Parlando di Dino Campana, quasi automaticamente il pensiero corre ai Canti Orfici e a Sibilla Aleramo, a un amore che è stato sezionato e storicizzato contribuendo suo malgrado a ridurre uno dei poeti italiani più tradotti nel mondo a una specie di macchietta da melodramma: il “pazzo” che entra in scena con la guerra, nel ’14, come un fulmine a ciel sereno nei salotti buoni della cultura italiana, e che con la guerra ne esce (viene internato definitivamente nel gennaio 1918), ideale coetaneo di poeti postumi come Ungaretti e Montale, dileggiato dai suoi contemporanei e mitizzato nei decenni successivi alla sua morte avvenuta nel 1932. Rileggere le lettere che Campana scrisse non solo alla Aleramo, ma a tutti i protagonisti di quella stagione davvero elettrica (Papini, Carrà, Soffici, Cardarelli, e ancora Cecchi, Prezzolini, De Robertis, parti attive di quell’«industria del cadavere»1 che con tutte le sue forze Campana desiderò e odiò esattamente come desiderò e odiò Sibilla Aleramo) apre uno scenario quasi inedito intorno all’unico artista italiano autenticamente orfico (definizione che non a caso viene coniata nel 1912 da Apollinaire nelle Meditazioni estetiche), estraneo ai diktat delle avanguardie, “bestia da stile” incapace di seguire le mode e anche decisamente guastafeste, facile alla noia, all’insofferenza e di conseguenza non incline al fioretto quanto piuttosto alla sciabola (non a caso, non esita già nel ’14 a minacciare di infilzare il gelido Papini per passare direttamente a paventargli «un buon coltello»2 due anni dopo).
Un “ragazzo” che vede ancora i compromessi come il male assoluto e che viene neutralizzato con l’etichetta, appunto, del matto, che a 18 anni esce dall’accademia militare, a 22 preferisce lasciare l’università per saltare su un treno e poi su una nave diretta a Buenos Aires, a 32 viene seppellito vivo in manicomio con buona pace dell’intellighenzia coeva e dei familiari che si poterono finalmente rimettere a lavorare in pace senza essere disturbati dai suoi strepiti.
Il ragazzo che, prendendo il verso di Whitman in epigrafe ai Canti Orfici, sporcherà di sangue i suoi carnefici (epigrafe che Campana in una lettera a Cecchi definì come il nucleo di tutta l’opera e che Vallecchi arbitrariamente cancellerà insieme alla dedica all’imperatore tedesco Guglielmo II dalla sua edizione “ufficiale” del 1928. E un Campana ammorbidito dalle scariche elettriche alle tempie e sui genitali commenterà così questa nuova edizione in una lettera al fratello Manlio: In qualche momento di tranquillità potei notare i continui errori del testo che è così irriconoscibile. Non sono più in grado di occuparmi di studi letterarii, pure vedendo che il testo va così perduto. Ti pregherei ricercare l’edizione originale di Marradi, per conservarla per ricordo. Non ho bisogno di nulla e continuo a vivere normalmente).
Un ragazzo che non riesce a stare seduto né a scuola né al bar né alle cene, un ragazzo il cui dolore e le cui estasi, riportate in chiara grafia su un manipolo di pagine, si tradurranno in altre estasi anche per chi le leggerà. Un ragazzo che trova Benedetto Croce simile a quei vecchi sacerdoti che frenano la vitalità delle nuove generazioni, e i suoi coetanei nei caffè fiorentini troppo simili a chiassose, prepotenti baccanti. Quelle baccanti da cui finì sbranato un altro ragazzo, Orfeo, che tra gli ottusi sacerdoti del padre Apollo era cresciuto, nel tentativo di portare a compimento la missione di conciliare la Ragione di Apollo e di Zeus con l’Istinto vitalistico di Dioniso.
