quel poco che ci riusciva si era rifugiato nelle lenti poggiate sulla scrivania, che splendevano di luce propria come monadi disperatamente relegate in un angolo buio dell’universo. Per il resto l’ambiente era privo di ogni cosa, fatta eccezione per un paio di sedie e un armadietto con le ante a vetro, dietro le quali si annidavano strumenti di precisione e cristalli ancora grezzi. Più che un laboratorio da ottico, quel posto somigliava alla caverna di un desolato eremita.
A ripensarci ora, quella visita era stata davvero una perdita di tempo. Gottfried stava impiegando un tempo troppo lungo per prepararsi. Per forza, René non si era fatto vedere per nulla. Eppure il giorno prima il somaro aveva dato prova di sollecitudine e di animo gentile: si era bevuto ogni parola di quello che sembrava il delirio di un moribondo sprofondato in una poltrona polverosa. Moribondo ma pertinace, cocciuto e insolente. Con un tono di voce incrinato dal respiro stretto aveva detto che lui non era un ateo, ma semplicemente un uomo convinto che la Bibbia non insegnasse che l’amore intellettuale verso Dio.
“Amor Dei intellectualis, certo. Ma non mi è chiaro in cosa consisterebbe, di grazia, quest’amore secondo il suo autorevole parere.”
“Nel vivere praticando giustizia e carità, senza aspettarsi nulla in cambio: né salvezza, né perdono, né grazia o favori. Senza osservare alcun rito o cerimonia, che altro non sono se non forme di superstizione per tentare di assicurarsi il favore degli dèi e del Dio senza faccia che è dietro di loro.”
Gottfried aveva sorriso, passeggiando su e giù davanti alla sedia di quel disgraziato. In quella stamberga non c’era un posto decente dove sedersi. Per respirare il meno possibile la polvere ristagnante nell’aria, teneva la testa tanto sollevata che la parrucca svettava come il pennacchio di un elmo.
René si era nascosto in una delle tante penombre che pendevano dal soffitto. Se ne stava dritto in piedi con le mani raccolte sull’inguine come a nasconderlo, nemmeno fosse completamente nudo.
“Ho letto, ho letto del suo amore intellettuale di Dio, la forma più alta di conoscenza di quell’ordine necessario che è la stessa sostanza di Dio, ma mi è parso di capire che una tale alta e nobile forma di fede sia raggiungibile solo con la sapienza e grazie all’aiuto della filosofia. Io, invece, sono persuaso che tutti gli esseri umani abbiano diritto a…”
“Chiunque riesca a sopravvivere senza rinunciare a giustizia e carità è degno di questo amore.”
“Anche uno come quello lì?”
Gottfried aveva indicato René in castigo nel suo angolo.
“Lui forse più di noi due. La visione delle cose nel loro scaturire da Dio non necessità di nessuna delle lenti che io costruisco, ma della misericordia, che solo gli uomini possono provare.”
“È vero, dimenticavo che per lei la misericordia è Amore, in quanto s’impossessa talmente dell’uomo da fargli provare gioia per il bene altrui e tristezza per il male dei suoi simili. Ed è passione, lei sostiene, molto diversa dalla commiserazione, che è tristezza, in quanto accompagnata dall’idea di un male accaduto a un altro che immaginiamo simile a noi. Interessante, ma discutibile.”
“Discutibile quanto, ad esempio, il disprezzo che consiste nel considerare qualcuno meno del giusto soltanto per odio.”
Gottfried era abilissimo a sorridere con distaccata eleganza, tanto da mettere in soggezione qualsiasi nobile di una delle corti europee da lui visitate. Un sorridere che spesso precedeva una citazione precisa e affilata, alla quale era impossibile ribattere efficacemente. Ma Baruch non sembrava voler ribattere, si limitava a guardare docilmente il suo interlocutore. Gottfried continuava a passeggiare nella stanza cercando di disciplinare la folla di domande da porre a quell’uomo così sereno, nonostante la malattia gli avesse già rubato la naturalezza del respiro. Soprattutto avrebbe voluto chiedergli perché non avesse accettato la cattedra di filosofia che gli avevano offerto a Heidelberg, e se davvero, come aveva sentito dire, avesse rifiutato anche il dono di duemila fiorini che un suo scolaro e amico, un certo De Vries, gli aveva generosamente offerto. Ma si sarebbe trattato di domande inutili: sapeva già che Baruch aveva rinunciato all’insegnamento accademico perché temeva che avrebbe limitato la sua indipendenza spirituale e di pensiero. Quanto ai duemila fiorini, gli erano parsi troppi, così da De Vries aveva accettato solo la pensione annua che l’amico gli aveva scongiurato di prendere, e non i 500 fiorini offerti, ma 300. Quello che guadagnava con il suo lavoro gli bastava: era noto per la sua straordinaria abilità con le lenti, rara in un secolo che da poco aveva scoperto i segreti della moderna scienza ottica. Ma per Gottfried un filosofo che fabbrica, levigava e puliva lenti era perlomeno ridicolo. Oltre tutto aveva scelto quel modesto mestiere in osservanza a un precetto rabbinico che prescrive a ogni uomo di praticare un lavoro manuale. Osservanza di un precetto rabbinico per lui che era stato scomunicato con tanto di maledizione? Non aveva senso. Quell’uomo era un povero pazzo che aveva deciso di vivere in solitudine e in uno stato di riprovevole indigenza. Era arrivato il momento di porre fine a quella visita.
