C’è chi, affrontando il lessico romanesco pasoliniano in studi disciplinarmente autoreferenziali, ha imboccato la via di un democristianesimo linguistico documentale, all’interno di asfittiche microriserve di caccia, tracciando solidarietà impossibili su valori intermedi. Qualcuno ha provato a scremare, da un corpus di 710 voci dialettali di Ragazzi di vita, quel che è romanesco (nuovo o tradizionale) da quel che non lo è, arrivando a concludere, dopo aver messo mano un po’ allegramente alle sue fonti, che una parte cospicua di quelle voci originerebbe dall’apporto di dialettofoni emigrati dall’Umbria meridionale e venuti a stare nella capitale (Renzo Bruschi, Intorno al romanesco di P. P. Pasolini, “Contributi di dialettologia umbra”, I, 1981, pp. 316-371, a p. 360). Altri, molto più intelligentemente e sia pur con qualche esagerazione, hanno fatto risaltare la forte matrice romanesco-letteraria del lessico dialettale del romanzo (Monique Jacqmain, Appunti sui glossari pasoliniani, “Linguistica Antverpiensia”, IV, 1970, pp. 109-153, a p. 152 sg.). Altri ancora hanno insistito sulle “anticipazioni” lessicali pasoliniane del neoromanesco giovanile dei decenni a seguire, considerando Ragazzi di vita e Una vita violenta «un punto di snodo storicamente e sociolinguisticamente rilevante, in quanto relativi al mondo dei ragazzi della marginalità periferica romana dell’immediato dopoguerra, padri o fratelli maggiori dei giovani emarginati appartenenti al mondo della droga» (Paolo D’Achille, Lessico romanesco pasoliniano e linguaggio giovanile (a proposito di paraculo) [1999], in Id., Claudio Giovanardi, Dal Belli ar Cipolla. Conservazione e innovazione nel romanesco contemporaneo, Roma, Carocci, 2001, pp. 151-168, a p. 157). Giusto. Va però precisato che non tutte le voci segnalate come “neologismi” pasoliniani in contesto italiano, a scorrere anche solo un po’ a naso la documentazione più prevedibile, sono tali nella storia del romanesco. È il caso di sconocchiato (‘slombato, sderenato’), familiarissima a er Pecetto e attestata in Una vita violenta:
Tommasino camminava in mezzo alla strada, con le mani dentro le saccoccette, all’altezza dei gomiti, del suo giubbotto di cuoio: una fetta dopo l’altra, come gli facessero male, piegato un po’ in avanti e tutto sconocchiato.
Sconocchiarsi ‘stancarsi’ è in Belli («’Gnisempre peggio, pòra vecchia nostra: / piú vva avanti, ppiú vva, ppiú sse sconocchia. / Già er barbozzo je tocca le gginocchia, / bbe’ cc’abbi men età de cuer che mmostra», La vecchiarella ammalata, vv. 1-4) e sconocchiare – ma qui l’oggetto è non umano, e i significati sono altri – ancora in Trilussa:
L’acqua cascava a secchi, e un boja vento / che pareva er lamento d’un cristiano, / soffiava e s’infrociava a tradimento / pe’ sconocchià [‘rompere, spezzare’] li stecchi / dell’arberi più vecchi (Li peccati capitali, vv. 10-14);
D’accordo co’ Nettuno e co’ Vurcano / faceva l’uragani e le tempeste / pe’ sconocchià [‘sconquassare’] li boschi e le foreste / e spaccà le montagne a tutto spiano (Giove, II, vv. 5-8).
Di altri presunti neologismi pasoliniani, ancora, va almeno segnalata l’esiguità dello scarto semantico rispetto ai precedenti. Come per grecile (‘ventre’), anch’esso documentato in Una vita violenta:
Tutti sbracciandosi, urlando, guardavano verso un punto: e verso quel punto guardavano pure Passalacqua, Di Nicola, Di Santo, e gli altri compagni, bagnati fino al grecile, ch’erano lì da un po’, a aspettare la marina dal cielo.
Negli anni Cinquanta grecile, come ‘ventriglio (di pollo)’, vanta più di mezzo secolo di storia nel dialetto di Roma. Non vi si sottrae Trilussa: «Spece co’ le galline è più feroce: / le strozza, poi le scanna cór cortello, / je strappa er core, er fegheto, er cervello, / le budella, er grecile e se li coce» (Er serrajo: la ribbejone, vv. 49-52).