Dal tono della sua simpatica cartolina sembra che si sia fatta un’idea inesatta del mio carattere; io faccio l’orso, lo strambo, solo con quelli che non hanno gli elementi di sensibilità per cui ci si possa intendere: per il bisogno di sfuggire a dei fastidiosissimi… titillamenti. Sono nemico dei mezzi termini e cerco senz’altro dei “fratelli”. Sono insomma, se Lei vuole, anzi se Boine vuole, solamente un po’ primitivo. Ma torneremo di moda anche noi, ci ho questa speranza.
Così scrive nell’estate del 1915 il trentenne Campana a Mario Novaro, direttore della rivista La Riviera Ligure, che promossa dall’azienda olearia di famiglia, la Sasso, veniva spedita in cassetta con l’olio e portava nelle case degli italiani inediti di Campana e anche di Giovanni Boine, Piero Jahier, Camillo Sbarbaro. La Riviera Ligure, grazie anche alla lungimiranza e al senso dell’umorismo di Mario Novaro e dei suoi figli, fu tra le poche riviste che accolse subito e di buon grado lo scostante poeta di Marradi.
Le grane di Campana: tutti hanno imputato le sue gesta alla malattia. Sebastiano Vassalli, nella biografia romanzata La notte della cometa, insiste sulla sifilide come causa della sua rovina. Secondo questa teoria il poeta si ammalò a Genova nel 1912 dello stesso ceppo di cui si ammalò Nietzsche: Spirochaeta pallida. Teoria suggestiva, visto che davvero in quegli anni il manicomio era spesso un raccoglitore di malessere indifferenziato che comprendeva di tutto, dalla semplice depressione ai disturbi sessuali fino alle diffusissime malattie veneree. Il primo referto medico che riguarda Campana e di cui ci resta testimonianza è datato 10 maggio 1906. Dino ha 21 anni e, dopo il fallimento della carriera militare, dopo le prime escandescenze in reazione a un paese bigotto e conformista e a una madre nevrotica e altrettanto bigotta, dopo le prime fughe che saranno la sua unica vera dipendenza, i genitori, ciechi sostenitori della psichiatria come panacea per tutti i mali, chiedono di internare Dino per placarlo. Suo padre Giovanni vuole ricoverarlo a Imola presso il Dottor Brugia, a cui anni prima si era rivolto per curare (con successo, a suo dire) alcuni suoi “disturbi nevrastenici” che probabilmente altro non erano che problemi matrimoniali, stanti le poche informazioni che abbiamo su Giovanni e la sua “terribile” moglie Fanny Luti, curati con “preparati bromici”, ossia calmanti che influiscono sia sulla sfera emotiva che su quella sessuale. Inoltre, ad aggravare le ipocondrie di Giovanni c’è un precedente: lo zio Mario Campana, a sua volta morto in manicomio e di cui Dino stesso si ricorda bene.
Prima di portare il figlio appena maggiorenne in ospedale, Giovanni pensa di farlo visitare da un luminare bolognese, il prof. Vitali, che così scrive a Brugia: Si tratta di una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l’isolamento affettivo e morale, e l’uso di preparati bromici.
– Con tali mezzi si otterranno vantaggi; ma quali? E fino a che punto?
– Che peccato! Egli è un ragazzo tanto simpatico!
– Ad ogni modo insisti perché i suoi lo lascino tranquillo il più possibile; e chissà?3
Un ragazzo “tanto simpatico” che risulta un peccato chiuderlo in manicomio, una famiglia che dovrebbe lasciarlo tranquillo. Per ironia della vita e non della sorte, quando si riuscirà finalmente a rinchiudere Campana nel 1918, passati i primi mesi di ira (e chi non sarebbe andato giù di matto ad esser sepolto vivo?) “il ragazzo” tornerà di nuovo simpatico: in tutti gli anni di ricovero psichiatrico a Castel Pulci sarà tra i pochi a non creare problemi. Le ire scattano da quel corpo troppo pieno di vita davanti ai difetti che lui reputa mortali nei suoi simili, non nei malati: il qualunquismo, il calcolo, l’ipocrisia. E quando prova ad adeguarsi a quegli stessi difetti, Dino si rende goffo e incapace. Così lo ricorda la figlia del suo padrone di casa genovese:
Era un buon giovane ma non credeva, ce l’aveva coi preti e diceva di essere anarchico. Rammento ora un particolare; girava sempre verso il muro il quadro della Madonna che era sul letto; un giorno gli cadde sulla testa; si adirò moltissimo e dovemmo toglierlo definitivamente. Non avrei mai più pensato che fosse un poeta e nemmeno che sarebbe finito, come si dice, in manicomio. Era molto serio, e per quanto stravagante non ci furono mai discussioni con lui. Amava Genova come un’amante, litigava con Firenze come con una moglie.
