“Adorazione” di Alice Urciuolo

da | Ott 1, 2020 | Fiction

Pubblichiamo un’anticipazione da “Adorazione”, il romanzo di esordio di Alice Urciuolo, pubblicato da 66thand2nd.

1.
Diana indossò la tuta e uscì dal bagno, guardò le ragazze in quello spogliatoio troppo piccolo e troppo caldo dove si sentiva e si vedeva tutto: i capelli profumati di shampoo, l’odore di un assorbente usato, di un profumo troppo forte, le gambe fresche di estetista, le dita dei piedi perfettamente smaltate. Alcune si toglievano i vestiti e andavano a fare pipì sfilando in mutande e reggiseno, altre erano compagne di danza e prima di entrare in palestra facevano esercizi difficili di stretching contro il muro, dove le scritte Duce regna si alternavano a dichiarazioni d’amore. Quella preferita di Diana era una citazione di Catullo dedicata a una certa Chiara: Chiara, amo et excrucior.
Dopo due anni di educazione fisica nessuna delle ragazze della sua classe l’aveva mai vista nuda, mentre Diana aveva visto nuda ognuna di loro: le femmine erano la cosa che aveva guardato di più in tutta la sua vita. Sin da quando era piccola sua madre studiava le clienti che venivano al ristorante e poi commentava con lei il loro aspetto, Diana sapeva perfettamente quali erano quelle che Diletta considerava bellissime, perché erano tutte fatte in un certo modo. Ormai si era abituata a classificarle: c’erano quelle fatte in un certo modo e poi c’erano le altre – lei faceva parte delle altre. Anche Vera faceva parte delle altre, ma loro due erano diverse, c’era qualcosa in Vera che semplicemente non ti permetteva di ignorarla quando la vedevi. Era consapevole di ogni suo movimento, esercitava il controllo sullo spazio che occupava. In palestra, mentre si toglieva la maglietta, mentre si allacciava i pantaloncini, Diana non riusciva a smettere di guardarla, come non riusciva a smettere di guardare tutte le altre ragazze. Era un pensiero che la imbarazzava, però non poteva fare a meno di chiedersi se in realtà non le desiderasse. Ma se le desiderava, perché non sognava mai di toccarle o di essere toccata da loro? E se invece non le desiderava, perché continuava a guardarle? Non solo negli spogliatoi, ma anche per strada, nei negozi, in televisione, nei sogni. Dappertutto.
Lei e Vera avevano sedici anni ed erano cresciute nelle campagne dell’Agro Pontino, intorno a loro distese di campi bonificati interrotti solo dal cemento dei palazzi e da migliare che tagliavano lo spazio con geometrica esattezza. Per andare al liceo a Latina si incontravano alla fermata del Cotral ogni mattina alle sette e venticinque, e dopo mezz’ora di viaggio si ritrovavano in un altro mondo, quello delle compagne di classe di Latina che nella trousse avevano il mascara di Kylie Cosmetics, che andavano dal parrucchiere a farsi la messa in piega tutti i weekend e che a settembre parlavano di vacanze in Kenya o in altri posti così. Queste non sanno niente, pensavano quando quelle di Pontinia, Sezze e Priverno chiedevano dove fosse il locale di cui stavano parlando, o quando correvano a prendere l’autobus per tornare al paese. Diana lo capiva e ci credeva. Solo più tardi avrebbe capito un’altra cosa ancora: si è sempre la provincia di qualcun altro, anche Latina era provincia.
Era l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola e il suono della campanella le proiettò verso l’estate. All’uscita fecero la lotta con i gavettoni, riempiendoli d’acqua e farina. Diana stava in disparte, limitando la possibilità di tirarli come quella di riceverli, Vera invece era al centro della lotta, lanciava contro tutti ma quelle di Latina evitavano di sfidarla per prime, non si permettevano con lei. Erano supponenti con tutte quelle di fuori, ma non con Vera, sentivano il suo distacco, la sua noncuranza, e poi sapevano che se l’avessero provocata lei le avrebbe rimesse a posto dicendo qualcosa che faceva molto male. Lo sapevano, si erano già fatte male. Per loro era un mistero come potesse essere amica di Diana, che non sembrava in grado di difendersi dalla sua ombra, eppure stavano sempre insieme, come se per loro semplicemente non esistesse altra possibilità, altra scelta.