“ Ora, anche se malvolentieri, le chiedo di darmi congedo. Devo partire al più presto per improrogabili impegni: sono atteso dal duca di Hannover, che si è compiaciuto di richiedere i miei modesti servigi. Spero, comunque, di aver conquistato, se non la sua stima, almeno la sua benevolenza.”
“Mio caro amico, lei ha tutta la mia benevolenza possibile.”
Compiaciuto, Gottfried era arretrato verso l’uscita seguito da René, che camminava lento, a capo chino. Il saluto di Baruch era stato uno sguardo da bambino impertinente. Appena in strada Gottfried si era sentito schiaffeggiato dal freddo tagliente. Aveva reagito al gelo pensando che non sapeva davvero che farsene della benevolenza di quello straccione. Stava per sorridere sarcastico, ma un lampo della memoria gli aveva messo sotto gli occhi, come scritta su pagina immacolata con inchiostro nerissimo, una definizione di Spinoza: “La Benevolenza è Cupidità di far del bene a colui del quale abbiamo commiserazione.”
Non era stata una gran giornata per Ermanno, proprio per niente. Si era trascinato tutto il pomeriggio aspettando la sera davanti al televisore, aveva cucinato due uova al tegamino, bevuto qualche bicchiere di un vino nero e forte, ed era andato a letto, prima del solito, come se il giorno dopo avesse dovuto alzarsi di buon’ora.
Era andato a dormire davvero troppo presto. Quando riaprì gli occhi nessuna luce filtrava dalle imposte, ma ormai era sveglio. Alzandosi cercò la vestaglia di lana pesante abbandonata ai piedi del letto. Non la trovò subito perché si era insabbiata tra le coperte. Con le pantofole, invece, ebbe maggior fortuna, i piedi le trovarono al primo colpo, e grazie al chiarore vagabondo della sveglia digitale poté raggiungere la finestra. Per fare freddo, faceva freddo, eccome. Si accorse di rabbrividire non poco mentre alzava la tapparella. Venere, la stella del mattino, brillava a sinistra dell’orizzonte, rischiarando uno spicchio di tenebra in attesa che il sole arrivasse da oriente a darle man forte. Quella stella che bucava il buio era tutto quanto l’universo gli offriva prima che arrivasse il giorno e poi di nuovo la notte. Andava benissimo così. Percepiva ogni cosa con tutti i sensi accesi per catturare il bianco brillante della prima stella. L’aria profumava di freddo e il cuore gli batteva forte. Avvertiva il mondo intorno a sé con una meraviglia e un entusiasmo come non gli capitava da bambino. Richiuse piano la finestra cercando di fare il minimo rumore possibile. Non voleva disturbare quel dialogo senza parole tra la sua anima e il tempo della stella. Un fraseggio profondo ma velocissimo, che durò il tempo di un battito di ciglia. Comunque abbastanza a lungo da cancellare in lui l’antica paura di vivere e, quindi, di morire.
Gottfried, appena arrivato al suo nuovo domicilio presso il duca di Hannover, avrebbe immediatamente licenziato René. Quell’impudente, dopo la visita a quel filosofo da strapazzo, nemmeno lo aveva accompagnato alla locanda, con la scusa di dover comprare un bottone per la giacca azzurra. Ma che urgenza c’era? Un bottone per una giacca che Gottfried indossava solo nelle grandi cerimonie! Nessuna urgenza, soltanto un banale pretesto per piantarlo lì senza nemmeno un inchino, un cenno di saluto, accanto a una pozzanghera ghiacciata che la sera cominciava a tingere di blu. Intollerabile. Gottfried era tornato alla locanda non senza difficoltà, non aveva fatto caso al dedalo di viuzze che l’avevano portato alla bottega di Baruch: occuparsi di itinerari e locande non era affar suo, ma preciso dovere di quell’impudente del segretario. Tuttavia uno scienziato come lui poteva ben cavarsela da solo, no? Aveva cercato di orientarsi, ma le strade gli sembravano tutte uguali. Pochi e frettolosi i passanti in quell’Olanda, patria europea della tolleranza e della libertà di pensiero, ma scostante e sbrigativa nel dare risposte a uno straniero che cercava di tornare alla sua locanda. Dopo una cena tanto modesta da risultare insapore, stanco per la giornata spesa inutilmente, era salito in camera e si era spogliato cercando di sistemare nel modo più diligente possibile gli abiti. Appena a letto, aveva avuto un moto di stizza che aveva scaricato nella mano destra stretta a pugno per minacciare la finestra: aveva dimenticato di lasciare un po’ aperte le imposte. Era corso a dischiuderle. Era rimasto tutta la notte sveglio nell’attesa del rientro di quel somaro di René. Probabilmente era finito in qualche bettola a ubriacarsi. Ma René non aveva mai bevuto nemmeno un goccio di vino. Forse lo avevano rapinato e ucciso. Difficile: René era un uomo accorto, senza contare che l’Aja era una città mite anche nel crimine. La verità era che il suo segretario lo aveva abbandonato. Non ricordava chi, ma qualcuno, sicuramente una donna, una volta gli aveva detto che lui era una persona troppo difficile e che sarebbe morto da solo. Per sfuggire a un pensiero tanto molesto si avvolse nella sua tana di coperte. All’improvviso la strappò dal letto trascinandosela addosso. Così intabarrato andò a cercare la luce aprendo la finestra. Venere era lì ad aspettarlo. Venere, la più bella delle dee, che adesso sembrava guardare benignamente proprio lui. E perché no? In fin dei conti non poteva considerarsi un uomo ordinario uno come lui, scienziato e filosofo che aveva consacrato la vita alla filosofia e alla conoscenza solo per… per…
“Per tentare di assicurarsi il favore degli dèi e del Dio senza faccia che è dietro di loro.”