Il gioco delle retrodatazioni, naturalmente, è assai più facile da giocare se si guarda oltre il territorio romanesco e laziale: cazziata ‘partaccia’ (oltre a cazziare ‘rimproverare’), che Pasolini fa pronunciare dal protagonista di Una vita violenta («Io t’ho fatto tutta ’sta cazziata, ’sta romanzina, perché me sento da volette bbene»), è lemmatizzata, per es., in un dizionarietto dialettale di area campana d’inizio Novecento (Felice De Maria, Dizionarietto dialettale-italiano della provincia di Avellino e paesi limitrofi, Avellino, Tip. Pergola, 1908). È poi molto pericoloso, trattandosi di Pasolini, ritenere senza dubbio “italiane” le parole romanesche dei due romanzi solo perché «compaiono nella parte diegetica» (D’Achille, art. cit., p. 166 nota 51): se fosse così – cito qua e là da Ragazzi di vita – vi rientrerebbero forme come baccajare, bare ‘bar’, canzona ‘canzone’, fijetto, gajardo, ghitarra, jazze, panza, paragulo, scaja, sgarare, tubbo, ubbriaco, zagajare, ecc., alcune delle quali convivono con le alternative nazionali (chitarra, pancia, ubriaco, ecc.). Sgarro, altro supposto neologismo pasoliniano, non è peraltro né in Ragazzi di vita né in Una vita violenta, e così pipinaro: sono pipinara e sgaro le forme attestate. Quest’ultima è accolta, nel secondo romanzo, con i significati di ‘bottino’ (3 volte) e di ‘spacco’ (1 volta); e sgarro, per ‘strappo’, era già registrato nel Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini (ed. postuma a cura di Bruno Migliorini, Roma, Leonardo Da Vinci, 19452), per ‘ferita’ in altre testimonianze primo-novecentesche.
Di Ragazzi di vita, sul bimestrale “Paragone” – sezione “Letteratura” –, esce nel 1951 una prima versione del capitolo introduttivo (Il Ferrobedò, II/6, 1951, pp. 56-71), a cui Pasolini aveva cominciato ad attendere dal 1950. Sono anni nei quali lo scrittore lavora alacremente al progetto da cui sarebbe scaturito il romanzo. Il primo (Il Ferrobedò) di tre racconti dattiloscritti, autonomi ma interconnessi (gli altri due: Li belli pischelli, Terracina), che sono all’Archivio Bonsanti del fiorentino Gabinetto Viesseux registrati sotto l’etichetta Il Ferrobedò (e altri romanzi e racconti, passati in parte in «Ragazzi di vita») (1950-51), contiene una versione di quel capitolo iniziale sostanzialmente conforme a quella pubblicata su “Paragone”. L’ultimo racconto dei tre, conservato all’archivio Bonsanti in due diverse copie, racconta la morte in mare del Riccetto, che si era visto allora assegnato il nome di Luciano: il personaggio, «avventuratosi da solo in barca al largo del Circeo, viene assalito dal libeccio senza riuscire a mettersi in salvo» (Giorgio Nisini, Tracce di un racconto marino. Per una lettura di Terracina di Pier Paolo Pasolini, in Antonio Barbuto, a cura di, Per Mario Petrucciani, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 235-242, a p. 236).
Terracina non confluirà in Ragazzi di vita e rimarrà parzialmente inedito fino al 1995, quando sarà ripescato da Walter Siti e inserito in una silloge postuma di testi pasoliniani in prosa: Storie della città di Dio. Racconti e cronache romane (1950-1966) (Torino, Einaudi, 1995). Come originario della località costiera a sud di Latina era allora immaginato Marcello, anche lui un ragazzo di vita. Ecco come, in un rapido scambio di battute con Luciano, reagiva a una provocazione dell’amico nel Ferrobedò del 1951:
Lucià se ne stava nudo, disteso sull’erbaccia, con le mani sulla nuca guardando per aria.