Scorrendo i Canti Orfici, Genova appare come il porto di quel Sud dolce e illusorio (come lo definisce lo stesso Campana in un inedito consegnato a Papini per Lacerba e mai pubblicato) che Beethoven aveva individuato nel Sud della Francia e che lui identifica poco più giù, in Liguria. Un sud idealizzato, molto lontano dal “Meridione” che Dino nei suoi slanci non esita a stigmatizzare.
Non si tratta di un odio reale, ma di un odio simbolico. Scomodando ancora Orfeo, Campana vede due emisferi: un nord reale, la Francia, l’Impero tedesco, il progresso, là oltre le Alpi. E un sud reale: il Mediterraneo, le pruderie di stampo religioso che frenano la civiltà, gli archetipi insuperabili, le regole imposte senza motivo, lo storicismo sterile. «Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie di D’Annunzio che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nulla. Siamo fino alla gola nell’enfasi meridionale», scrive a Prezzolini nel 1915. E poi c’è il “suo” Sud, che unisce la grazia alla passione e che sarà legittimato in Italia dai fratelli De Chirico ma che nell’Europa di Campana è lo stesso di Beethoven, Nietzsche, Böcklin, e anche di Apollinaire, Chagall, Debussy. E sempre per guastar feste e piantar grane, se l’epigrafe sanguinaria di Whitman ricorda proprio l’assassinio di Orfeo secondo la versione simbolica di Schuré, la dedica all’imperatore tedesco Guglielmo II che apre la raccolta è tanto emblematica quanto scomoda, e anche in questo caso Dino confida a Cecchi i motivi di quello slancio che gli costò, complici i suoi effettivi tratti germanici (capelli chiari, lineamenti marcati, stazza massiccia), l’attenzione della polizia negli anni della Grande Guerra:
Ora io dissi die tragedie des letzen germanen in Italien [sic] mostrando di aver nel libro conservato la purezza del Germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone) Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini). Così io invocavo giustizia contro la brutalità secolare clericale e popolare. Proprio così. Il ragazzo affida a una parentesi un concetto che gli pare ovvio: sentendo di non avere una patria bisogna cercarsene una ideale.
Un poeta lo si preferisce immaginare sempre grande, scevro dalle nostre umane miserie. In questa selezione delle sue lettere Campana ci mostra anche tutte le sue spigolosità caratteriali, si abbandona senza reticenze (e volentieri!) ai malumori e alle idiosincrasie. Ma forse il miglior consiglio per affrontare il suo epistolario resta sempre lo stesso che diede anche lui a Cecchi nel 1916: Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and covered with the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro.
Marco Cubeddu (Genova, 1987), ha pubblicato i romanzi «Con una bomba a mano sul cuore» (Mondadori, 2013) e «Pornokiller» (Mondadori, 2015). Scrive su diverse testate, tra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera», «Link - idee per la tv», «Il Secolo XIX», «Panorama», «Il Giornale» e «Linkiesta». È caporedattore della rivista letteraria «Nuovi Argomenti». Vive tra Roma e Milano. «L'ultimo anno della mia giovinezza», reality letterario sulla vita di Costantino della Gherardesca, esce per Mondadori il 30 gennaio 2018.