Arrivarono alla fermata dell’autobus che il Cotral era già partito, ma stava fermo a un semaforo poco più avanti, Vera allora si mise a correre e andò a bussare al finestrino. L’autista la vide bagnata e sporca di farina e fece segno di no col dito, lei gli si piazzò davanti bloccando la strada subito prima che scattasse il verde. L’autista le rimproverò stancamente e le fece salire.
Già all’inizio dell’estate si soffriva su quei vecchi autobus, in quella terra che era stata una palude il caldo ti si attaccava addosso e non ti lasciava più. Non c’era l’aria condizionata e si viaggiava coi finestrini aperti, le tendine fissate male a svolazzare fuori e i sedili pelosi che ti facevano sudare e pizzicare le cosce. Vera prese Diana per mano, andarono a mettersi in fondo, si divisero gli AirPods contraffatti che avevano comprato dai cinesi e che si sentivano male, ascoltarono Lorde cantando piano, all’unisono.
Quando l’autobus si fermò davanti allo scientifico il primo a salire fu Giorgio, anche lui fradicio per i gavettoni. Con uno scatto raggiunse gli ultimi due posti liberi in fondo, proprio davanti a Diana e a Vera, e posò lo zaino sul sedile accanto al suo. Era il fratello maggiore di Vera, aveva diciott’anni e Diana si sentiva completamente insignificante ai suoi occhi. Lui si voltò a salutarle, Diana notò che si era fermato a guardarle la maglietta e non capì il senso di quell’occhiata. Pensò che probabilmente la stava osservando perché era macchiata di farina e non doveva avere un bell’aspetto, così incrociò le braccia davanti al petto per nascondersi.
Un ragazzo si avvicinò e chiese a Giorgio se poteva sedersi nel posto accanto al suo. «No, scusa, è occupato» rispose lui, poi si voltò verso il corridoio e fece cenno a qualcuno. Diana guardò avanti e vide Melissa che era appena salita sull’autobus insieme alle sue amiche, Asia e Maria Rita. Parlarono un attimo fra di loro, poi lei avanzò nel corridoio chiedendo permesso alle persone che stavano in piedi.
«Ciao belle» disse a Diana e a Vera. Giorgio tolse lo zaino, lei si sedette e lui le mise un braccio attorno alle spalle.
Diana guardò Vera in cerca di una spiegazione, ma Vera scosse la testa: se avevano ricominciato a vedersi, lei non ne sapeva niente. Erano due mesi che facevano tira e molla, era impossibile per chiunque starci dietro.
Diana spiò Melissa tra i sedili, piegando il collo di lato riuscì a intravedere la forma del seno accarezzata dalle punte dei capelli colorate di blu, e subito la immaginò nella camera di Giorgio mentre scopavano sulla scrivania. Non riuscì a non immaginarla anche se le dava fastidio, avrebbe voluto esserci lei al suo posto, ma nella fantasia tutto si stava confondendo, il volto ora era il suo, ora quello di Melissa, così Diana alzò il volume di Ribs per andarsene in un altro luogo.
Melissa e le sue amiche scesero dalle parti di San Michele, uno dei «borghi di fondazione» intorno a Latina, piccoli centri che in origine avevano ospitato le povere case dei coloni arrivati dal Veneto a bonificare la palude durante il Fascismo. Melissa di cognome faceva Padoan, ma la casa di famiglia ora era diventata una villa enorme e si trovava proprio di fronte alla fermata. Quando ci passavano davanti Diana pensava sempre che un giorno anche lei sarebbe diventata un dottore come il padre di Melissa, che era ginecologo, ma lei avrebbe fatto Neurologia e non avrebbe certo scritto ricette per le amiche della figlia che si vergognavano ad andare al consultorio per la pillola; magari non era una cosa che faceva spesso, però l’aveva fatto per Vera un anno fa, quando lei stava ancora con Francesco.