‘Ce sei mai stato ar mare?’ disse ad un tratto. ‘Ammazzete – rispose Marcè – ce so’ nato!’ Lucià tacque per un poco, sempre guardando in alto, poi disse con aria tranquilla, sapendo che a Marcè quella parola gli rodeva: ‘Burino.’ ‘A stronzo – disse calmo Marcè – le tue parole nun me fanno differenza.’ E aggiunse: ‘Roma è più grande de Teracina, ma er mare è più grande de Roma.’ ‘Ce lo so’ rispose Lucià.
‘Quanto me andrebbe de fa na gita in barca!’ disse poi accendendosi una cicca. ‘Ar Ciriola – fece Marcè – le danno in affitto.’ ‘E chi ce la dà la grana?’ ‘Se va a tubbature puro noi, che te frega – disse Marcè, alzandosi su un gomito, contento per l’idea – Agnolo già ha rimediato er cacciagomme.’ (p. 61 sg.).
In Ragazzi di vita il passo diventerà:
Il Riccetto se ne stava ignudo, lungo sull’erbaccia, con le mani sotto la nuca guardando in aria.
«Ce sei ito mai a Ostia?» domandò a Marcello tutt’a un botto. «Ammazzete,» rispose Marcello, «che, nun ce lo sai che ce so’ nato?» «Ma li mortè,» fece il Riccetto con una smorfia squadrandolo, «mica me l’avevi mai detto sa’!» «Embè?» fece l’altro. «Ce sei mai stato co ’a nave in mezzo ar mare?» chiese curioso il Riccetto. «Come no,» fece Marcello sornione. «Insin’addove?» riprese il Riccetto. «Ammazzete, Riccè,» disse tutto contento Marcello, «quante cose voi sapè! E cchi se ricorda, nun c’avevo manco tre anni, nun c’avevo!» «Me sa che in nave ce sei ito quanto me, a balordo!» fece sprezzante il Riccetto. «Sto c…,» ribatté pronto l’altro, «c’annavo tutti li ciorni su ’r barcone a vela de mi zzio!». Ma vaffan…, va!» fece il Riccetto schioccando con la bocca «Ih li zeeeeppi,» fece poi, guardando sull’acqua, «li zeeeeppi!» Sul pelo della corrente passavano un po’ di rottami, una cassetta fracica e un orinale. Il Riccetto e Marcello si fecero sull’orlo del fiume nero d’olio. «Quanto me piacerebbe de famme na gita ’n barca!» disse il Riccetto con aria accorata, guardando la cassetta che se ne andava al suo destino dondolando tra l’immondezza. «Che nun ce lo sai che ar Ciriola ’e danno in affitto ’e barche?» disse Marcello. «Sì, e chi ce passa ’a grana,» fece cupo il Riccetto. «A locco, se va a tubbature pure noi, che te frega» disse Marcello tutto infervorato all’idea: «Agnoletto già ha rimediato er cacciagomme.»
Marcello è detto ora nativo del lido di Roma; a ribadirlo, qualche pagina dopo, è Agnolo: gli urlerà «Io mica so’ de Ostia!» (nel 1951, coerentemente con la scelta di farne un latinense, gli aveva detto: «Io mica so’ de Teracina», Il Ferrobedò, cit, p. 68). Luciano, nel Ferrobedò, aveva dato a Marcello del burino: si ritiene, evidentemente, un romano de Roma. La lingua di Marcello, dal 1951 al 1955, resta però nella sostanza immutata. Che il personaggio sia di Ostia oppure di Terracina, altrettanto evidentemente, all’autore poco importa: alla faccia del realismo (linguistico).
Silvio Parrello è nato il 13 gennaio 1943, in quello stesso anno in cui Pasolini, nel primo capitolo di Ragazzi di vita, lo presenta come già grandicello. Amerigo, il «meglio guappo di Pietralata» che muore gettandosi dal secondo pieno dell’ospedale in cui è piantonato, quello dalla «faccia così cattiva che in qualsiasi parte del corpo uno lo toccava, pareva che dovesse farsi male», faceva il pasticciere. Marcello, dato per spacciato dopo il crollo (effettivamente avvenuto, il 17 marzo 1951) dell’ala sinistra delle scuole elementari Giorgio Franceschi di via di Donna Olimpia, dove si è sistemata anche la famiglia del Riccetto, è vivo e vegeto e si chiama Adrover.
Altre piccole spallate al presunto documentarismo di un grande intellettuale, un artista generoso, un coraggioso interprete delle tante tensioni, ambiguità, contraddizioni del nostro Novecento.
Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).