[«Officina Poesia» inaugura un nuovo spazio dedicato all’incontro tra poesia e arti figurative, sceniche, musicali, narrazioni in prosa. In apertura proponiamo la prima di una serie di interviste a pittori under 35 che lavorano a Milano. L’intervista è accompagnata da un videoclip.]
Linda Carrara è nata a Bergamo, ma da anni vive e lavora a Milano. Conoscevo già la strada per arrivare al suo studio ed è stato bello fare questa strada non con l’idea di andare a trovare un’amica da poco conosciuta, ma la sua pittura, il mondo di segni che si agita dentro di lei. Da quando ho scoperto la sua giovane opera pittorica ho sempre sentito che la ricorrenza della figura circolare che s’apriva sulle sue tele fosse un invito ad andare oltre, a cercare più in profondità nel suo stile quali fossero le ragioni attraverso cui una mia coetanea, oggi, potesse decidere di rinnovare una delle più antiche arti del mondo, la prima arte muta, la prima che fa del visibile il suo nocciolo e la sua croce.
A nord di Milano, proprio di fronte ad una delle più estreme stazioni ferroviarie della città, nel quartiere di Affori, l’aria era fresca quel tardo pomeriggio, come poco dopo la pioggia; il cielo era un frammento di nuvole bianche, in moto lentissimo, come quando – lo sai – la pioggia sta per tornare. E nella mia vita è stato altre volte così, Milano alla fine di agosto, in un tempo atmosferico che dice e proclama, inesorabile come solamente sa essere Milano, la fine dell’estate, la fine dell’agio e dell’ozio; e l’inizio, con il minaccioso settembre, di un fare che non lascia scampo.
Per arrivare al suo studio è necessario scendere una discesa molto ripida. Fatta di minutissimi frammenti di pietra bianca, subito s’incurva verso sinistra e conclude il tragitto a strapiombo con due saracinesche metalliche, i garage del palazzo. È incredibile quanto i pittori, che tanto lavorano con la luce, per lo più vivano al di sotto del manto stradale, potendo percepire il loro elemento più proprio soltanto poche ore al giorno, in una specie di digiuno propedeutico. A ridosso della grande curva a strapiombo, si apre una porta di ferro, davanti alla quale, ecco, qualche pianta verde e un movimento di gatti di pochi mesi si fa vivace. Più in profondità, attraverso un corridoio che s’intuisce stipato di quadri, si intravede un spazio illuminato da piccole finestre poste in alto: è questo il luogo dove Linda vive e dove Linda lavora; il luogo dove dormono i suoi quadri quando nessuna luce più li concede a noi.
Adesso incominciamo a parlare.
Linda, da quanto tempo lavori in questo studio? Perché lo hai scelto? Come ti trovi qui?
Per molto tempo ho cercato uno studio. Ne ho visti tanti in quel periodo, ma nessuno di questi era riuscito a convincermi. Poi un giorno ho notato un nuovo annuncio… l’ho lasciato decantare, era troppo lontano da qualsiasi cosa a me nota a Milano, ma la foto di quella porta blu che ora varco ogni giorno e che hai varcato anche tu mi era rimasta impressa; cosi ho deciso almeno di andarlo a vedere. Il giorno che entrai qui ebbi la medesima sensazione che ho oggi quando entro nel mio piccolo nido: mi sono sentita immediatamente a casa. Nessun altro luogo mi ha mai rapito come Lui. Sono entrata ed era inondato di luce calda. Ero entusiasta e lo confermai immediatamente. Non mi importava più che fosse difficile da raggiungere e in estrema periferia. Sono stata premiata: mi hanno aperto la metropolitana di fronte casa. Sono cinque anni che sono qui e non ho ancora avuto il coraggio di cambiarlo: credo che Lui non voglia… mi ha accolto molto volentieri e continuiamo in un amplesso abitativo molto coinvolgente.
Deve essere difficile lavorare e vivere nello stesso luogo. Ti capita di non dipingere per lunghi periodi?