«Ci vediamo dopo pranzo?» le chiese Vera quando finalmente arrivarono a Pontinia e scesero tutti e tre. Diana le disse di sì, poi salutò lei e Giorgio e proseguì da sola verso casa.
Erano le due e in giro non c’era quasi nessuno, nel silenzio dell’ora di pranzo dalle finestre aperte giungeva il tintinnio delle posate sui piatti, il clac della porta del frigo, la voce del telegiornale. Passò per piazza Indipendenza, girò all’angolo col Teatro Fellini e fuori dal bar incontrò solo Ricotta, che cercava invano qualche vecchio con cui attaccare bottone. Aveva il volto completamente rosso, scavato dalla magrezza e dalle rughe, i pochi capelli rimasti gli arrivavano alle spalle, erano grigi e crespi, intrecciati tra di loro. Ce l’aveva con i sikh che venivano a lavorare nei nostri campi, non li dovevano proprio far entrare in Italia, o sarebbero finiti tutti come sua madre, che durante la guerra era stata violentata da un marocchino. Ad ogni modo, Ricotta era sempre ubriaco ed era inutile spiegargli che i sikh erano indiani.
Diana svoltò l’angolo e passò vicino al parchetto. Conosceva a memoria ogni peluche, ogni foto, ogni biglietto sotto lo striscione NON TI DIMENTICHEREMO MAI, PICCOLO ANGELO, per questo si accorse subito che c’era una nuova foto. Erano Elena e Vanessa in spiaggia, facevano un cuore unendo le dita. Ancora una volta le tornarono in mente i fiori, la chiesa piena, le facce sconvolte. Vanessa, Giorgio, Gianmarco, Teresa e tutti gli altri del gruppo in prima fila che si tenevano per mano in silenzio, vicino ai genitori di Elena. Lei, Vera, Nicoletta e tutte le ragazze più piccole erano sedute in fondo, assistevano da lontano non completamente sicure se credere alla realtà di quella bara lì davanti all’altare o pensare ancora che fosse tutto un’illusione.

Salì le scale del suo palazzo e aprì la porta all’ultimo piano. A casa la tavola era apparecchiata e il televisore acceso. Sua madre si era divisa i capelli in due ciuffi e li aveva arrotolati sulla testa, per farli diventare ricci. Massimo, suo padre, ancora oggi credeva che i ricci di Diletta fossero naturali, in tutti quegli anni non se n’era mai accorto, non ci capiva niente.
Quel giorno sua madre era tornata prima dal ristorante e adesso, seduta sulla sedia a dondolo, stava sfogliando «Chi». Diana le aveva spiegato tante volte che le stesse notizie che leggeva lì avrebbe potuto trovarle su Instagram seguendo direttamente le modelle e le attrici, le aveva pure installato l’applicazione sul telefono, ma sua madre non ci si trovava, preferiva un giornale da poter sfogliare. Diana sbirciò la rivista, faceva sempre finta di non essere interessata ma poi andava a leggersela di nascosto. Nella foto di copertina un’attrice camminava per strada spingendo un passeggino, vicino a lei un uomo, il titolo recitava: Con Paolo torna l’amore. Indossava dei pantaloni cargo marroni e una canottiera a costine, gli occhiali scuri calati sugli occhi, i capelli tenuti su da uno chignon disordinato. Non sembrava la donna che vedevi in tv, nei film, così perfetta che ti chiedevi se fosse stata modificata al computer – «Sono tutte modificate al computer» diceva sempre Diletta. Le piaceva quando trovava una foto che le sorprendeva come dovevano essere davvero: un paio di jeans, niente trucco, i capelli senza la piega. Ma le piaceva anche quando apparivano meravigliose, sublimi, irraggiungibili. Il sogno e la piccola consolazione, sua madre voleva tutte e due le cose.