Rimase fermo davanti alla finestra avvolto da coperte e lenzuola che ora pesavano quanto una cappa di piombo immobilizzandolo. Tentò di liberarsi ripetendosi che non doveva prendere seriamente in considerazione le parole di un uomo come Spinoza. Un eretico convinto dell’esistenza di un Dio senza faccia che non chiede sacrifici o rituali, e nemmeno pretende di essere amato. Ma allora cosa chiedeva e cosa dava, infine, il Dio di Spinoza? Magari solo quella stella appuntata nel cielo e lui che la stava a guardare.
“Già… la stella persa nella notte e io che la guardo.”
Gottfried richiuse piano la finestra per sfuggire alla lastra di gelo che gli aveva punto gli occhi e le guance, poi tornò a letto. La prima stella del mattino non chiedeva altro che di essere guardata, e lui null’altro che di ammirarla. Non perché questo avesse un significato o un fine preciso, ma solo perché era nell’ordine razionale e necessario della natura di cui aveva scritto Spinoza, e forse anche in quello contingente postulato da Leibniz, convinto di vivere nell’unico, e quindi migliore dei mondi possibili, che affidava all’uomo e al suo libero arbitrio la scelta del proprio destino. Un universo senza alcun fine, creato da un Dio che crea essenzialmente per amore verso se stesso: era questa, invece, la terribile e vera maledizione che aveva finito per chiudere Baruch nella sua prigione di solitudine. Spinoza, rinunciando alla speranza di poter riuscire ad amare anche quello che non era riuscito a capire, si era maledetto da solo. A tale pensiero Gottfried si rintanò il più possibile nelle coperte, ma non trovò pace se non dopo aver deciso che avrebbe fatto ancora visita a quello smagrito filosofo con il quale, in realtà, aveva da condividere molto più di quanto avesse pensato. Dopo molti incontri con quello che ormai era diventato suo amico, avrebbe scritto una straordinaria prova a priori sull’esistenza di Dio.
Gottfried Wilhelm Leibniz, tormentato da atroci attacchi di gotta, morì a settant’anni ad Hannover, il 14 novembre 1716, assistito solo dal segretario e dal cocchiere. Al suo funerale non intervenne nessuno della corte di Giorgio Luigi di Hannover, che intanto era diventato re Giorgio I d’Inghilterra.
Nonostante alcuni lo ritenessero un filosofo un po’ troppo cortigiano, Leibniz era semplicemente un uomo straordinariamente innamorato del sapere e della vita. Aveva anche studiato il mondo degli animali, e si dice riportasse gli insetti, una volta esaminate le loro caratteristiche, esattamente dove li aveva catturati. Rispettava qualsiasi forma di vita del pianeta, convinto che anche gli animali fossero immortali, dal momento che nella natura non c’è alcuna morte, mai, ma solo metamorfosi.
Baruch Spinoza si spense il 31 febbraio 1677, a soli quarantaquattro anni, pochi mesi dopo il suo incontro con Leibniz. Dicono che per giorni molti clienti continuassero ad andare alla sua bottega per far aggiustare o pulire i loro occhiali, e che rimanessero costernati nell’apprendere dagli abitanti della strada della morte di quell’uomo mite che volentieri parlava con loro di tantissime cose. Di scienza e filosofia con coloro che possedevano microscopi o cannocchiali, del clima e della natura con chi usava i cristalli ottici semplicemente per vedere meglio. Della sua morte, come della sua vita, scrisse un pastore luterano che si era proposto di annientarne le tesi eretiche, ma che poi finì per lodarne l’esistenza da santo del pensiero.
Ermanno ormai è in pensione. Come molti uomini anziani dorme poco, ma ha un suo rimedio: accanto alla finestra, poggiato sul tavolino, tiene un binocolo. Qualche volta si sveglia in piena notte senza riuscire a riaddormentarsi, allora aspetta che arrivi Venere, la inquadra col binocolo e le sorride stirando appena le labbra. È il suo modo di salutare Sara, così ha ribattezzato la prima stella del mattino. Poi torna a letto e, quasi sempre, riesce a riprendere sonno e a sognare.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).