Lavorare e dipingere nello stesso luogo è complicato: ogni mattina ti trovi di fronte al tuo lavoro e ne sei già immerso. Quindi, sì certo: a volte per mesi non disegno, in altri lavoro moltissimo… ad esempio mi ricordo i mesi passati a Bruxelles. Lì ho lavorato molto e ho tenuto alcuni diari… [Linda si alza e prende un quadernino che mi mostra, fig.1] questo, per esempio: l’ho iniziato e finito quasi in un giorno. Ogni volta che uscivo dalla camera e incrociavo qualcuno avevo una faccia spiritata…
Come li hai lavorati?Gessetti, pastelli, acrilici… ma anche pennarelli: materiali poveri, che si possono trovare in qualsiasi cartoleria…
Ho sempre visto i tuoi quadri di grande formato. Come sono nati invece questi “Quaderni di Bruxelles”?
Sono i primi lavori che ho fatto su carta. Mi sono ritrovata a Bruxelles senza uno studio, senza uno spazio per lavorare. Invece di ricreare una situazione dove potessi dipingere come al solito, ho deciso di tenere una serie di diari… sono quattro, tutti molto diversi fra loro: come se fossero ognuno un’analisi di un aspetto del mio lavoro. Il piccolo formato mi ha dato la possibilità di essere più istintiva, diretta.
In questi lavori vedo chiaramente che ritorna un aspetto che credo importante del tuo lavoro: la ricorrenza degli accessi, di aperture, una finestra, una porta… E c’è sempre una figura che rimane in attesa guardando la soglia…
Sì, mi sono resa conto che fosse una costante proprio in questi Quaderni… è un buco, ma anche un movimento della mano. A disegnarla è uno dei movimenti più infantili, tra l’altro… il tondo, disegnare il cerchio: al limite dello scarabocchio. Mi sono accorta che quando non è disegnata, la soglia è iscritta negli oggetti rappresentati: nelle sedie, nelle ombre, nel movimento delle braccia delle figure. È uno spazio immaginario: è uno spazio mio – sia quello che c’è al di là, sia quello che è al di qua… queste superfici aperte che dipingo non hanno alcun peso: sono limiti. Sono mondi che si specchiano e si completano. È come se il reale e quello che vorrei che fosse reale si congiungessero in queste soglie.
In questo quadro (“Senza titolo”, 2011, fig. 2) c’è il rapporto fra un’immagine disegnata e un’immagine verisimile. Ma qui il varco è molto più realistico e la figura (che è un autoritratto) è molto stilizzata: è un linea bianca che segue il contorno.
Ma guarda bene: qui dove si mima un realismo, la luce è profondamente dipinta. È tutto profondamente dipinto. Niente nella mia pittura è mai realistico fino in fondo. Poi: quella figura che ti è sembrata un autoritratto, in realtà non lo è! O piuttosto: lo è, nella misura in cui è un autoritratto anche un interno o una natura morta…
Però, più di altri pittori della tua generazione, mi sembra che tu abbia un rapporto ambivalente con la verosimiglianza pittorica…Una cosa che mi porto fin dall’inizio è mediare fra ciò che è fantastico, fra ciò che frutto della mia immaginazione e ciò che è reale. Più a livello tecnico, potrei dirti: unire nello stesso lavoro una mia personale forma di realismo pittorico, calata in un contesto che non è assolutamente reale. È la luce che dà alle figure una realtà, è lei che disegna questi particolari realistici, che dà loro una realtà che il contesto invece nega. Questa è una delle uniche cose che ricordo di aver pensato, anni e anni fa.
È un po’ l’inizio della tua pittura?
Sì. Il rischio del mio lavoro è di andare troppo da una parte. Il rischio è che uno dei due mondi non risultasse di pari importanza rispetto dell’altro. Pur non essendo reale, una stanza o una figura, essa deve restituire l’effetto di una stanza possibile. Al contempo, l’altro spazio, quello immaginario, deve dare un’impressione di possibilità, pur non essendo possibile. Tante volte mi è capitato di dipingere e trovare che uno dei due mondi era troppo, direi soltanto troppo (non so quale aggettivo usare): la maggior forza di uno dei due negava la parità fra i due mondi, la loro vita. Sento che entrambi debbano avere la stessa complementarietà… forse affinché si annullino.