L’estate a Sabaudia vedevi gente che attraversava veloce la spiaggia con il cellulare in mano: avevano sentito che da qualche parte c’erano Totti e Ilary a prendere il sole. Quando li trovavano cercavano di accaparrarsi una foto con loro, o almeno di fargliene una. E se non per intero, almeno a una parte: un braccio, una gamba, una caviglia. Pure una caviglia di Totti andava bene. «Li hai visti?». E tiravano fuori il telefono. «Io sì, ecco la foto». Erano molto emozionati e orgogliosi. Creature di un altro pianeta erano venute in visita al nostro, e loro, i più fortunati, avevano immortalato per tutti il momento. Diletta guardava la spiaggia dal ristorante e sospirava: «Chissà se Totti e Ilary verranno mai a mangiare qui, un giorno».
Dieci anni prima Massimo aveva trovato un locale con la terrazza che si affacciava sul mare e aveva deciso che sarebbe diventato il loro ristorante. Le Rocce era a venti minuti di macchina da casa, bisognava attraversare la pianura pontina per intero fino a quando all’orizzonte i campi afosi lasciavano il posto al mare. Quasi non ci credevi che, superate le migliare, le case di cemento finite solo per metà, gli indiani con il turbante che raccoglievano tutto il giorno i pomodori e i kiwi per una miseria, a un certo punto davanti a te si aprisse il mare. Perché nell’Agro Pontino non c’era niente se non la campagna e il cemento, ma in fondo, alla fine, trovavi il mare di Sabaudia, e ci venivano pure i vip.

Diana entrò in bagno per farsi una doccia, si sfilò i jeans bagnati e li buttò per terra. Guardò i contorni irregolari della voglia che le ricopriva interamente la coscia e la natica destra, e che lo specchio rifletteva in tutta la sua grandezza. Era per questo che a scuola si cambiava sempre in bagno e mai insieme alle compagne di classe di Latina, non osava neppure immaginare i loro commenti se mai l’avessero vista.
«Però hai delle belle gambe» le diceva sempre sua madre.
Però.
La voglia non era molto più scura del colore della pelle, era di un rosa intenso eppure tenue, ma comunque si vedeva, e per Diana si vedeva tantissimo. Qualche mese prima aveva letto che si poteva rimuovere e così aveva insistito perché sua madre la portasse da un dermatologo. Il dottore le aveva confermato che era vero, ma per toglierla bisognava aspettare che Diana avesse finito di crescere e che con lei avesse finito di crescere anche la voglia: insomma, bisognava aspettare almeno i diciott’anni. Diana non fu felice di sentirlo, sperava di poterlo fare subito. Il dermatologo le chiese perché volesse farlo. Lei gli rispose che era brutta, e lui iniziò a spiegare che non solo non era brutta ma era pure una cosa che la rendeva unica, perché era sua e basta. Diana pensò solo che quella era la classica frase che uno che non ha una voglia gigante dice a uno che ce l’ha. Aveva ascoltato tante volte quelle parole: non esisteva la perfezione nei corpi, solo l’irregolarità, ognuno di noi è fatto in modo diverso, e poi neanche le due metà di una stessa persona sono uguali… Le sapeva benissimo queste cose, eppure la sua voglia non le sembrava tollerabile.
Tornando a casa, quel giorno di qualche mese prima, si rese conto di non aver chiesto al dermatologo da chi sarebbe dovuta andare a fare l’intervento. Era sicura che non avrebbe potuto farlo a Pontinia, e neppure a Latina. Sarebbe dovuta andare fuori.
Non sapeva cosa c’era fuori.

Alice Urciuolo (1994) lavora come sceneggiatrice. È tra le autrici della serie di successo Skam Italia (Netflix, Tim Vision e Cross Productions) ed è attualmente impegnata nella scrittura di altri progetti per piattaforme internazionali. È nata in provincia di Latina, vive a Roma. Adorazione è il suo primo romanzo.