Ho come l’impressione che questi due spazi si debbano annullare per sottolineare un’altra dimensione: il tempo. C’è molta ricerca dello spazio nei tuoi quadri, molta raffigurazione di spazi realistici e irreali: ma è come se tutto fosse diretto a raffigurare la dimensione temporale.
Sì… questo lo sento molto mio. Stavo leggendo proprio oggi Sul concetto di tempo di Heidegger… e pensavo che il tempo è proprio connesso all’azione, all’agire: il tempo sono io: sono io che faccio scorrere il tempo, io che agisco, faccio: il tempo non è altro che un oggetto che si muove nello spazio, io che dipingo nello spazio. Spazio e tempo sono dimensioni molto legate: nella pittura è molto difficile riuscire a scioglierne il nodo.
Forse perché la pittura ha come proprio specifico invalicabile il visibile…
E in più non c’è neanche il movimento in questi miei quadri…
Linda, a me sembra che il movimento ci sia, composto dalle geometrie degli spazi che descrivi. E poi c’è la profondità di campo, che segna uno spazio percorribile. Al fianco di un tempo statico molto marcato, sono sempre descritte delle fughe, dei percorsi che forse rappresentano visibilmente il tempo che scorre nell’azione…
Hai ragione. Allora, se il primo sono le soglie e gli accessi, il tempo è forse il secondo pezzo del mio puzzle. Penso che i miei quadri nascano dal tempo dell’attesa. Perché il mutamento posso esprimerlo soltanto a fine di un ciclo: mi guardo a posteriori e vedo dove stava l’attesa dalla quale ho iniziato a dipingere. Lì capisco che tutto è stato un’attesa di quel mutamento.
Linda, per ciclo intendi un ciclo pittorico, un progetto di pittura?
Sì, sì. Un ciclo pittorico. Il passaggio fra un ciclo e un altro è solitamente fatto di smottamenti. Da lì nasce un nuovo modo di vedere la pittura.
Quanti sono stati, fino ad ora, i tuoi “smottamenti”?
Io ne vedo tre. È una semplificazione che faccio ora, una organizzazione, alla luce di chi sono adesso: è una cosa che fa comodo a me per capire dove voglio andare. Il primo è stato Alchimia del buio e si è concluso quando ho deciso di rifiutare di dipingere altre figure umane. Da lì in poi ho dipinto soltanto Nature morte, in cui della figura rimaneva soltanto la presenza, il resto… in ognuno di loro si può sempre ritrovare un fortissimo senso di attesa: gli oggetti erano sospesi in uno spazio non definito, oggetti senza piedistalli, senza coordinate, immobili. È stata una reazione all’eliminazione della figura umana che è sempre stato un tratto forte della mia formazione pittorica. Il ciclo delle nature morte mi è stato molto utile, anche a livello pratico, perché mi ha smosso il senso pittorico: mi ha permesso di indagarlo, di distruggerlo.
Ha cambiato il tuo modo di vedere la pittura, quindi?
L’idea che mi ha mosso nel ciclo delle nature morte è che qualsiasi cosa ha la dignità di essere rappresentata e ha la dignità di rappresentare il nostro mondo; ogni vicenda del mondo, ogni sua storia può essere evocata attraverso una natura morta, senza essere rappresentata direttamente. La cosa fondamentale allora diventa il senso pittorico: l’oggetto può essere una mela, una gabbietta per i gatti, una scatola vuota che sto per buttare, qualsiasi cosa che può avere un grande senso simbolico, ma anche no. La mela, per esempio; c’è la sua grande storia di simbolo, ma ciò che gli dà il potere di evocare il mondo è la pittura, è soltanto il senso pittorico che riesco ad imprimere nella sua materia.
Nei tuoi quadri più recenti (come per es. “Tutto potrebbe essere trasformato in oro”, 2011, fig. 3) ci sono vistose colature di colore sulla tela, che non c’erano nei tuoi quadri precedenti, per esempio quelli di “Alchimia del buio”. Perché adesso lo lasci colare?
Io ero molto più precisa prima. Poi da quando dipingo le nature morte, ho distrutto tutto: ho distrutto tutte le certezze che avevo prima. Pian piano ho capito che mi interessava di più una pittura velata: sotto il grigio ci sono mille colori differenti. Se sei di fronte ad un mio quadro, percepisci tutti i mille altri colori e tutte le sfumature. La colatura è dunque un effetto di questo cambio di stile: uso un colore molto più liquido e ho voglia di lasciare più istinto alla pittura. C’è la pittura che vuole la sua parte, non sono solo io che dipingo.
Strano: ho sempre pensato che fosse la figura umana a smuove l’istinto nei pittori, con la sua carnalità, con la sua evocazione del desiderio e del gesto…Credo che sia andata così: l’uomo è più affine a me e so come è fatto, conosco come funziona, anatomicamente. Poi, oggi, 2013, mi sono fatta la mia idea di cosa è l’essere umano. E quindi mi smuove molto di più una stanza, una natura morta, un oggetto che è innocente, che non ha nessuna colpa: ha il compito di esistere perché noi l’abbiamo creato e non ha nessun scopo “suo”, nessun doppio fine, è vuoto di qualsiasi ragionamento umano… è succube.
Come i figli? Non hanno colpe, ma portano con sé tutte le colpe di chi le ha pensati e generati…
Sì, è come se fossero portatori, involontari, di tutto quello che è la storia dell’uomo: ecco questo per me è lo spazio, nido o universo.
Le figure per te sono sempre state oggetto di un tracciato molto preciso, che le circoscrive in maniera molto netta. Spesso è proprio una linea bianca che forma la loro sagoma. Questo modo di dipingere la figura umana è segno, quindi, per te, di una colpa? Essi sono chiari, alla luce della pittura, sempre in giudizio e sempre giudicati?
Sì, diciamo: gli uomini non sono fraintendibili per me. La sagoma bianca è come un taglio, uno sfregio bianco sulla tela nera, secco, senza nessun orpello. Mentre invece l’oggetto mi libera il tratto, è più indecidibile.
Cosa fa la pittura allora quando dipinge gli oggetti?
… eh… li accarezza. Mentre nella figura umana il colore è più deciso, è determinato: è quel colore che serve per dare la forma. Negli oggetti, negli spazi, nelle nature morte, il colore è più un aiuto per decifrarli sensorialmente, per farli apparire. Non c’è mai un colore, ma sempre una serie di colori, una serie di velature. Perché l’oggetto, essendo stato creato dall’uomo, porta con sé il pensiero di tutti gli umani che hanno partecipato al perfezionamento di quel singolo oggetto, non di un uomo singolo, né l’umanità intera, ma quella serie specifica che ha creato quell’oggetto. Ecco il perché delle velature e della liberazione del colore quando dipingo gli oggetti.
Dopo “Alchimia del buio” e “Nature morte”, dove va adesso la tua pittura?
La pittura che sto facendo adesso… non so dire, è ancora… “fresca” (ride). Non so dove sto andando adesso con la pittura (ride). Dopo le nature morte non mi basta più l’oggetto… e sta entrando nel dipinto in maniera più decisa il campo delle mie esperienze, della mia vita. È un po’ un collegamento ad Alchimia del buio, ma con tutto quello che ho imparato dalle Nature morte. Sono curiosa di vedere come dipingerò la figura umana…
C’è una immagine però che secondo me però ha la funzione di giuntura fra i due periodi precedenti e quello che stai dipingendo adesso: ed è il quadro “La scelta della castità riaccende il desiderio” (2012). Fra i quadri che vedo adesso appesi alle tue pareti, c’è la ripresa della stessa immagine: le mani giunte. Sono il resto della figura umana che ti sei portata dentro anche durante le nature morte? Da dove viene questa immagine?
Sì, dopo tanto tempo che facevo nature morte ho avuto sempre più voglia di dipingere un incarnato…
Ecco diciamo la verità…Eh sì, la verità è questa (ride).
La ragione è, allora, tutta pittorica?
Sono una pittrice e posso dirlo: la ragione è tutta pittorica, sì (ride)… mi sono detta: ho voglia di dipingere un incarnato. Avevo questi colori bellissimi… l’immagine delle mani, giunte in preghiera, è venuta poco dopo la morte dell’artista per cui ho lavorato per sette anni. Ho lavorato con Vincenzo Ferrari, un artista concettuale, verbo visivo. Poco dopo la laurea all’Accademia di Brera, sono diventata sua assistente. Dovevo rimanere con lui almeno per 3 anni e poi sono rimasta per 7: mi conosceva più di tutti gli altri. Tre giorni alla settimana ero con lui e lavoravamo insieme.
Com’era lavorare con lui?
Lavorare con lui era molto particolare, bello, ma particolare. Lui ha avuto un incidente ed è rimasto paralizzato, tetraplegico: poteva muovere soltanto la testa. Io l’ho conosciuto dopo l’incidente. Parlava tantissimo (ride), ne ridevamo insieme di questa sua abbondanza di parole… suppliva alla mancanza di movimento del corpo. Vincenzo mi ha scelta, ma non gli interessava il mio lavora: mi diceva: mi interessi tu, come persona, tanto quello che dipingi adesso lo butteri via tutto… Non poteva più dipingere se non usando le mani di altre persone. Prima di me ci sono state le mani di altre due ragazze. Così i primi anni li ho passati ad imparare come lui usava le mani. Dopo questo periodo, abbiamo iniziato a fare opere nuove. Da lì, ho iniziato a dargli consigli (cosa che non mi era richiesta), fino a collaborare con lui direttamente al processo creativo. Fino a che l’ho sentito dire ad un gallerista che io non ero più la sua assistente, ma qualcosa di più, che le opere non sarebbero potute nascere senza di me. Io sono stata molto contenta… Dopo sette anni di lavoro insieme, Vincenzo è morto. E il ragionamento è stato contrario. Nel momento in cui ho disegnato le mani incrociate, non ho pensato direttamente a lui. Ma piano piano, dipingendone altre, mentre stavo dipingendo, ho realizzato che io ero stata le sue mani come lui era stato le mie. Dopo un anno senza di lui ho iniziato a sentire la sua mancanza. Queste mani incrociate sono dedicate a lui.
È stato difficile mantenere un tuo stile, mentre prestavi le tue mani alle opere di Vincenzo Ferrari?
È stato anche molto naturale. Tieni presente che lui è un artista concettuale. Quindi la sua pittura era strumentale. Lui non faceva un lavoro pittorico come il mio. Credo sia stata una questione di rispetto reciproco. Mi ha sempre distrutto, distrutto completamente i miei lavori. Fino ad Alchimia del buio: lì mi è scesa anche una lacrima. Quando gli ho fatto vedere quel ciclo, abbiamo passato tutta una giornata a parlare dei miei quadri… lui era entusiasta: mi ha detto, “sei arrivata”. “Dimmi dove che io non lo so!”, gli ho risposto io… Vincenzo intendeva a questa luce…
La luce è importante per te?
Trovo che il contrasto ombra luce sia importante, sì. Una delle cose più presenti nella vita dell’uomo, sia simbolicamente, sia fisicamente. Passare dalle zone di luce alle zone di buio, passare dalle tua chiarezza mentale fino alle zone di istinto. Per esempio il parto: passi da una zona totalmente buia ad una di tutta luce, oppure il contrario, la morte… come un ritorno alla nascita, al buio della nascita.
La pittura è nata nelle grotte, nel buio delle grotte. Ma per te, oggi, cosa è dipingere?
È, prima di tutto, un atto istintivo: nessuno ci chiede di farlo. È solo un modo per vivere, è un modo per districarsi nella noia della condizione umana, nel suo essere una tragicommedia. È un luogo, un mondo nel quale si crede di trovare delle risposte che finiscono sempre coll’essere nuove domande. È un modo per indagare queste poche decine di anni che ci vengono messe a disposizione…
Grazie Linda, è stata bello parlare di pittura con te.
Grazie a te.
(agosto-settembre, 2013)
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).